[di Ettore Masina • 21.10.01] Non possiamo continuare a trascorrere le nostre serate, inerti, seduti davanti al teleschermo, scuotendo la testa e lasciandoci andare a qualche sospiro di pietà mentre vediamo i bambini che vagano affamati e terrorizzati per montagne riarse, calcinate da terribili inverni e da estati roventi; o marciscono in campi-profughi che sembrano, tanto sono disfatti e marcescenti, i resti di orribili tragedie di un antico passato...

ETTORE MASINA – LA “LETTERA” DI OTTOBRE 2001

Non possiamo continuare a trascorrere le nostre serate, inerti, seduti davanti al teleschermo, scuotendo la testa e lasciandoci andare a qualche sospiro di pietà mentre vediamo i bambini che vagano affamati e terrorizzati per montagne riarse, calcinate da terribili inverni e da estati roventi; o marciscono in campi-profughi che sembrano, tanto sono disfatti e marcescenti, i resti di orribili tragedie di un antico passato. Basta guardare le guance di quei bellissimi bambini, erose da dermatiti, per leggervi una condanna per chi di noi, che creda nelle necessità della pace, non si alza e non dice: “Dovete ascoltare anche me”: quelle faccine sono il volto del secolo appena iniziato, il volto dei nostri bambini. Nord e Sud, più che mai, un solo futuro. Non dobbiamo stare zitti e lasciar parlare soltanto Berlusconi, con la sua cultura da “cummenda”, le sue orribili gaffes e le sue sfrontate bugie; né le ormai tragiche macchiette di don Baget Bozzo, cappellano di corte, prima di Craxi e adesso del duca di Arcore; o di Oriana Fallaci, che sventola il suo furore anti-arabo come il fantasma di Canterville agitava i suoi sudari insanguinati: neppure più razzismo, un delirio pagato milioni dal più “grosso” quotidiano italiano. Non dobbiamo limitarci ad ascoltare quei megafoni di guerra che sono diventati i giornalisti televisivi della RAI e di Mediaset. Dobbiamo parlare anche noi e non solo con i nostri intimi; uscire dalle nostre case per dialogare sommessamente con i nostri vicini e con i nostri compagni di lavoro, per gridare nelle piazze quello che in televisione non sentiamo mai dire, né alla radio, e che ben raramente leggiamo sui “grandi” giornali: che una guerra fatta mobilitando (e progettando di usare in varie parti del mondo, parola di Bush) una delle più grandi armate che la storia ricordi, non potrà mai essere “umanitaria” perché le armate non hanno occhi capaci di vedere gli umani; che non potrà mai essere “chirurgica” un’offensiva affidata a un gigantesco apparato militare perché un gigante in camera operatoria non può fare che disastri; che non può essere un’ “operazione di polizia” quella in cui i giudici e i poliziotti sono le parti lese; che l’ONU è stata ancora un volta vilipesa e beffata perché questa è una guerra degli Stati Uniti e un pochino – ma soltanto un pochino – della NATO essendo i paesi dell’Alleanza atlantica, per il momento, relegati al rango di semplici comparse; che la maggior parte dei governi islamici “moderati” è in realtà governata da dittature: l’Egitto o, peggio, la Siria e l’Arabia Saudita; il Pakistan o, peggio, la Turchia; e i popoli di quegli sciagurati paesi sono in crescente fermento contro i loro governi; cosicché l’adesione ai piani di Bush – a denti stretti quella di Islamabad, riottosa quella di Damasco, volonterosa quella del Cairo, automatica quella di Ankara – possono, da un momento all’altro rivelarsi illusorie mentre è del tutto prevedibile che, con la scusa del terrorismo, i dittatori induriranno la loro ferocia repressiva. E ancora: che gli armati dell’Alleanza del Nord (come denunziano le donne afghane in esilio) sono altrettanti fanatici che i talebani; che soltanto con una lunga lotta fra fazioni gli americani potranno mettere sul trono afghano uno dei tanti fantocci voluti dal genio della CIA (come quelli esperimentati, con tragici risultati a Panama, a Managua e a Mogadiscio per non parlare, naturalmente, di Santiago del Cile). E ancora: che non è nel futuro ma già nel presente il calvario del popolo afghano, al quale non rimane che una fuga collettiva nei deserti: una specie di esodo biblico, ma senza speranza perché in quell’immensa area non esistono Terre Promesse, esistono soltanto popoli affamati – e ricchi senza pietà che si appoggiano a spietati generali. E infine: che senza una radicale e drammaticamente urgente soluzione della questione medio-orientale che ormai va avviandosi alla caduta di Arafat (dopo di lui il Terrore), le masse islamiche continueranno a ritenere l’azione di Washington arbitraria, ipocrita ed imperialista. Poiché tutte queste cose sono sacrosantamente vere ma nessuno le dice, qualcuno deve pur dirle e quel qualcuno siamo noi. Trecentocinquant’anni fa, imperversando una vera e propria guerra di religione così scriveva a Pascal sua sorella Jacqueline: “So che si dice di non spettare a giovanette il compito di difendere la verità. Ma quando i vescovi dimostrano un coraggio da donzelle bisognerà pure che le donzelle abbiano un coraggio da vescovi. Può darsi che difendere la verità non sia compito nostro ma è certo dovere morire per essa”. Dono idealmente questa citazione non ai vescovi della Chiesa (benché Dio sa se i Sodano, i Ruini e i Maggiolini non ne avrebbero bisogno!) ma ai “vescovi di complemento”, quei laici che tengono cattedra sui giornali importanti. Tanto