[Giulietto Chiesa • 13.04.04] A un anno quasi esatto l'insurrezione di popolo, sunniti e sciiti, centro e sud dell'Irak, la carneficina che ne promana, l'entrata in guerra plateale, esplicita, delle truppe italiane, che ha reso definitivamente insostenibile la tesi della "missione di pace", gli sviluppi che vanno assumendo un andamento tumultuoso e convulso, indicano non solo che gli occupanti stanno perdendo anche quel poco di controllo del paese che avevano, ma stanno radicalmente modificando tutte le prospettive che erano state delineate a tavolino nelle capitali occidentali...

GIULIETTO CHIESA. «IRAQ, FACCIAMOCI SENTIRE»

A un anno quasi esatto l’insurrezione di popolo, sunniti e sciiti, centro e sud dell’Irak, la carneficina che ne promana, l’entrata in guerra plateale, esplicita, delle truppe italiane, che ha reso definitivamente insostenibile la tesi della “missione di pace”, gli sviluppi che vanno assumendo un andamento tumultuoso e convulso, indicano non solo che gli occupanti stanno perdendo anche quel poco di controllo del paese che avevano, ma stanno radicalmente modificando tutte le prospettive che erano state delineate a tavolino nelle capitali occidentali. E’ ormai assolutamente evidente una serie di cose che sarà utile annotare sia da parte delle forze politiche di governo che di quelle di opposizione.

La prima di esse è questa: la prospettiva di una “via d’uscita attraverso la copertura giuridica delle Nazioni Unite” (che lasci cioè identica, o quasi, la situazione sul campo, con i comandi militari in mani americane, la prosecuzione dell’occupazione ecc) è definitivamente chiusa. Lo è sul piano pratico, prima e a prescindere da ogni altra considerazione. I rapporti di forza sul terreno dicono senza equivoci che la mattanza di iracheni e di stranieri continuerebbe senza un solo giorno di sosta. I nuovi stranieri che giungessero in Irak, sotto qualsiasi bandiera, Onu inclusa in primo luogo, saranno bersagli sempre più esposti. Per l’Italia i rischi sarebbero identici, cioè altissimi, per le truppe dislocate sul terreno come per il paese nel suo complesso. Inutile nascondersi questa prospettiva. Anche l’uomo della strada se ne rende conto, ormai. Gli unici che fanno finta di nulla sono il ministro Martino e il presidente Berlusconi. Dio ci assista.

La seconda considerazione è questa. La scadenza del 30 giugno non ha più alcun senso. Quello che, scherzando con scarso umorismo, qualcuno ha definito il “lodo Zapatero” è ormai caduto fuori dal novero delle possibilità. Fin dall’inizio avrebbe dovuto essere chiaro che quella data non significava nient’altro che il desiderio di George Bush di farsi togliere la castagna dal fuoco senza bruciarsi le dita e senza fare nessuna concessione sostanziale. Il popolo iracheno si è incaricato, pagando un altissimo prezzo di sangue, di spiegarci che la sorte dell’Irak non la si decide a Washington, ma nemmeno a New York, o in altre capitali congiunte in sforzi bizantini di mediazione e in inconfessabili mercati delle vacche petrolifere.

In ogni caso da qui al 30 giugno molte cose accadranno e non sarà possibile restare fermi a contemplare il calendario. Meglio prepararsi a numerosi scenari alternativi, tutti più probabili della finzione del cosiddetto “trasferimento dei poteri” agli iracheni. Il cosiddetto “Consiglio” messo in piedi dagli Stati Uniti, in realtà al comando di Bremer, non solo non è stato in grado di fare nulla, ma la sua ignavia e paura è stata tale che perfino il New York Times ha dovuto scrivere un editoriale non firmato dal titolo “Unfriendly Irak” (Un Irak non amico). Visto che il governo italiano non è capace che di ripetere le ignobili menzogne che ha detto fin dall’inizio di questa sporchissima avventura, si suggerisce all’opposizione “riformista” di seguire almeno i consigli di Peppino Caldarola, che pare aver compreso la necessità di girare il timone da un’altra parte.

