[di Ettore Masina • 28.05.04] Voi, miei coetanei, che avete visto le nostre città distrutte da una guerra ormai lontana nel tempo (ma come vicina, in  certi sogni, all'improvviso), e conoscete l'odore acre delle macerie, l'atroce insensatezza di un muro su cui stava ancora appesa una fotografia in cornice, lassù  dove non potevate più salire; e voi, anziani e meno anziani, che avete lavorato e lavorato per avere una casa vostra e, per comprarla, avete detto di no, a molti piaceri, sembrandovi che soltanto una casa vostra potesse dare a voi e ai vostri figli sicurezza e serenità; e voi, giovani che sognate di avere la vostra casa e qualcuno di voi va persino a visitare un cantiere dove tutto gli sembra muoversi troppo lentamente per la sua fretta; tutti voi che sentite che un'abitazione  è fatta di mattoni e di calce ma anche di sogni e di passato, di parole e risate e baci e di futuro, arrestatevi un istante, vi prego, davanti alla Philadelphia Road di Rafah, Gaza Strip, tre ore di volo da noi...

ETTORE MASINA: “PALESTINA”

Voi, miei coetanei, che avete visto le nostre città distrutte da una guerra ormai lontana nel tempo (ma come vicina, in  certi sogni, all’improvviso), e conoscete l’odore acre delle macerie, l’atroce insensatezza di un muro su cui stava ancora appesa una fotografia in cornice, lassù  dove non potevate più salire; e voi, anziani e meno anziani, che avete lavorato e lavorato per avere una casa vostra e, per comprarla, avete detto di no, a molti piaceri, sembrandovi che soltanto una casa vostra potesse dare a voi e ai vostri figli sicurezza e serenità; e voi, giovani che sognate di avere la vostra casa e qualcuno di voi va persino a visitare un cantiere dove tutto gli sembra muoversi troppo lentamente per la sua fretta; tutti voi che sentite che un’abitazione  è fatta di mattoni e di calce ma anche di sogni e di passato, di parole e risate e baci e di futuro, arrestatevi un istante, vi prego, davanti alla Philadelphia Road di Rafah, Gaza Strip, tre ore di volo da noi. Questa nuova strada, dal bel nome che significa “amor di fratelli” la stanno creando i bulldozers di Sharon per spianare una “zona militare” verso il confine egiziano. I filmati che la RAI avaramente ci trasmette, assieme ai gelidi commenti di un giornalista scelto, con ogni evidenza, per il suo tetro odio per i palestinesi, mostrano povera gente che fugge da quelle povere case in pericolo, portando con sé un materasso, un televisore, talvolta – ancor più pateticamente – un armadietto a specchio, un grande animale di pelouche. Così carica dei suoi poveri tesori, la gente della Philadelphia Road va a cercarsi, per la quarta o quinta volta nel corso di una generazione, un precario rifugio. Le hanno dato dieci minuti di tempo per andarsene per sempre dalla sua casa.
 
