[Giuliana Sgrena • 06.03.05] Sto ancora nel buio. E' stata quella di venerdi' la giornata piu' drammatica della mia vita. Erano tanti i giorni che ero stata sequestrata. Avevo parlato solo poco prima con i miei rapitori, da giorni dicevano che mi avrebbero liberato. Vivevo cosi' ore di attesa. Parlavano di cose delle quali soltanto dopo avrei capito l'importanza...

GIULIANA SGRENA. «LA MIA VERITÀ»

Sto ancora nel buio. E’ stata quella di venerdi’ (4 marzo 2005, ndr) la giornata piu’ drammatica della mia vita. Erano tanti i giorni che ero stata sequestrata. Avevo parlato solo poco prima con i miei rapitori, da giorni dicevano che mi avrebbero liberato. Vivevo cosi’ ore di attesa. Parlavano di cose delle quali soltanto dopo avrei capito l’importanza. Dicevano di problemi “legati ai trasferimenti”. Avevo imparato a capire che aria tirava dall’atteggiamento delle mie due “sentinelle”, i due personaggi che mi avevano ogni giorno in custodia. Uno in particolare che mostrava attenzione ad ogni mio desiderio, era incredibilmente baldanzoso. Per capire davvero quello che stava succedendo gli ho provocatoriamente chiesto se era contento perche’ me ne andavo oppure perche’ restavo. Sono rimasta stupita e contenta quando, era la prima volta che accadeva, mi ha detto “so solo che te ne andrai, ma non so quando”. A conferma che qualcosa di nuovo stava avvenendo a un certo punto sono venuti tutti e due nella stanza come a confortarmi e a scherzare: “Complimenti – mi hanno detto – stai partendo per Roma”. Per Roma, hanno detto proprio cosi’.

Ho provato una strana sensazione. Perche’ quella parola ha evocato subito la liberazione ma ha anche proiettato dentro di me un vuoto. Ho capito che era il momento piu’ difficile di tutto il rapimento e che se tutto quello che avevo vissuto finora era “certo” ora si apriva un baratro di incertezze, una piu’ pesante dell’altra. Mi sono cambiata d’abito. Loro sono tornati: “Ti accompagniamo noi, e non dare segnali della tua presenza insieme a noi senno’ gli americani possono intervenire”. Era la conferma che non avrei voluto sentire. Era il momento piu’ felice e insieme il piu’ pericoloso. Se incontravamo qualcuno, vale a dire dei militari americani, ci sarebbe stato uno scontro a fuoco, i miei rapitori erano pronti e avrebbero risposto. Dovevo avere gli occhi coperti. Gia’ mi abituavo ad una momentanea cecita’. Di quel che accadeva fuori sapevo solo che a Baghdad aveva piovuto. La macchina camminava sicura in una zona di pantani. C’era l’autista piu’ i soliti due sequestratori. Ho subito sentito qualcosa che non avrei voluto sentire. Un elicottero che sorvolava a bassa quota proprio la zona dove noi ci eravamo fermati. “Stai tranquilla, ora ti verranno a cercare… tra dieci minuti ti verranno a cercare”. Avevano parlato per tutto il tempo sempre in arabo, e un po’ in francese e molto in un inglese stentato. Anche stavolta parlavano cosi’.

Poi sono scesi. Sono rimasta in quella condizione di immobilita’ e cecita’. Avevo gli occhi imbottiti di cotone, coperti da occhiali da sole. Ero ferma. Ho pensato… che faccio? comincio a contare i secondi che passano da qui ad un’altra condizione, quella della liberta’? Ho appena accennato mentalmente ad una conta che mi e’ arrivata subito una voce amica alle orecchie: “Giuliana, Giuliana sono Nicola (Nicola Calipari, ndr), non ti preoccupare ho parlato con Gabriele Polo, stai tranquilla sei libera”. Mi ha fatto togliere la “benda” di cotone e gli occhiali neri. Ho provato sollievo, non per quello che accadeva e che non capivo, ma per le parole di questo “Nicola”. Parlava, parlava, era incontenibile, una valanga di frasi amiche, di battute. Ho provato finalmente una consolazione quasi fisica, calorosa, che avevo dimenticato da tempo. La macchina continuava la sua strada, attraversando un sottopassaggio pieno di pozzanghere, e quasi sbandando per evitarle. Abbiamo tutti incredibilmente riso. Era liberatorio. Sbandare in una strada colma d’acqua a Baghdad e magari fare un brutto incidente stradale dopo tutto quello che avevo passato era davvero non raccontabile. Nicola Calipari allora si e’ seduto al mio fianco. L’autista aveva per due volte comunicato in ambasciata e in Italia che noi eravamo diretti verso l’aeroporto che io sapevo supercontrollato dalle truppe americane, mancava meno di un chilometro mi hanno detto… quando… Io
ricordo solo fuoco. A quel punto una pioggia di fuoco e proiettili si e’ abbattuta su di noi zittendo per sempre le voci divertite di pochi minuti prima.

L’autista ha cominciato a gridare che eravamo italiani, “siamo italiani, siamo italiani…”, Nicola Calipari si e’ buttato su di me per proteggermi, e subito, ripeto subito, ho sentito l’ultimo respiro di lui che mi moriva addosso. Devo aver provato dolore fisico, non sapevo perche’. Ma ho avuto una folgorazione, la mia mente e’ andata subito alle parole che i rapitori mi avevano detto. Loro dichiaravano di sentirsi fino in fondo impegnati a liberarmi, pero’ dovevo stare attenta “perche’ ci sono gli americani che non vogliono che tu torni”. Allora, quando me l’avevano detto, avevo giudicato quelle parole come superflue e ideologiche. In quel momento per me rischiavano di acquistare il sapore della piu’ amara delle verita’. Il resto non lo posso ancora raccontare.

