[di Amedeo Tosi • 30.07.03] Non poteva mancare tra queste righe un breve cenno su chi opera all’interno del sistema informativo, con particolare riferimento all’inviato nei luoghi di guerra. Si tratta di una di quelle professioni che a detta di molti sta scomparendo, sostituita da un nuovo modo di fare informazione e, forse, anche dal già accennato disinteresse da parte delle imprese editoriali nei confronti di gran parte degli eventi bellici...

GUERRE E NEWS: QUANDO ANCHE IL SILENZIO UCCIDE/3

Giornalisti in trincea
Non poteva mancare tra queste righe un breve cenno su chi opera all’interno del sistema informativo, con particolare riferimento all’inviato nei luoghi di guerra. Si tratta di una di quelle professioni che a detta di molti sta scomparendo, sostituita da un nuovo modo di fare informazione e, forse, anche dal già accennato disinteresse da parte delle imprese editoriali nei confronti di gran parte degli eventi bellici.
L’inviato di guerra è senza dubbio una figura professionale complessa, che deve destreggiarsi tra le conoscenza dei trattati internazionali e l’interpretazione delle scelte geo-politiche; tra la conoscenza del “pianeta” militare e la necessità di adattarsi a situazioni difficili ed incontri imprevedibili. Gli inviati di guerra degli organi di informazione più importanti sono mandati all’estero solo se l’attenzione su quel determinato conflitto è praticamente mondiale. Ciò tuttavia non significa che il lettore o l’ascoltatore saprà per questo tutto quello che accade sul campo di battaglia, anzi. Come già sottolineato in precedenza, emergerà, di norma, poco più di quello che il potere politico-militare vorrà far sapere. Gli inviati sono infatti “rinchiusi” negli alberghi, spesso lontani dal fronte; essi dipendono da fonti informative accreditate (come ad esempio la Cnn durante la Prima guerra nel Golfo) e spesso le immagini da mandare in onda sono quelle di repertorio, oppure notizie preconfezionate, distribuite nel corso dei briefing militari.
Nonostante i supporti tecnologici favoriscano il loro lavoro (un computer portatile, un telefono satellitare ed una macchina fotografica digitale possono consentire al giornalista di inviare testi ed immagini in qualunque angolo del mondo) la libertà d’informazione non sempre riesce ad essere tale e quale le direttive deontologiche e i dettami normativi sulla libertà d’opinione e di espressione prevedono e garantiscono.
Ma questa riflessione è incentrata sulle guerre non raccontate, che sono tali anche perché i giornalisti proprio non ci sono nei luoghi di cui sto trattando; questo, naturalmente, per varie ragioni, nessuna predominante sull’altra, a mio avviso: mandare un giornalista in un conflitto è costoso, ovvero le imprese editoriali sarebbero chiamate a (rischiare di) investire delle risorse senza alcuna garanzia di un rientro economico, che tradotto nella realtà significa, ad esempio, che si è preferito mandare quarantaquattro giornalisti (di varie testate italiane) in Afghanistan e zero nel resto dei campi di battaglia. I conflitti sono dimenticati, inoltre, perché si crede che non interessino alla gente, anche se dall’indagine della Caritas Italiana emerge proprio il contrario. A parte ciò, c’è da tenere presente che raccontare una guerra non è mai facile, ancor di più  se tale evento è geograficamente lontano, non ha  implicazioni esplicite con l’economia o la politica nazionale e non si capisce bene la sua dinamica; tutto diventa ancora più complicato se è seguita da un “inviato” che invece di essere sul campo di battaglia lavora nella sua redazione a “stretto contatto” solo con i dispacci delle Agenzie, che poco possono fare-informare di fronte a conflitti che sembra si combattano da sempre, dove le ragioni dello scoppio della guerra sono ormai finite nel dimenticatoio e diventa così difficile capire ed interpretarne l’evoluzione. Ad esempio, nella già accennata Guerra Mondiale Africana (nella Repubblica Democratica del Congo, ndr), che coinvolge vari stati, si sono verificati nel tempo vari cambiamenti di alleanze all’interno degli schieramenti, guerre frammentate spesso portate avanti da singole etnie o tribù e non da eserciti nazionali, dove la mancanza di “legittimazione” delle parti in lotta rimane sconosciuta ed è difficile perfino sapere chi comanda un esercito. L’assenza di reporter sul campo rende quindi davvero le cose molti ostiche ed anche le Agenzie, di cui parlerò più avanti, sono poco presenti e non aiutano molto le redazioni dei giornali.