ABBANDONARE LA PROPRIA CASA
 
Conosco le abitazioni che gli israeliani stanno demolendo. Sono case povere ma non misere. C’è sempre un divano, un tappeto, una mensola con un servizio da the dalle tazzine variopinte. Se nella famiglia c’è un ragazzo, alle pareti sono attaccati i poster di qualche squadra di calcio, di qualche cantante – e, sempre, c’è un panorama di Gerusalemme la Santa. Sono case in tutto simili agli appartamentini dei nostri meridionali saliti al Nord negli anni ’50 e che nelle nuove città ricevevano il cronista in un salottino dai mobili avvolti nel cellophane. Se gli avessero detto che quel salottino, pagato ancora a fameliche rate, o le pareti adorne di quadretti di pittori della domenica avrebbero dovuto essere distrutti, che loro avrebbero dovuto andarsene entro dieci minuti, quegli uomini avrebbero impugnato un coltello o una pistola Io penso che sarei stato con loro.
La storia dei palestinesi, dal 1948 sino ad oggi, è storia di case da cui se ne sono dovuti  andare. Nei campi-profughi libanesi, ogni tanto, celebrandosi una Giornata della Memoria, le famiglie appendevano a una parete di qualche centro sociale le  chiavi portate con sé nell’esilio: quelle chiavi, che un tempo avevano aperto spazi di fresco o di tepore, di piantine in piccoli vasi o di ombrosi giardini, di sorrisi di donne e di chiasso di bambini, erano adesso segni di diritti crudelmente violati, di rapine di Stato, di destini personali e comunitari massacrati, in nome di governi che si considerano eletti da Dio e dunque legittimi prevaricatori di sotto-uomini. Migliaia di case palestinesi dovettero essere abbandonate negli anni ’40: alcune furono dinamitate dai terroristi sionisti per ampliare lo spazio del dominio israeliano, altre semplicemente (che vuol dire: con minacce e paure) passarono di proprietà, da un palestinese a un eletto. Poi, man mano che le rovinose, stoltissime guerre tentate dagli arabi venivano vinte dagli arsenali americani e dal valore militare dei discendenti dell’inerme popolo della Shoah, altre migliaia di case furono abbandonate da palestinesi, costretti da una nuova povertà a emigrare nei paesi arabi o in America Latina. Infine vennero le due intifada, e la repressione israeliana, feroce nel suo estendersi non solo agli uomini ma anche ai rifugi degli uomini. Secondo una spietata legge militare, bastava che un ragazzo tirasse una pietra contro un soldato e che qualcuno credesse di averlo identificato perché gli occupanti sequestrassero una o più stanze dell’abitazione del supposto reo.  Sbarrata la porta di quella stanza con una lamiera, i soldati la dichiaravano “zona militare” e di quando in quando venivano a controllarne i sigilli.  Le casalinghe nascondevano quelle lamiere con qualche tenda: ma vi erano talvolta giovani che glielo impedivano, bisognava vedere ogni giorno quella cicatrice di metallo, per non dimenticare.
 
ABITAZIONI DISTRUTTE
 
Tuttavia nei casi più gravi (quelli che “loro” consideravano più gravi) la sanzione era ben più terribile: un bull-dozer D-9 veniva chiamato a risolvere ogni problema giuridico e militare: in pochi istanti, il tetto di cemento della casa palestinese crollava, trascinando con sé i muri. Non si sentiva un grande rumore, le case palestinesi non sono le villette-bunker dei “coloni” sionisti, hanno poveri muri, sottili; e il ruggito della macchina veniva coperto dal pianto dei bambini e dalle urla delle donne. Dalla prima intifada ad oggi più di 4mila case sono state demolite dall’esercito israeliano, per punizione o per “motivi militari” In questi giorni, nella Striscia, 1500 persone hanno visto distruggere la propria dimora; secondo alcuni dovrebbero, nei prossimi giorni, diventare dieci volte tanto – e forse più. Grande è l’indignazione dei sionisti quando si dice loro che operazioni del genere sono di stampo nazista. Gridano che questo significa calpestare la memoria dei martiri della Shoah. Quanti orrori nascondono da cinquant’anni i governanti israeliani dietro quelle povere, sacre ombre, indimenticabili.
Quando la nuvola di polvere del crollo si dilegua si vedono le lastre di cemento del tetto inclinate sui ruderi come grandi vele bianche che non si gonfiano più di vento. I campi profughi della Palestina sono fitti di questi monumenti alla vergogna della repressione. Subito gli abitanti della casa che non c’è più cominciano a frugare fra le macerie, alla ricerca di qualche oggetto che non hanno fatto in tempo a salvare. Talvolta la ricerca è più affannosa: accade che un ufficiale (o il trattorista) abbia fretta o sia troppo nervoso e allora il crollo travolge qualche anziano o paralitico che non ha udito l’ordine di sgombero o non è riuscito a muoversi abbastanza velocemente. E’ anche accaduto che il manovratore della ruspa, affaticato da tanto lavoro, si sia distratto, non abbia sentito gridare e le ganasce del suo mostro di metallo abbiano divorato una giovane donna. Si chiamava Rachel Corrie, aveva 23 anni, era americana, cercava di opporsi alla demolizione di una casa. Molti palestinesi la conoscevano. Sognava di poter convincere i bambini che vi erano regioni del mondo in cui certe cose non accadevano. Sarebbe stato così anche nella vostra terra, ve lo prometto. I bambini stavano a sentirla, poi voltavano il capo, non volendo dirle che era una bugiarda. “Lo vedi? Lo vedi?” chiesero silenziosamente quel giorno al suo cadavere dilaniato.
 
