[di Francesco Comina • 10.12.01] Il godimento della guerra. Ecco il motivo che andavo cercando per respingere al mittente ogni tentativo di dare un senso al bombardamento delle citta', allo schieramento degli eserciti, alla giustificazione della guerra come strumento per la soluzione dei problemi e delle minacce che incombono sull'umanita'.

GIOIRE PER LA CARNEFICINA

Mi servivano le prove – supposte da sempre – che in fin dei conti dietro ad ogni conflitto, com’e’ anche questo sull’Afghanistan, ci fosse un grande festino, un allegro party o una domenica sportiva con le ragazze pon pon ad agitare mani e gambe per festeggiare il punto messo a segno dalla squadra del cuore. Una studiosa inglese oggi ne testimonia lo scandalo. Si chiama Joanna Bourke e ha appena dato alle stampe un libro dal titolo quantomai rivelativo: “Le seduzioni della guerra. Miti e storie di soldati in battaglia” (Carocci editore). Consiglio ai “pacifisti relativi”, che in questi giorni hanno dato il loro consenso per la distruzione di Kabul e delle altre citta’ afghane, di leggersi qualche pagina del libro della Bourke per capire quale tremendo sconquasso psicologico e culturale la guerra produce nelle coscienze degli individui inviati al fronte a massacrare un nemico totale, un popolo scelto (andrebbero molto bene le analisi di Rene’ Girard) per condensare i furori e le pulsioni vendicative dell’America. Il volume (369 pagine) si sofferma soprattutto sulle guerre tecnologiche degli ultimi dieci anni, con particolare insistenza sulla campagna “Desert Storm” contro Saddam Hussein (prossimo bersaglio di Bush jr). Ma in un’intervista, apparsa mercoledi su “Repubblica” la Bourke annota alcune esperienze relative anche alla guerra in corso. Il pilota di un B52, di ritorno da una missione – ricorda l’insegnante di storia moderna – cosi’ ha descritto il suo volo: “Sono molto fiero, e’ stato come segnare una meta al Superbowl”. Le cronache dalla flotta americana nel Golfo Persico parlano di piloti dei vari caccia, i quali, appena rientrati alla base dopo aver scaricato i loro carichi omicidi si mettevano a correre davanti al video per rivendicare con gioia e fierezza la paternita’ degli obiettivi colpiti (“E’ mio! Guarda la mia bomba come ha centrato l’edificio!”). In questo modo il principio etico e legale del “non uccidere” si ribalta in un disvalore, mentre diventa etica e legale l’uccisione indiscriminata. Joanna Bourke spiega questo stravolgimento del codice di condotta civile con le parole di un soldato russo durante la campagna in Afghanistan: “Tu pensi che uccidere sia spaventoso, sgradevole, ma presto ti rendi conto che cio’ che veramente trovi problematico e’ uccidere qualcuno a bruciapelo. L’uccisione di massa, compiuta in gruppo, e’ eccitante e anche divertente”. Non vedendo l’ucciso negli occhi e non guardando il volto che rantola nel sangue, non c’e’ senso di responsabilita’. I piloti dei B52 non si sentono responsabili dei loro disastri, semplicemente perche’ non ne scorgono il fronte lavico di vita che se ne esce a fontana dalle case rase al suolo, dalle fabbriche distrutte, dagli ospedali sventrati. Loro se ne stanno in alto, vedono un puntino, premono il bottoncino sulla cloche e sono gia’ alla base. Ancora la Bourke annota la frase di un pilota che ha partecipato alla distruzione dell’esercito irakeno in fuga: “Ma noi non uccidevamo – afferma il soldato – distruggevamo solo colonne di carri armati”. Dall’alto non c’era nessuno alla guida di quei carri: erano solo delle macchinine cingolate che stavano per fuggire. La distanza fra l’atto e la responsabilita’ di quell’atto rende possibile la guerra. Per questo motivo – e non per altri – il grande teologo impiccato a Flossenburg, Dietrich Bonhoeffer, ha parlato della guerra come di una grande “Dummheit” (stupidita’). Non solo egli vedeva il riso beffardo e inumano dei carnefici uccidere anzitempo le vittime predestinate ad essere immolate sull’altare del non-senso politico, etico, religioso e civile (i nazisti, a differenza dei piloti americani, vedevano perfettamente quello che facevano), ma registrava con enorme sconforto l’estrema banalita’ del male come distacco dal senso di responsabilita’ che l’essere umano dovrebbe avere per il fratello che vive in ogni anfratto del mondo. Di qui la sua presa di coscienza che una civilta’ cristiana nascera’ solo se sapra’ testimoniare la fede “etsi deus non daretur”. Gioire per la carneficina e’ l’orrore culturale piu’ tenebroso che sta alla radice di ogni guerra. In quest’ottica va letto anche il conflitto in Afghanistan, con le sue strategie, i suoi punti oscuri, con le sue stragi devastanti (ultima il massacro terrificante di Mazar-i-Sharif), le sue vendette e le sue fosche prospettive di riequilibrio di un ordine sociale di largo respiro (gli Usa hanno fatto capire che a loro interessa solo far fuori Al Qaida e le sue varie ramificazioni). Battere il terrorismo con l’entusiasmo della potenza e’ la “Dummheit” dell’occidente. Lo ha spiegato molto bene il premio Nobel della letteratura Kenzaburo Oe (la lezione di Hiroshima fa ancora il suo corso) in un’intervista a “La Stampa”: “Anche se gli Stati Uniti e la Gran Bretagna riuscissero ad uccidere Bin Laden o ad arrestarlo non credo che una tale soluzione [la guerra – ndr -] sia efficace per rimediare alla vulnerabilita’ dei Paesi occidentali. Al contrario, rischierebbe di suscitare una seconda e una terza ondata di terrorismo che infilera’ ancor piu’ profondamente gli occidentali nel pantano della battaglia ambigua che rischia di essere assai lunga”. Ma queste sono parole di uno scrittore. La’, sulla Enterprise dove si gioca la partita bellica contro il popolo afghano, si continua a colpire e vincere. Questo e’ il divertimento della guerra; cliccare un bottone e correre al video per dire: “E’ mio!”. Oggi il grande circo si e’ fermato a Kabul, ma gia’ il proscenio di Baghdad e’ pronto per ritrasmettere lo “spettacolo” della notte oscura dell’Irak, una notte che dura dieci anni di embargo e migliaia di vittime innocenti.