C’è da dire, inoltre, che la nascita e lo sviluppo della rete Internet sta portando un cambiamento nel lavoro dei giornalisti e che stanno emergendo nuove modalità d’informazione e di giornalismo.
I reporter “navigatori” sono spesso dei volontari che gestiscono un sito d’informazione, reperiscono le notizie attraverso la rete stessa, nei siti di Agenzie, di Istituzioni, oppure da altri reporter – collaboratori virtuali. Certo, l’attendibilità di questo tipo di giornalismo è tutta da verificare (verificare le informazioni costa, in denaro ed impegno intellettuale), anche se la modalità di lavoro non è molto lontana da quella esperita da un giornalista che segue le varie vicende dalla sua redazione o perfino dall’inviato che, per vari motivi, si trova comunque lontano dal campo di battaglia.

Il sistema informativo: le Fonti
Delineati i vari elementi che a mio avviso sono co-responsabili delle tante dimenticanze del sistema informativo sulle guerre in atto nel pianeta, è bene ora soffermarsi proprio sul sistema informativo, per cercare di far emergere, se esistono, le ragioni di queste dimenticanze.
Come ho già scritto, molto spesso le guerre non vengono seguite dal circuito informativo internazionale; ciò implicitamente significa che molte azioni belliche non verranno mai prese in considerazione o conosciute. Negli eventi di guerra seguiti, i giornalisti non sempre vivono di persona tutto quello che relazioneranno, ma l’essere ad un passo da quel che succede potenzialmente permette all’inviato di verificare la veridicità o, almeno, l’attendibilità, di ciò che le fonti descrivono e di confrontare le sue informazioni anche con quelle di altri colleghi presenti. Tutto ciò per dire che molto probabilmente una redazione terrà maggiormente in considerazione, o darà la priorità, al lavoro dell’inviato rispetto alla pubblicazione di notizie che non ha la possibilità di verificare altrimenti. Può succedere inoltre che una fonte che in teoria dovrebbe essere ufficiale, non lo sia per niente: ciò accade spesso nelle guerre civili, dove diverse notizie arrivano da fonti istituzionali coinvolte nel conflitto stesso. In questo caso è lampante che tale attività “informativa” è pensata ed eseguita per finalità di parte, che se pubblicate finirebbero per alimentare solo un clima di strumentale consenso e, quindi, falsità. In tal senso è già stato accennato che il potere politico si serve molto spesso dei mezzi di informazione a proprio piacimento, tenendo lontano i giornalisti quando possono creare dei problemi, mentre li lascia liberi di indagare quando le notizie diffondibili sono volte a procurare un vantaggio d’immagine o altra natura. Caso emblematico, in tal senso, è l’attuale politica della Russia, che da quando ha rispeso a combattere i separatisti ceceni non rilascia più alcun visto d’ingresso ai giornalisti stranieri intenzionati ad entrare in quella regione.
Casi ancora più drammatici e funesti si sono registrati nella storia recente; casi che hanno visto salire in cattedra media impegnati a  distillare ed amplificare messaggi di odio e nel rendersi apostoli della violenza hanno contribuito a preparare il terreno per lo scoppio di guerre sanguinose. Esempi recenti risiedono nelle menzogne fabbricate ad arte da alcuni media prima e durante gli  eventi bellici nell’ex Jugoslavia; in Rwanda, con l’attività delle famigerate «Radio delle mille colline» e «Radio Rwanda», impegnate fin dal 1994 a promuovere uno spirito revancista e xenofobo tra le etnie; le razziste e squilibrate testate giornalistiche  burundesi e del Niger; i media dell’odio in azione in Egitto, in Crimea, in Romania, utilizzati in chiave di propaganda di politiche nazionaliste o discriminatorie.