per fare un esempio: su “La Repubblica” è comparso un lungo articolo di Lucio Caracciolo a proposito della Marcia Perugia-Assisi. Caracciolo non è Berlusconi, prima di parlare pensa; ma, come dicevano gli antichi, quandoque dormitat et bonus Omerus, cioè talvolta persino il grande Omero, un po’ sonnolento, ha scritto brutti versi. Così Caracciolo ci prende il bavero senza conoscerci, facendosi un’immagine di comodo di noi che ci ostiniamo a credere che la pace sia sempre e in ogni occasione, anche la più ardua, superiore alla guerra. Caracciolo ci incasella in una delle seguenti tre categorie: 1) quella degli anacoreti, rispettabili; ma, dice, “non si può avere circolazione di idee fra chi sceglie di vivere nel proprio deserto immaginario e chi, bene o male, nuota nella società umana”; 2) quella degli impauriti; 3) quella degli sciocchi irresponsabili; tali saremmo perché, non volendo la guerra contro il terrorismo, ci assumeremmo la responsabilità della possibile morte di altri pacifici cittadini. Questi sciocchi credono (noi crederemmo) che “lo scontro con il terrorismo è affare degli americani”, “che la guerra in corso sia assimilabile ai grandi conflitti mondiali del Novecento”, infine “che la guerra è la negazione della politica”. Ora – dice Caracciolo a proposito della nostre supposte convinzioni – noi saremmo dei “potenziali suicidi che non si accorgono di essere anche loro nel mirino”. Quanto al secondo punto, dice l’articolista, la guerra  che stiamo vivendo è per definizione una guerra “non convenzionale, coperta” di cui non sapremo nulla (quindi: come faremo a giudicarla?)..Terzo: la guerra, questa guerra, “non è la negazione della politica, è l’estrema risorsa della politica. Oppure è follìa (….). La guerra si fa per difendersi e per restaurare la pace in un ambiente geopolitico possibilmente più stabile. Quanto meno americana e più globale sarà questa guerra, tanto più utile sarà (…). Altrimenti i pacifisti avranno avuto ragione, malgrado se stessi .Ma i vincitori non permetteranno loro di celebrare”. Sono passati 12 giorni dalla pubblicazione di questo articolo: la guerra è più che mai americana, essendo gli alleati della NATO (salvo la Gran Bretagna del fondamentalista Blair) relegati ai  margini; un’immensa armata “convenzionale” si dispiega dal Tagikistan al Golfo Persico; le città afghane vengono “convenzionalmente” bombardate; 7 milioni di donne, vecchi e bambini, a causa dei bombardamenti, non possono più essere raggiunti da aiuti alimentari e un numero spaventoso di essi è condannato alla morte per fame. Davvero tutto questo non somiglia alle altre guerre del XX secolo? E allora? Domenica noi non celebreremo una festa spensierata e infantile: sappiamo bene di essere anche noi “nel mirino”. Ma celebreremo convinzioni che a noi sembrano logiche, pulite, realistiche. Saremo magari degli anacoreti, ma don Giuseppe Dossetti, del quale Lei, caro Caracciolo, avrà certamente sentito parlare, amava ricordare che anche i monaci, se una città veniva colpita dalla peste, lasciavano i deserti per andare a servire i poveri. Non pensi che ci nascondiamo dietro  un dito. Noi crediamo che proprio perché Bin Laden ha dichiarato guerra a tutto il mondo e compiuto un orrendo crimine contro l’umanità se ne debba occupare l’ONU con un’operazione di polizia internazionale che lo assicuri alla giustizia, senza massacri di civili; crediamo che ben più della forza delle armi, che ha già fatto diventare Bin Laden, nell’immaginario di grandi masse islamiche, una specie di Robin Hood asiatico e rischia di trasformarlo in un martire, sarebbe di importanza fatale la morsa finanziaria sugli enormi capitali di cui dispone; ma essa andrebbe stretta non soltanto, come si è fatto, alle società a lui chiaramente riconducibili ma a tutte le zone nere dell’economia internazionale, là dove certamente sta il terrorismo e con il terrorismo inquinano la vita del globo il narcotraffico, il commercio delle armi e lo sfruttamento dei poveri. Noi crediamo che vadano spenti i focolai di disperazione accanto ai quali il fanatismo cova le sue orrende perversioni; crediamo che le somme orribili (uso la parola giusta: orribili, nel senso che fanno orrore) spese in questi giorni per dispiegare la Grande Armata potrebbero essere determinanti se impiegate per rimuovere le ingiustizie più atroci che connotano la Terra. Le pare davvero follìa, la nostra? Le pare che sia soltanto Lei, Caracciolo, a “nuotare nella società umana”? Tutti ci portiamo sulle spalle la croce di tante guerre inutili, del terrorismo nucleare, delle feroci ingiustizie comminate ai popoli poveri. Domenica noi faremo una marcia nel quieto panorama dell’Umbria di Francesco e di Capitini. Cammineremo per significare che non si può più stare immobili, attaccati come le ostriche alla carene dei vascelli delle violenze: quelle dei fuori-legge e quelle degli imperatori. Non si può più stare attaccati alle vecchie logiche che storpiano il buon senso e finiscono inevitabilmente per colpire i più indifesi. E vede, Caracciolo, avremo certamente due grandi gioie: quella di ritrovarci in tanti e quella di sapere che – giustizia senza vendetta, pace nella giustizia, capacità di amarsi nelle differenze – questa nostra “demenza” è la ripulsa più radicale del terrorismo, il suo esatto contrario. (Ettore Masina)