[di Angela Lano (Nigrizia) • 13.07.04] In questi tragici mesi di guerra in Iraq, in particolare dopo il rapimento in aprile di tre nostri connazionali, segmenti della comunità islamica in Italia si sono posti come mediatori. Un ruolo assunto sia dall’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia (Ucoii), sia dalle principali moschee, sia da qualche iman (compreso quel Bouriqui Bouchta di Torino, che, a ridosso degli attentati dell’11 settembre 2001...

GLI ITALO-MUSULMANI

In questi tragici mesi di guerra in Iraq, in particolare dopo il rapimento in aprile di tre nostri connazionali, segmenti della comunità islamica in Italia si sono posti come mediatori. Un ruolo assunto sia dall’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia (Ucoii), sia dalle principali moschee, sia da qualche iman (compreso quel Bouriqui Bouchta di Torino, che, a ridosso degli attentati dell’11 settembre 2001, aveva suscitato reazioni di sdegno pure fra i musulmani cosiddetti moderati per la sua simpatia verso Bin Laden). Questo nuovo ruolo italo-musulmano apre nuovi orizzonti e nuove prospettive nel rapporto tra la nostra società e questi immigrati ormai naturalizzati, seppur molto ancorati alla cultura d’origine.
 
Se per alcuni islamici la partecipazione attiva nelle trattative tra i rapitori, le famiglie degli ostaggi e il governo italiano può essere stata strumentale al raggiungimento di diritti o a una maggior visibilità “istituzionale” mediatica, per altri è stato un sincero partecipare al dramma di persone percepite come “fratelli” per la semplice condivisione della cittadinanza e dell’attaccamento al territorio e alla cultura italiana. È stato un sentirsi, cioè, pienamente italiani e in diritto-dovere, come islamici, di mediare tra due mondi. Mediare all’interno di quello “scontro di civiltà” costruito a tavolino dai signori delle guerre, a Occidente come a Oriente, ma estraneo ai principi religiosi di entrambe le parti.
 
È proprio la tensione, la paura della “caccia alle streghe” scatenata dai media e dai politici delle destre occidentali contro l’islam, a costringere singoli cittadini o associazioni musulmane a ribadire l’estraneità di questa religione da atti di terrorismo o di violenza gratuita perpetrati in Iraq, a Madrid, in Marocco e altrove. Tale tensione, vissuta fortemente soprattutto da chi non è ancora cittadino italiano o rappresenta grandi istituzioni od organizzazioni islamiche, ha portato, in questi mesi, a svolgere un nuovo e innovativo compito di mediazione ufficiale e accreditata, che porterà, gioco-forza, a un riconoscimento pubblico come realtà culturale, religiosa, di diritto con cui, d’ora in poi, lo stato italiano non potrà non rapportarsi. Una realtà, quella dell’islam in Italia, eterogenea e complessa. Intanto l’islam è la seconda religione qui da noi. Al suo interno convivono anime diverse e, talora, lontane.
 
La prima suddivisione è quella tra sunniti (88%, seguaci della tradizione di Maometto) e sciiti (9%, seguaci del “partito” di Ali, genero del profeta). Il restante 3% è spartito fra sette, baha’i, confraternite mistiche. Ma, per quanto i pilastri della fede e del culto accomunino tutti i musulmani, ogni corrente ha sviluppato giurisprudenze e tradizioni differenti. Tra i sunniti, ad esempio, coesistono quattro differenti scuole giuridiche, applicabili in relazione allo stato di provenienza o al contesto. A seconda che un fedele, per origine geografica o per appartenenza politico-religiosa, ne scelga una piuttosto che l’altra, avremo modi differenti di interpretare e utilizzare il diritto. Livello culturale, apertura mentale, condizione economico-sociale e situazione politica del paese d’origine produrranno ancora altre differenziazioni e vie di relazione al fattore religioso.
 
Le banalizzazioni, le semplificazioni, gli stereotipi e la comoda omologazione (cui ci siamo abituati) non rappresentano un metodo serio per la lettura delle molteplici realtà islamiche. Vi sono musulmani wahhabiti che si rifanno a un islam fondamentalista e tradizionalista salafita, che auspica il ritorno alla purezza dell’islam, così com’era vissuto dagli antenati quindici secoli fa. Ci sono simpatizzanti del movimento dei Fratelli Musulmani, che segue una visione integrista ed è formato da una galassia di gruppi che spaziano dal pacifismo assoluto alle derive violente e terroriste. E ancora: jihadisti delle jama‘at islamiche di stampo politico radicale, pacifisti e nonviolenti, “laici” (seguaci di grandi pensatori quali Averroè e Avicenna), indifferenti o non credenti… Tutte queste tipologie fanno parte, sempre e comunque, della grande ummah islamica, dentro la quale si entra per nascita o per conversione, ma da cui non è così facile uscire. Tra gli immigrati di origine islamica che vivono in Italia possiamo incontrare tutte queste tendenze e atteggiamenti.
 