La fonte di informazione più utilizzata dalle redazioni rimane quella delle Agenzie di stampa; alcune di esse sono delle vere e proprie multinazionali dell’informazione (le statunitensi AP e UP, l’inglese Routers, la francese France Press), diffuse in tutti i continenti e con moltissimi giornalisti alle loro dipendenze; esse, da sole, gestiscono l’80% del flusso di notizie mondiale; il rimanente 20% è suddiviso tra altre 296 società così ubicate: 142 negli Usa-Canada; 78 in Europa; 49 in Giappone e 27 nel resto del mondo. Le 4 multinazionali dell’informazione di fatto sono le fonti utilizzate dalle redazioni per reperire notizie dall’estero, soprattutto quando non si utilizzano gli inviati. Ma il loro campo d’azione riguarda in prevalenza l’emisfero Nord del mondo: soltanto il dieci per cento circa delle notizie diramate agli abbonati riguarda l’altro emisfero, ed è facile capire quindi da dove nasca, anche, l’isolamento informativo delle nazioni africane ed asiatiche attualmente in conflitto. Dal 1997 è operante tuttavia una agenzia che si occupa essenzialmente delle regioni del Sud del mondo: Misna (Missionary Service News Agency, www.misna.org), agenzia che attraverso giornalisti laici e missionari cattolici diffonde ogni giorno circa una trentina di notizie in tre lingue, tra cui anche l’italiano. Grazie proprio alla presenza dei missionari nelle regioni in cui si combatte, Misna è diventata un’autorevole finestra sui conflitti esposti all’oblio. La Caritas Italiana nella sua ricerca ha sottolineato che più di un terzo delle notizie che vengono pubblicate sui conflitti provengono da questa Agenzia, che certamente è aiutata da migliaia di insostituibili missionari, ma si avvale anche di un’equipe di dieci giornalisti, compreso il direttore responsabile. Notizie che sono pubblicate direttamente nel suddetto sito, senza fare “lanci” alle redazioni. Misna è un importante esempio di giornalismo che non ha bisogno di grandi risorse per svolgere un’attività di qualità, riuscendo ad utilizzare in maniera efficace e positiva le nuove tecnologie. Da questo iniziale excursus, che ha preso in considerazione fonti e inviati di guerra, emerge, a mio avviso, che il lavoro del giornalista rappresenta solo una parte di quel ingranaggio che produce dimenticanze.
 
Notizie e notiziabilità
Dall’indagine della Caritas emerge inoltre che soltanto una minima parte dei lanci di Agenzia divengono poi notizia ripresa dai media : infatti, su 331 notizie sui conflitti dimenticati presi in considerazione, ben 257 sono state cestinate e quelle pubblicate sono state riprese dai giornali il solo giorno successivo, dopodiché se né è persa la traccia. Per fare un esempio, la guerra in Costa d’Avorio è scoppiata il 19 settembre 2002, quando il presidente ivoriano era in visita ufficiale in Italia; nonostante questo i media italiani dopo pochi giorni dall’inizio del conflitto non ne parlavano già più: se un conflitto lontano di protrae a lungo nel tempo viene puntualmente marginalizzato.
Anche se poche, comunque all’interno delle redazioni le notizie arrivano, ma come? I dispacci d’Agenzia il più delle volte sono molto brevi e poco dettagliati, ciò crea non pochi problemi al redattore, che con grande fatica riuscirà ad approfondire o collocare  tale informazione nel contesto generale della guerra. Un altro importante elemento che viene tenuto in considerazione in questo contesto è il cosiddetto processo di notiziabilità. Le guerre maggiormente ricordate dai nostri connazionali sono quelle dove l’Italia ha inviato propri soldati (Somalia, Kosovo); questo tipo di conoscenza da parte degli italiani molto facilmente è figlio proprio del fatto che le notizie trovano ospitalità nei menabò dei giornali o nei palinsesti radiotelevisivi se collimano con i criteri di notiziabilità rispetto agli interessi del pubblico (novità, vicinanza, dimensione, comunicabilità, drammaticità, conflittualità, conseguenze pratiche, umanità espressa, idea di progresso e prestigio sociale) e al lavoro di redazione (natura-urgenza dell’evento, attualità-ritmo dell’evento e flusso d’arrivo delle notizie in redazione).
