[di Vincenzo Andraous • 10.12.01] Leggendo le notizie apparse sui quotidiani di questi giorni per voce di autorevoli personaggi, pare che il mondo carcerario sia in subbuglio, anzi alla frutta. Sarà così senz’altro, se si diluisce in un unico propellente: il disagio degli Agenti di Polizia Penitenziaria, quello dei Detenuti, e degli Operatori Penitenziari tutti.

CARCERI – PANE E SPERANZA

Eppure siamo entrati nel terzo millennio. Eppure gran parte dell’umanità da questo nuovo secolo molto attende…Eppure non avremo altro da raccogliere che quanto abbiamo seminato…Ieri. Che cosa? Una sterminata sequenza di gestualità dialettiche a pancia a terra, perché quella maturità raggiunta all’interno di una prigione  è stata relegata in una solitudine imposta dagli slogan e dai tornaconti elettorali. Infatti ritornano sul palcoscenico penitenziario copioni già scritti e recitati in altri tempi, in un passato che inequivocabilmente appartiene all’era cretacea. Affiorano incredibilmente antichissime pratiche, che sembravano trascorse e trapassate. Perché? Sarebbe facile rispondere con una pseudo sociologia carceraria, sulle ingiustizie che colpiscono gli Agenti di Polizia Penitenziaria, gli Operatori, e infine l’anello più debole e cioè i Detenuti. Ben più semplicemente, la verità sta nel fatto che il dibattito sulla Giustizia e in questo caso sulla pena e sul carcere è costantemente avvelenato dal flusso comunicazionale non sempre corretto e leale. Per cui il bene e il giusto che si riesce a fare in una galera, premessa per ogni conquista di coscienza; rimangono ultimi e dimenticati, rispetto al male commesso dai pochi. Di conseguenza rivendicare la propria dignità, ognuno per sua parte e nel proprio ruolo, sfugge a ogni regolamentazione giuridica e umana, ciò per una politica contrapposta e distante che disgrega e annienta quei “ponti di reciproco rispetto “a fatica costruiti insieme in questi anni di riconciliazione. Con il risultato di dilatare la possibilità di un ripensamento culturale che coinvolga tutti,  e negando la speranza di accorciare le distanze e sostituire alla parola paura la parola informazione. Siamo davvero convinti che quel disagio espresso da tanti autorevoli personaggi sia riconducibile solamente ai problemi endemici dell’Organizzazione Penitenziaria? Oppure la non sensibilità Istituzionale risente e soffre a causa di questa post-modernità che divora ideali innovativi e legittime aspettative. A tal punto da sottolineare quella differenza che separa l’umanità ristretta da quella libera, alimentando quel disagio che è stigma e reiezione, e che in ogni momento può diventare motivo per comprimere e quindi rispedire al mittente,  le istanze di chi in salita fatica ad affrontare la propria vita, appunto con più dignità. Coinvolgendo chi in carcere lavora, come chi in carcere sconta la propria condanna e tenta di riparare al male fatto agli altri. Per esperienza so che strumentalizzazioni e sovraesposizioni non porteranno mai gratificazioni né mete realizzanti ad alcuno. A questo punto e parlando a me stesso che scrivo, ritengo che occorra consapevolezza di non ripiegare nel passato, ma fermezza a saper guardare ai tanti ieri con occhi e sguardi nuovi, per proiettarsi nel futuro, rimettendo al centro dell’attenzione, accanto alla questione del cambiamento del carcere, anche e soprattutto il cambiamento dell’uomo, perché davvero incombe su ciascuno la responsabilità di ritrovare noi stessi. E questa volta senza distinzione di ruoli.