DENSITÁ ABITATIVA E POVERTÁ
 
La Striscia di Gaza misura 374 chilometri quadrati. Su  un quarto di questa superficie sono installati 21 insediamenti israeliani,(8 mila persone). Sul resto si accalcano più di un milione e mezzo di palestinesi. La densità della popolazione palestinese, nella Striscia, è superiore a quella di Hong Kong, ma la diversità con la metropoli cinese sta in alcune semplicissime realtà, dirette conseguenze dell’occupazione: il 75% dei palestinesi vive sotto la soglia della povertà; l’acqua per loro è razionata mentre i coloni  ne fanno libero uso; a Gaza non si può arrivare dal mare, non in aereo; per giungervi in auto da Israele o dai territori occupati  essendo palestinesi (e dunque non potendo usufruire delle strade apartheid dei colo-ni)bisogna superare (quando si può: raramente) una serie quasi infinita di posti di blocco. La Striscia è un grande carcere di disperati.
Sparare cannonate in una zona in cui la densità della popolazione è così alta è certamente un crimine di guerra: lo ha detto il Consiglio di Sicurezza, l’altro giorno. Gli Stati  Uniti, questa volta, non hanno esercitato il loro diritto di veto. Tanto si sa bene cosa facciano i governanti israeliani dei documenti dell’ONU; li gettano – ha detto un loro portavoce ufficiale – nella “pattumiera della storia”. Questa volta gettano con quella spazzatura più di 40 morti e un’ottantina di feriti.
 
GRIDO
 
Ha scritto l’israeliana Nurid Peled, Premio Sackarov del parlamento europeo per la libertà di pensiero: “In questo inferno non restiamo che noi, le vittime delle due parti che cercano di arrestare questa follia. Noi siamo i soli che cercano di salvare questi bambini dalla loro terribile sorte di carnefici e vittime, che cercano di spiegare ai giovani israeliani idealisti che servire il loro Paese non vuol dire obbedire come dei robot agli ordini mortiferi, che cercano di convincere i bambini palestinesi che il loro popolo ha bisogno di loro vivi e non morti. Noi siamo i soli a gridare alle orecchie del mondo intero che per i nostri bambini morti non c’è differenza tra ciò che il mondo chiama terrorismo e ciò che chiama guerra contro il terrorismo. Per la mia piccola figlia che è morta a Gerusalemme perché era israeliana e per i piccoli bambini che muoiono a Gaza e a Jenine e a Ramallah perché sono palestinesi, questa differenza non esiste più. Perché l’uno e l’altro, il terrore e il contro-terrore, significano la morte impietosa dii innocenti. Perché, in realtà, non esistono delle uccisioni civilizzate di innocenti e delle uccisioni barbare di innocenti. Non esiste che l’uccisione criminale degli innocenti”. Ha scritto ancora Nurid Peled: “Io invito tutti i genitori del mondo a riunirsi in questa collettività le cui fondamenta sono la paternità e la maternità, ad alzare la loro voce sino a coprire le altre voci che dominano il mondo: quelle dei politici corrotti e megalomani, dei generali crudeli, dei businessmen senza scrupoli che conducono il mondo intero alla sua perdita”. Dopo sessant’anni di martirio del popolo palestinese io credo (spero) che le parole di questa madre ci stanino dal nostro senso di impotenza, dalla nostra paralisi etica che paralizza la storia.
 