Quanto notiziabili siano le news sui conflitti non è semplice da dirsi: sarebbe necessario analizzare ogni singola notizia e fare poi una ricerca ad hoc, caso per caso. Alcune considerazioni, tuttavia, si possono comunque fare. Prima tra tutte quella che sicuramente le notizie sui conflitti nel pianeta poco si plasmano ai suddetti criteri relativi al lavoro di redazione, dato che l’urgenza raramente è riscontrabile e le notizie arrivano sul tavolo del redattore molto tempo dopo che sono accaduti gli eventi citati e, come già detto, il flusso a tal riguardo non può certo dirsi continuo, di norma.
I criteri invece che riguardano la selezione delle news in base all’interesse del pubblico trovano più punti in comune con le notizie sulle guerre: metà degli elementi per interessare sono infatti presenti nelle informazioni sui conflitti, ma è probabile che siano proprio i criteri che influiscono sul lavoro della redazione ad essere determinanti. Ciò è quanto è riuscita a dimostrare anche l’indagine della Caritas: i mezzi d’informazione sono spesso lontani dai veri interessi delle persone, che valutano così insufficiente il servizio offerto in questo ambito. La lontananza dai luoghi in cui gli eventi accadono, l’annosità dei conflitti e la diversa cultura di cui si  dovrebbe parlare e scrivere influiscono nelle scelte della redazione, che spesso preferisce non approfondire una notizia e nemmeno pubblicarla, dando per assodato che le uniche news che interessano  al proprio pubblico sono quelle che vedono l’Italia coinvolta direttamente, con legami militari, economici o diplomatici.
 
Mezzi di comunicazione
La politica dei vari mezzi di comunicazione sull’approccio alle guerre è molto simile: come evidenziato nel corso dell’indagine della Caritas, quasi tutto lo spazio (e l’attenzione) viene dedicato alle crisi che coinvolgono più da vicino l’Italia, cioè il Medio Oriente e Kosovo;  oggi che la questione Kosovo risulta essere archiviata, al suo posto ci sono quelle irachena e afgana. Esistono tuttavia delle diversità tra i vari media, prima tra tutte quella relativa al diverso utilizzo e radicamento dei mezzi d’informazione stessi e, quindi, al diverso ruolo e responsabilità attribuibili rispetto all’argomento di cui si sta discutendo: Radio e televisione 60% ; Quotidiani e riviste 28%; Parrocchia 4%; Internet 3%; Scuola 2%; Amici e parenti 1%; Non risponde 2%
Dall’analisi emerge che la radio rimane un mezzo molto utilizzato dal pubblico e fra i vari media, escluso Internet, la radio è l’unica che ha un maggiore equilibrio di spazio dedicato fra le guerre raccontate e quelle ignorate. Prendendo infatti come punto di riferimento il conflitto meno seguito da tutti i media (Guinea-Bissau) e quello più seguito al tempo dell’indagine (Kosovo), e confrontando le differenze di spazio dedicato, Caritas ha potuto verificare una minor sproporzione dello strumento radiofonico a confronto degli altri media: in radio lo spazio occupato dal conflitto in Guinea-Bissau è 115 volte inferiore rispetto all’attenzione riservata al Kosovo, mentre nella televisione tale rapporto è ben 2792 volte inferiore. Ciò, nella realtà, significa che nel corso dei due anni e mezzo di ricerca, la televisione pubblica italiana ha dedicato meno di due minuti al primo conflitto, mentre le tivù private nazionali non hanno destinato ad esso alcuno spazio. Per quanto riguarda invece i prodotti cartacei (quotidiani e riviste) la linea di tendenza è stata la seguente: 62,9% di attenzione rivolta al Kosovo; 32,3% alla Palestina, 1,7% allo Sri Lanka; 1,6% alla Sierra Leone; 0,9% alla Colombia; 0,3% sia all’Angola che alla Guinea Bissau. È emerso inoltre che i quattro quotidiani presi in considerazione dall’indagine utilizzano come maggiore fonte d’informazione l’Agenzia Ansa, seguita dalla Misna. Spesso è il numero di morti e feriti ad interessare i quotidiani, come il rapimento o l’uccisione di missionari italiani; fatti che in passato hanno poi determinato un maggior interesse a conflitti come quello della Colombia o Sierra Leone, divenute le guerre meno ignorate tra quelle dimenticate. Articoli che si caratterizzano, comunque, per  non finire mai in prima pagina o corredati da fotografie.