La terza considerazione è questa: l’Imperatore facente funzione non è in condizione di ritirarsi comunque, se non sconfitto clamorosamente. Per ragioni politiche interne prima che per ogni altra considerazione. Autonominatosi “presidente di guerra” non può finire il mandato con una ritirata, nemmeno se onorevole. E poi ci sono gl’interessi petroliferi e geopolitici da tenere alti. Quindi non c’è da attendersi un cambio di rotta a Washington. Da laggiù ci si può realisticamente aspettare una tremenda pressione su tutti i giocatori recalcitranti (Russia, Francia, Germania, Cina, Spagna) e su tutti i possibili alleati secondari, perché appoggino una risoluzione Onu adeguata alle necessità americane. E un invio massiccio di rinforzi sul teatro di guerra. Da non sottovalutare l’eventualità di qualche coup dé teatre, qualche provocazione, qualche azione militare diversiva su altri fronti, primo tra tutti quello palestinese. Da un “presidente di guerra” è legittimo aspettarsi questo ed altro. C’è un solo modo per fermarlo: alzare a tal punto il prezzo della sua permanenza sul terreno iracheno da rendere l’operazione non più conveniente, né sul piano militare, né su quello politico-elettorale.

Sul piano militare sono solo gl’iracheni a poter influire. Su quello politico diplomatico contiamo tutti. Bisogna dire agli Usa, subito, che devono dirci quanto tempo realisticamente occorre loro per andarsene, cioè per portare via dall’Irak il loro corpo d’occupazione. Siamo realisti: tutti sappiamo che non si può portare fuori dai confini iracheni 130 mila uomini in un giorno. Ma si può calcolare quanto tempo occorre. Una dichiarazione in tal senso provocherebbe un enorme entusiasmo in Irak e in tutto il mondo. Sarebbe possibile far negoziare una tregua immediata. Si potrebbero indire rapidamente elezioni, che verrebbero preparate dagli iracheni, con una supervisione Onu, mentre le truppe di occupazione se ne vanno. E le elezioni si farebbero quando l’ultimo soldato americano avesse lasciato il suolo iracheno, a scanso di equivoci. La maggioranza sciita – e non solo quella – probabilmente appoggerebbe e un focolaio di guerra sarebbe subito spento. Bisogna dirlo adesso, a gran voce. Anche se si è all’opposizione e non si può decidere perché non si ha il governo nelle mani. Queste voci si sentono anche molto da lontano. Solo così si può aprire un negoziato: non con gli iracheni ma con gli Stati Uniti, unica fonte di guerra.

L’eventualità di un intervento dell’Onu dovrebbe essere discussa con i veri rappresentanti dell’Irak, che tutti sanno chi sono e dove si trovano, non certo con quelli chiusi nei bunker americani di Baghdad. E il contingente di soccorso, umanitario e di ausilio di polizia delle Nazioni Unite dovrebbe essere composto di truppe inviate da paesi che hanno il gradimento di un nuovo Consiglio provvisorio iracheno. Così si aprirebbe sul serio la strada a un intervento dell’Onu. Strada difficile, ma unica realistica. Per la quale occorre anche il consenso di Washington. Se esso non vi sarà, prepariamoci tutti al peggio, non a un “trasferimento di niente a nessuno” il 30 giugno.

Per quanto riguarda l’Italia, ritirare il contingente non richiederebbe più di quindici giorni. Sarebbe saggio deciderlo, anche se alla follia non si comanda con la saggezza. Basterebbe comunque dichiararlo da subito, perché ridurrebbe i rischi di inutili e dolorosissime perdite dell’ultim’ora.

E si dovrebbe, da subito, impartire l’ordine di cessare ogni operazione di guerra e di ritirarsi negli accampamenti protetti. I soldati sono sotto un comando straniero. Questa non è nemmeno un’operazione sotto bandiera Nato. E’ situazione comunque illegale. Si faccia cessare questa vergogna. Sarà il primo passo verso una tregua. Chi non può decidere, come i milioni di voci contro la guerra che hanno creato il più forte movimento popolare del pianeta, faccia sentire la sua voce sempre più forte. Non sarebbe la prima volta che le loro grida disarmate possono cambiare il corso della storia. Zapatero non sarebbe al governo se, prima dell’11 marzo, in Spagna la grande maggioranza dei cittadini non avesse detto che era contraria alla guerra.


Articolo tratto da “Avvenimenti”