Piuttosto nota – perché spesso sui giornali, nei telegiornali e nei salotti televisivi – è la realtà dei fondamentalisti. Quella aggressiva, che non concede alternative alle scelte personali dei fratelli nella fede o ai connazionali – musulmani per nascita – che desiderino intraprendere strade differenti (altri credi, “laicità” dichiarata) e che cerca di controllarne, anche attraverso takfir, anatemi, la fede e il modo di vivere. Si tratta di un islam militante integralista o fondamentalista (dipende dal movimento di riferimento). Anche qui troviamo inclinazioni e sfumature differenti, comprese quelle più radicali e violente.
Esso coinvolge principalmente i disperati, gli emarginati, coloro che, per mancanza di mezzi culturali ed economici, non riescono a integrarsi nella società ospite. Molti di loro gravitano attorno a moschee e centri islamici pilotati da iman (guide per il culto, che hanno assunto una leadership religiosa e politica non prevista dall’islam sunnita) poco preparati, quando non proprio ignoranti. A loro volta, queste guide sono indottrinate da inviati di stati o movimenti islamici potenti e facoltosi.
 
Tale realtà fa del proselitismo (da‘wa) tra gli infedeli o tra i musulmani “tiepidi”, del ritorno alle origini del messaggio coranico e, nel caso estremo, della lotta armata contro obiettivi nemici, islamici od occidentali, lo scopo principale del proprio agire. Spesso è proprio la particolare visione politico-ideologica, che grava su determinati luoghi di culto, che ne motiva la non frequenza o la presa di distanza da parte della maggioranza degli immigrati di origine islamica. A fianco di questa realtà aggressiva c’è l’islam dei tanti credenti che esprimono una fede più interiore, spesso privata (nelle preghiere in casa, in moschea, o tra le pause di lavoro in fabbrica o nei campi) e che auspicano l’integrazione (o che già si sentono inseriti) nella società italiana, pur mantenendo solidi legami con le proprie tradizioni: sono i “moderati”, i pacifici coabitatori dei nostri spazi cittadini.
 
Un’altra “tendenza” è quella dei musulmani attivisti di gruppi culturali e religiosi: sono gli aderenti alle organizzazioni che fanno capo all’Ucoii, al Gmi (Giovani musulmani d’Italia), alle confraternite sufi e ad altri organismi rappresentativi dell’islam italiano (associazioni giovanili, femminili, studentesche, di solidarietà, e così via). Costoro sono un’élite colta, economicamente e socialmente ben inserita, dedita alla promozione dell’islam “dal basso” – una sorta di re-islamizzazione delle comunità islamiche e non degli italiani di altre religioni, anche se le conversioni non mancano – disponibile al dialogo interreligioso e all’incontro con l’”altro”. Sono fedeli praticanti e osservanti, che vivono integralmente i precetti dell’islam, ma che si ritengono aperti alla modernità. I loro rappresentanti stanno, infatti, tentando un’opera di reintrepretazione della shari‘a e del diritto in accordo con i tempi. Alcuni sono vicini al movimento dei Fratelli Musulmani. La loro concezione di jihad è quella di “sforzo sulla via di Dio”, sulla strada del bene, della riforma interiore, sociale e politica, anche se non sono pochi coloro che giustificano la risposta armata, “resistenza”, in caso di oppressione o di invasione da parte di eserciti esterni (come nel caso dell’Afghanistan, dell’Iraq e della Palestina). Poi ci sono i cosiddetti “laici”, coloro che hanno assunto un atteggiamento di religiosità liberale e tollerante, razionalista e “illuminista”.
 
Si tratta di un’appartenenza vissuta come legame culturale con la splendida e dotta civiltà arabo-islamica del passato. Fra costoro ci sono musulmani che si definiscono praticanti, pur non frequentando, o frequentando sporadicamente, i luoghi di culto. L’islam lo consente: esiste, infatti, l’obbligo della salat, la preghiera rituale compiuta cinque volte il giorno, ma sul luogo non esistono vincoli. Per altri, il termine “laico” esprime quasi indifferenza, o insofferenza, nei confronti delle usanze della propria cultura d’origine e di ogni espressione di religiosità. Tra questi, molti sono i non praticanti, che non fanno riferimento a moschee, gruppi o associazioni musulmane, e non seguono i precetti cultuali. Persone, dunque, che non pregano, non osservano il periodo di digiuno e di astensione sacra (il ramadan), non rispettano le norme alimentari (consumo di carne halal, astensione da bevande alcoliche e da cibi contenenti carni suine, e altro ancora).
 
Trasversale all’islam dei moderati, degli attivisti e dei laici è l’islam pacifico, tollerante, del dialogo interreligioso, che condivide parte del cammino di fede e di apertura verso l’esterno con il sufismo, la via iniziatica ed esoterica della mistica islamica. Per costoro la religione è uno strumento di ricerca di Dio che parte dalla propria condizione umana e dall’amore verso gli altri, verso la pace e la tolleranza. 

Angela Lano ©