La televisione certamente è carente d’informazione sulla guerra; nella dimenticanza, però, la tivù pubblica dedica più spazio rispetto a quella privata; nonostante queste ultime reti siano cinque (tre reti Mediaset, La7 ed Mtv), mentre quelle pubbliche tre, di cui una (RaiTre) dedica parte dell’informazione ai tigì regionali.
Detto questo, considerando i suddetti mezzi meramente dal punto di vista fisico si può facilmente dedurre che le diversità sono molte e comportano una significativa differenza di fruizione da parte del pubblico o lettore. Tuttavia queste diversità di natura fisica non hanno determinato modi diversi di trattare gli eventi bellici; infatti  la strada imboccata sembra, in pratica, tracciata da un’unica corsia. Ciò porta a ritenere, pertanto, che la scelta dei quotidiani di allinearsi agli altri media sia un errore, in quanto non tiene conto della diversa tipologia di pubblico, oltre che delle proprie potenzialità. Radio e tivù sono spesso seguiti distrattamente mentre chi si accinge a leggere un giornale dedica, in teoria, tutta la sua attenzione alla lettura ed è alla ricerca di qualcosa che non trova negli altri mezzi d’informazione.
 
La rete delle reti
Un discorso a parte merita Internet, dato che esso rappresenta sì un mezzo d’informazione ma con caratteristiche uniche.  Il rapporto di Internet con le guerre è certamente diverso per molti aspetti rispetto agli altri media, tuttavia un punto di contatto è rilevabile nel fatto che esiste anche per Internet una sproporzione tra le notizie sui conflitti noti e maggiormente seguiti per antonomasia e quelli che in questa ricerca sono stati etichettati come “dimenticati”. Ciò, tuttavia, è significativo solo in parte, dato che la vastità della rete permette di far emergere moltissime risorse su qualunque conflitto. Mediante l’utilizzo di Google.com, ad esempio, è possibile trovare in media circa ottomila siti per conflitto, anche se c’è da sottolineare che circa il 55% dei siti sulle guerre nel mondo puntano l’attenzione sulle tre crisi maggiormente considerate attualmente: irachena, afgana e mediorientale. Una sproporzione che esiste ma forse non influisce più di tanto, dato che chiunque può comunque rintracciare nella rete moltissime informazioni su qualunque conflitto. Nei siti è possibile trovare spesso anche archivi o motori di ricerca interni, che permettono di portare a galla anche vecchie news sulle guerre; limite, questo, difficilmente bypassabile da un giornale cartaceo. Ecco che l’ipertesto diventa la risposta più flessibile alle ricerche d’informazione di una persona: se un lettore e “navigatore” oggi avesse comperato tutti i quotidiani non avrebbe trovato nessuna notizia sui conflitti dimenticati; mediante Internet, invece, in qualunque momento egli ha la possibilità di reperire moltissime informazioni su qualsiasi argomento di interesse.
