27.01.08 – Verona – Giorno Della Memoria, presentaziopne del libro: «La città e l’isola. Omosessuali al confino nell’Italia fascista»

Domenica 27 Gennaio 2008, in occasione del Giorno Della Memoria, a Verona, presso la Sala Elisabetta Lodi di Via San Giovanni in Valle, alle ore 16.00 il Circolo Pink presenta il libro: «La città e l’isola. Omosessuali al confino nell’Italia fascista», di Gianfranco Goretti e Tommaso Giartosio (Donzelli, Roma 2006, pp. 275).

Centinaia di persone vennero confinate nell’Italia fascista perché omosessuali. Molti altri, più “fortunati”, subirono la “diffida” o l’”ammonizione”, provvedimenti forse più blandi, ma egualmente vessatori e odiosi che comportavano l’obbligo della firma in questura per due anni, oltre che l’umiliazione e il pubblico discredito.
Si trattò di una vasta opera di repressione che conobbe una recrudescenza alla fine degli anni Trenta quando sembrò assumere i caratteri di una vera e propria segregazione, molto verosimilmente in concomitanza con il clima di fascistizzazione totale che coinvolse ogni aspetto della vita sociale e morale del paese quando divennero più stretti i rapporti con la Germania nazista e più diffusa la retorica della sanità della stirpe fino alla promulgazione delle leggi razziali.
L’aspetto più inquietante di questa repressione è il silenzio che l’ha circondata per molti decenni. Le stesse vittime cercarono di occultare e far dimenticare lo scandalo che li aveva travolti e anche quando divenne possibile consultare gli Archivi, si decise, per tutelare gli interessati, di lasciare segreti i loro fascicoli.
Il fascismo era caduto, ma l’omofobia era ancora lì e coinvolgeva vittime e carnefici che partecipavano spesso degli stessi luoghi comuni e degli stessi pregiudizi. L’immagine dell’omosessuale femmineo, impotente, imbelle, negazione del vero uomo che invece è maschio, virile, potente non nasce col fascismo né finisce con la caduta del fascismo e l’omosessualità continuerà ancora per decenni ad essere considerata un’infamia e una vergogna.
Ancora negli anni Ottanta, a parte qualche articolo “militante” sulla nascente stampa gay o qualche rara allusione letteraria o cinematografica, sull’argomento c’era il silenzio. Solo recentemente si stanno cominciando a legittimare ricerche su questo tema anche da parte della storiografia accademica ( cfr. il saggio di Lorenzo Benadusi, Il nemico dell’uomo nuovo. L’omosessualità nell’esperimento totalitario fascista , Feltrinelli, 2005).
Tommaso Giartosio e Gianfranco Goretti fanno un’operazione diversa e scrivono una storia dell’omosessualità durante il fascismo in cui cercano di dar voce ai soggetti omosessuali che subirono quella storia.
Servendosi di una documentazione, prima scarna poi sempre più ampia, gli autori ci raccontano il confino di un gruppo di omosessuali, e lo fanno con lo scrupolo degli storici e degli antropologi, ma anche con l’affetto e la solidarietà per le vittime di chi, in quanto omosessuale, sa di essere anch’egli vittima della stessa omofobia che oggi si manifesta solo in modi diversi. “In questa storia, chiarisce subito Goretti, è bene dichiararlo, io sono partigiano. Sto dalla loro parte”. E ancora: “Se avessimo studiato la repressione continuando a tenere in secondo piano la vita misconosciuta delle sue vittime, ci sarebbe parso di replicare la violenza repressiva”.
Il libro si concentra sull’operazione più ampia quanto a numero di confinati che si svolse a Catania nel 1939, sull’arresto, la detenzione e il confino nell’isola di San Domino nelle Tremiti di quarantacinque pederasti, secondo la definizione dei documenti ufficiali, o arrusi, come venivano chiamati nel dialetto siciliano, quelli cioè che nel rapporto sessuale avevano un ruolo passivo e che quindi, secondo i luoghi comuni del tempo, mettevano in crisi, più degli altri omosessuali, l’immagine dell’uomo fascista, maschio e virile.
Oltre che sull’ isola, e quindi sul confino, gli autori si soffermano sulla città e ricostruiscono il clima in cui maturò la grande retata facendo emergere la realtà, complessa e difficile da decifrare con le nostre categorie culturali, della vita omosessuale di Catania, sorprendentemente estesa, una vera e propria comunità gay con i suoi riti, i suoi luoghi di incontro, i suoi miti.
La specificità dell’esperienza di Catania sta nel fatto che la repressione, a differenza di come era avvenuto negli anni precedenti quando si colpivano singoli omosessuali “venuti all’attenzione” della Questura, qui si proponeva di colpire tutto l’ambiente gay, di estirpare “la piaga della
pederastia” che, secondo le parole del questore, “in questo capoluogo tende ad aggravarsi e generalizzarsi”.
Nella ricostruzione dei fatti gli autori si servono di due testimoni d’eccezione che vissero in prima persona quella storia, due omosessuali che nel 1939 avevano poco più di venti anni e che nel libro hanno i nomi di Filippo e Salvatore. E’ dalle loro testimonianze che emergono gli aspetti più drammatici e complessi della psicologia degli omosessuali del tempo, della loro reticenza, spesso della loro mancanza di autostima o di forme di omofobia interiorizzata.
La storia dell’omosessualità coincide spesso con la storia della sua repressione, ma le leggi antiomosessuali, i verbali di tribunali e le statistiche criminali ci dicono poco della vita reale degli omosessuali, delle loro strategie di resistenza e di quanta omofobia e disprezzo di se stessi essi hanno interiorizzato. La novità del libro di Giartosio e Goretti sta nella messa in discussione di queste fonti ufficiali che vengono sì utilizzate, ma messe sempre in relazione con la voce di chi quei provvedimenti li ha subiti.
E’ stato detto più volte che le persone gay crescono senza un immaginario con cui confrontarsi, perché non c’è una storia che parli di loro, non c’è una letteratura che rievochi i torti subiti nel passato, perché anche la memoria delle persecuzioni subite è rimossa. Grazie a questo libro la realtà forse comincia a cambiare. Eugenio ‘a Bastarduna, Raffaele ‘a Leonessa, Carmelo ‘a Chianchéra, Salvatore ‘a Betteflài, Sara a’ Turca e tutti gli altri arrusi catanesi, con i loro soprannomi femminili, con le loro fragilità e debolezze, le loro contraddizioni e i loro silenzi, sono anche le voci di una resistenza la cui storia è ancora tutta da scrivere. (Francesco Gnerre)