PERFORARE IL MURO DI SILENZIO

Non è vero, infatti, che non possiamo far niente. Ci sono almeno due cose che possiamo fare – e dunque dobbiamo. La prima è una solidarietà operante nei confronti delle vittime. Molti, moltissimi mass-media sono nelle mani di filo-israeliani, a cominciare dalla RAI. Dobbiamo essere capaci di perforarne il muro di silenzi, di raggiungere e – non solo con le nostre orecchie ma anche con la generosità di aiuti a chi viene gettato in miseria – le voci delle vittime e quelle dei costruttori di pace. I compiacenti reportages filosionisti nascondono invariabilmente le sofferenze dei palestinesi ma nascondono anche lo straordinario  coraggio dei refuznik, i soldati israeliani e le soldatesse israeliane che pongono, a costo del carcere o addirittura dell’esilio, l’obiezione di coscienza agli ordini criminali di Sharon e della sua tribù militare. Sono ormai centinaia e aumentano di numero. E aumentano di numero i pacifisti israeliani: duecentomila persone hanno gridato, dieci giorni fa, a Tel Aviv la loro volontà di pace. Pochi secondi nei telegiornali italiani, ma è stata la maggiore mani-festazione degli ultimi dieci anni. La gente innalzava grandi cartelli con scritte che rivelavano un dibattito politico approfondito. Ne ricordo due (che naturalmente la televisione di Berlusconi e di Mimum non ha mostrato) particolarmente significativi. Il primo diceva. “Gli insediamenti dei coloni uccidono i nostri bambini”, identificando chiaramente le responsabilità del fondamentalismo sionista, il secondo proclamava: “L’occupazione sta distruggendo la fibra morale di Israele”.
Raccogliere queste voci, trasmetterle alle persone di buona volontà che ci vivono accanto ma credono di non doversi occupare di politica, svelare la grandezza di chi si rifiuta di cedere alla logica della violenza, rendere, con la nostra generosità, un po’ meno tragica la miseria in cui l’esercito israeliano sta gettando la popolazione palestinese, questo è il primo aiuto che noi possiamo dare alla pace nel Medio Oriente.
 
VOTO

C’è un secondo aiuto, di straordinaria importanza e, se vogliamo, possiamo fornirlo proprio nei prossimi giorni. Le difficoltà elettorali di Bush accrescono le difficoltà di Sharon non meno della bocciatura del suo piano da parte del Likud e dello scandalo finanziario in cui è coinvolto.  A Sharon, e a qualunque suo successore, non basta più il patrocinio della Casa Bianca  L’Europa assume per loro una nuova importanza: non possono più limitarsi a inon-darla di pompelmi e di insulti per “antisemitismo”.
Sembra a me (ma, come so, a moltissimi altri) che nel bene e nel male l’Europa sia stata negli ultimi anni straordinariamente debole nei confronti dei governi israeliani, abbia troppo spesso abbassato gli occhi davanti allo spettacolo della proterva negazione di tutte e convenzioni internazionali e del suo incrudelirsi sulle masse palestinesi. L’Europa può essere, al contrario, una travolgente forza di pace nella giustizia per due popoli coinvolti. in una tragedia che corrode e corrompe la nostra storia.
Perché ciò avvenga è necessario mandare al Parlamento europeo deputati che sentano profondamente la necessità di un forte impegno politico. Sì, lo so bene: vi sono questioni italiane da tenere presenti anche votando per Strasburgo. Tuttavia io ricordo che Bonhoeffer diceva che non si poteva cantare il gregoriano se non si gridava per gli ebrei; e mi vien fatto di pensare che oggi quelle parole si possano leggere così: che  non si può compiere il rito delle scelte democratiche senza occuparsi di un popolo mediterraneo al quale queste scelte sono radicalmente negate. Che pensano della Palestina gli uomini e le donne che xi propongono di rappresentarci? Sarà il loro comportamento nei confronti della pace con giustizia a definire, al di là delle parole,  la vera e unica costituzione europea. Presentiamo, dunque, la domanda, preoccupiamoci della risposta.
 
Ettore Masina