 
Conclusioni
Nel corso di questo servizio sulle guerre dimenticate e sulle dimenticanze dei mass-media sono emerse molteplici questioni che, in sintesi, portano alla conclusione che l’ambito trattato è quanto mai complesso e caratterizzato da una molteplicità di variabili in grado di  influenzare a vario titolo quantità e qualità dell’informazione sugli eventi bellici. Basti l’esempio che l’iniziale ricerca di dati, riassunta nella tabella pubblicata nella newsletter precedente, è stata portata a termine con non poche difficoltà, dopo essermi imbattuto in dati a volte contraddittori, per segnalare la presenza di crepe di disorientamento anche tra le fonti informative “specializzate” prese in considerazione. Sembra comunque di capire che, in genere, non esiste una implicazione diretta dei vari sistemi mediatici nel determinare la scarsa informazione su gran parte delle guerre, bensì l’informazione è un processo a cui molti concorrono e regolano (editori, giornalisti, pubblicità ed interessi economici, lettori-clienti) ma nessuno, comunque, comanda. Ciò per dire che non è possibile rintracciare un vero responsabile delle problematiche sollevate, anche se ciò non significa affatto che la situazione attuale non possa essere diversa. Potenzialmente i mass media potrebbero fare di più. Se da un lato i tigì radiotelevisivi contemplano ed hanno, così come sono impostati, maggiori limiti, gli strumenti informativi cartacei potrebbero tuttavia uscire dall’allineamento (l)imitativo a cui sembrano sottostare. Certo, prevedere la presenza di un inviato in ogni conflitto e/o raccontare quotidianamente l’evoluzione delle situazioni sarebbe pretendere il troppo; ma l’oggettivo silenzio informativo su gran parte dei conflitti che caratterizza la situazione attuale, e che inequivocabilmente emerge tra le righe di questa riflessione pubblicata a puntate a GRILLOnews,  sembra stia riproducendo esattamente l’altra faccia della medaglia, chiamata il niente. E ciò, oltre che essere criticabile dal punto di vista etico e certamente non in linea, se non addirittura in contraddizione, con gli sforzi che gran parte degli addetti ai lavori nel settore dell’informazione tentano di fare per tutelare i minori, la privacy, la propria indipendenza… ecc., tutto ciò finisce per non rispettare le aspettative di gran parte dell’opinione pubblica, della clientela, così come evidenziato dall’indagine della Caritas Italiana.
I mass media ricoprono un potere che viene tenuto molto in considerazione da un altro potere, quello politico. Nel corso di queste righe mi sono soffermato, in particolare, a descrivere le conseguenze negative che un uso strumentale dei mezzi d’informazione può addurre. Ma si è visto, anche, che i media possono creare vari effetti nell’ambito dei conflitti armati, tra cui quello della moderazione dell’aggressività delle parti in lotta. L’attenzione mediatica può stimolare, di conseguenza, l’opinione pubblica, che generalmente –come evidenziato anche dalla più volta citata indagine della Caritas Italiana- si muove sempre verso risoluzioni diplomatiche e pacifiche, andando così a chiamare in causa proprio quel potere politico e quelle relazioni internazionali tra i vari stati che possono fare qualcosa per cambiare le sorti di una guerra. E qualcosa è sempre meglio che il niente.


Fonti: Bibliografia: AA.VV. – Caritas Italiana : «I conflitti dimenticati» – (Feltrinelli, 2003); Alberto Papuzzi: «Professione giornalista» – (Donzelli, 2002); Carlo Gubitosa: «L’informazione alternativa» – (EMI, 2002); Mimmo Candito: «I reporter di guerra» – (Baldini e C., 2002); Reporters Sans Frontieres: «I media dell’odio» – (Ed. Gruppo Abele, 1998). Consultazione di vari quotidiani e riviste: Corriere della Sera, La Repubblica, La Stampa; «Nigrizia» di gennaio, febbraio e marzo 2003. Siti Internet www.misna.org  (Agenzia giornalistica);  www.warnews.it , sito che diffonde notizie su tutti i conflitti in corso.