Questo e’ stato il giorno piu’ drammatico. Ma il mese che ho vissuto da sequestrata ha probabilmente cambiato per sempre la mia esistenza. Un mese da sola con me stessa, prigioniera delle mie convinzioni piu’ profonde. Ogni ora e’ stata una verifica impietosa sul mio lavoro. A volte mi prendevano in giro, arrivavano a chiedermi perche’ mai volessi andar via, di restare. Insistevano sui rapporti personali. Erano loro a farmi pensare a quella priorita’ che troppo spesso mettiamo in disparte. Puntavano sulla famiglia. “Chiedi aiuto a tuo marito”, dicevano. E l’ho detto anche nel primo video che credo avete visto tutti. La vita mi e’ cambiata. Me lo raccontava l’ingegnere iracheno Ra’ad Ali Abdulaziz di “Un Ponte per” rapito con le due Simone, “la mia vita non e’ piu’ la stessa”, diceva. Non capivo. Ora so quello che voleva dire. Perche’ ho provato tutta la durezza della verita’, la sua difficile proponibilita’. E la fragilita’ di chi la tenta.

Nei primi giorni del rapimento non ho versato una sola lacrima. Ero semplicemente infuriata. Dicevo in faccia ai miei rapitori: “Ma come, rapite me che sono contro la guerra?!”. E a quel punto loro aprivano un dialogo feroce. “Si’, perche’ tu vai a parlare con la gente, non rapiremmo mai un giornalista che se ne sta chiuso in albergo. E poi il fatto che dici di essere contro la guerra potrebbe essere una copertura”. E io ribattevo, quasi a provocarli: “E’ facile rapire una donna debole come me, perche’ non provate con i militari americani?”. Insistevo sul fatto che non potevano chiedere al governo italiano di ritirare le truppe, il loro interlocutore “politico” non poteva essere il governo ma il popolo italiano che era ed e’
contro la guerra.

E’ stato un mese di altalena, tra speranze forti e momenti di grande depressione. Come quando, era la prima domenica dopo il venerdi’ del rapimento, nella casa di Baghdad dove ero sequestrata e su cui svettava una parabolica, mi fecero vedere un telegiornale di Euronews. Li’ ho visto la mia foto in gigantografia appesa al palazzo del Comune di Roma. E mi sono rincuorata. Poi pero’, subito dopo, e’ arrivata la rivendicazione della Jihad che annunciava la mia esecuzione se l’Italia non avesse ritirato le
sue truppe. Ero terrorizzata. Ma subito mi hanno rassicurata che non erano loro, dovevo diffidare di quei proclami, erano dei “provocatori”. Spesso chiedevo a quello che, dalla faccia, sembrava il piu’ disponibile che comunque aveva, con l’altro, un aspetto da soldato: “Dimmi la verita’, mi volete uccidere”. Eppure, molte volte, c’erano strane finestre di comunicazione, proprio con loro. “Vieni a vedere un film in tv”, mi dicevano, mentre una donna wahabita, coperta dalla testa ai piedi girava per casa e mi accudiva.

I rapitori mi sono sembrati un gruppo molto religioso, in continua preghiera sui versetti del Corano. Ma venerdi’, al momento del mio rilascio, quello tra tutti che sembrava il piu’ religioso e che ogni mattina si alzava alla cinque per pregare, mi ha fatto le sue “congratulazioni” incredibilmente stringendomi fortemente la mano – non e’ un comportamento usuale per un fondamentalista islamico -, aggiungendo “se ti comporti bene parti subito”. Poi, un episodio quasi divertente. Uno dei due guardiani e’ venuto da me esterrefatto sia perche’ la tv mostrava i miei ritratti appesi nelle citta’ europee e sia per Totti. Si’ Totti, lui si e’ dichiarato tifoso della Roma ed era rimasto sconcertato che il suo giocatore preferito fosse sceso in campo con la scritta “Liberate Giuliana” sulla sua maglietta.

Ho vissuto in una enclave in cui non avevo piu’ certezze. Mi sono ritrovata profondamente debole. Avevo fallito nelle mie certezze. Io sostenevo che bisognava andare a raccontare quella guerra sporca. E mi ritrovavo nell’alternativa o di stare in albergo ad aspettare o di finire sequestrata per colpa del mio lavoro. “Noi non vogliamo piu’ nessuno”, mi dicevano i sequestratori. Ma io volevo raccontare il bagno di sangue di Falluja dalle parole dei profughi. E quella mattina gia’ i profughi, o qualche loro “leader”, non mi ascoltavano. Io avevo davanti a me la verifica puntuale delle analisi su quello che la societa’ irachena e’ diventata con la guerra e loro mi sbattevano in faccia la loro verita’: “Non vogliamo nessuno, perche’ non ve ne state a casa, che cosa ci puo’ servire a noi questa intervista?”. L’effetto collaterale peggiore, la guerra che uccide la comunicazione, mi precipitava addosso. A me che ho rischiato tutto, sfidando il governo italiano che non voleva che i giornalisti potessero raggiungere l’Iraq, e gli americani che non vogliono che il nostro lavoro testimoni che cosa e’ diventato quel paese davvero con la guerra e nonostante quelle che chiamano elezioni.

Ora mi chiedo. E’ un fallimento questo loro rifiuto?
 
Giuliana Sgrena


Fonte: «il manifesto» del 06.03.05