[di Vauro Senesi • 27/09/01] L'Afghanistan è un pessimo posto in cui andare, di questi tempi. Ne fuggono a centinaia di migliaia, attraverso i passi che si affacciano sul Pakistan. A risalire la corrente sono pochi temerari, professionisti della pace e della guerra: un pugno di giornalisti che cerca l'imbarco su scassati elicotteri mujaheddin, un'imprecisata quantità di teste di cuoio britanniche che ci arrivano col paracadute, sparuti gruppi di musulmani che vanno a arruolarsi nella jihad prossima ventura, a piedi...

INTERVISTA A GINO STRADA DAL CUORE DELL’AFGHANISTAN

L’Afghanistan è un pessimo posto in cui andare, di questi tempi. Ne fuggono a centinaia di migliaia, attraverso i passi che si affacciano sul Pakistan. A risalire la corrente sono pochi temerari, professionisti della pace e della guerra: un pugno di giornalisti che cerca l’imbarco su scassati elicotteri mujaheddin, un’imprecisata quantità di teste di cuoio britanniche che ci arrivano col paracadute, sparuti gruppi di musulmani che vanno a arruolarsi nella jihad prossima ventura, a piedi. E poi c’è un chirurgo italiano che in Afghanistan ha un pezzo di cuore e due ospedali.Hanaba è nel Panshir, ben dentro la valle che fu il regno di Ahmed Shah Massud prima che lo ammazzassero, come misura preparatoria al massacro delle Torri gemelle. Dopo dieci giorni di tentativi, Gino Strada è riuscito a rientrare in Afghanistan e a tornare nel “suo” ospedale, quello di Hanaba. La ricetta è stata molta pazienza, ottime conoscenze, un buon cavallo e un telefono satellitare. La sua organizzazione, Emergency, oltre a quello di Hanaba ha un ospedale a Kabul (chiuso dopo un’incursione di Taleban, che non ritenevano maschi e femmine correttamente divisi). Aveva lasciato la capitale in luglio, quando l’Afghanistan era il paese delle donne murate nei burqua, dei buddha scalpellati a cannonate e della povertà più spaventosa. Subito dopo gli attacchi ha cercato di tornare, ma ora l’Afghanistan è il centro di un mirino planetario – e della povertà più spaventosa, naturalmente. Quella non si è mossa mai. La prima cosa che ti chiedo naturalmente è: come stai? Bene. Insomma… voglio dire, il viaggio è stato duro, cinque giorni con la jeep e poi con il cavallo. In sella non è male, però si va sempre a quote tra i tre e i cinquemila metri, abbiamo superato un passo alto come il Monte Bianco. Un viaggio terribile anche perché tra la partenza e l’arrivo non c’è niente in mezzo, e devi pur trovare riparo. Questo paese ti sta molto a cuore a quanto sembra.  Mi piacciono loro, mi piace la gente dell’Afghanistan. E’ gente che sta pagando ormai da troppo tempo.  “Loro” non sono il nemico?  Assolutamente no. Io non mi sento più americano di quanto non mi senta afghano, anzi se devo proprio scegliere…. Credo che questo paese abbia pagato abbastanza per le scorribande di tutti quelli che ci hanno giocato, dall’Unione sovietica agli Stati uniti, dall’Inghilterra al Pakistan, all’Arabia saudita. E hanno pagato loro in carne ed ossa, non dimentichiamoci che questa guerra ha fatto una cifra vicina ai due milioni di morti. La gente che incontri è gente che non ha niente a che fare con la guerra, che non sa neanche che la guerra c’è, se non quando si trova una bomba che gli piove addosso o una mina che gli scoppia sotto. Per forza della gente così ti sta a cuore. E’ vero che le organizzazioni umanitarie e il personale dell’Onu hanno lasciato il paese? Emergency non ha lasciato perché non abbiamo alcuna ragione per lasciare. Ciascuno fa le sue scelte, ma credo che proprio ora serva essere vicino agli afghani.Bisogna dimostrare che non stiamo giocando, perché la memoria delle cose resta e tra dieci anni diranno “sì, però quando hanno minacciato di attaccarli – speriamo sia solo una minaccia – avete mollato”. Se si vuole un dialogo con queste persone, con la loro cultura, bisogna per forza fare dei pezzi di strada insieme. Altrimenti arriva lo scontro. Ormai in Italia ti conoscono tutti, alcuni pensano che sei un eroe e altri che sei un pazzo incosciente.  Fesserie. Certamente la prima, quella di essere un eroe, ma credo anche la seconda cioè di essere pazzo. Noi siamo qui per fare il nostro mestiere, ed è quello di curare le vittime di guerra, non soltanto i feriti nel senso più lato. Perché anche chi non può avere un’appendicectomia o una gravidanza sicura perché la guerra ha distrutto tutto è una vittima di guerra. E allora che facciamo, siamo qui per curare le vittime di guerra e proprio quando la guerra si avvicina ce ne andiamo? Siamo qui semplicemente per fare il nostro lavoro, o almeno uno dei due compiti che compaiono nello statuto della nostra organizzazione. Qual è l’altro? Quello di promuovere una cultura di pace e di solidarietà. L’importante è capire che le due cose non sono diverse, sono semplicemente due modi diversi per riaffermare il principio che la vita umana ha un senso, un valore che mette fine a ogni discussione. Credo che la cultura di pace nasca dall’iniziativa di pace, è il fatto di fare delle cose che ti da anche diritto di parola. Andrai anche a Kabul?  Oggi o domani mi metterò in contatto con le autorità di Kabul. Spiegheremo la situazione, spero che le autorità talebane siano disponibili. Abbiamo sempre cercato di riaprire l’ospedale, che avevamo chiuso dopo aver subito un’aggressione armata. Però in questo momento credo sia nostra responsabilità dire chiaro che, anche se non siamo d’accordo su un sacco di cose, qui c’è una potenziale catastrofe umanitaria. Allora teniamo questo ospedale pronto a funzionare, se ce ne fosse bisogno, e se poi non ce n’è bisogno tanto meglio. A me non piace parlare di pacifismo in senso astratto, e credo che aprire un ospedale dove lavora anche personale straniero sia uscire dall’astrazione. Dicevi che molti afghani di questa guerra non sanno nulla. Che clima hai trovato tra le persone? Hanno la percezione di ciò che incombe su di loro? Sono tutti molto preoccupati di quello che può succedere, però credo che la gente comune non capisca. Perché si sta parlando di attaccare l’Afghanistan? Perché si è identificato l’Afghanistan come la culla del terrorismo internazionale? E che c’entra la popolazione afghana? Non c’entra niente. Allora bisogna essere seri, non si può continuare con i giochini. Il terrorismo internazionale islamico è stato creato, finanziato, addestrato, pianificato dagli Stati uniti d’America insieme con l’Arabia saudita per quanto riguardava il finanziamento, e dal Pakistan per quanto riguardava l’organizzazione pratica logistica. Questo è un dato incontrovertibile, sta già nei libri di storia. Come sono arrivate fin qui persone di 22 nazionalità diverse? A Kabul ci sono algerini, sudanesi, filippini, ceceni, magrebini, marocchini, egiziani, iracheni. Chi ha dato loro le armi? Se gli Usa attaccheranno, qualche elicottero americano verrà abbattuto da missili americani. Tra le molte ipotesi che si fanno, ora c’è quella di appoggiare la guerriglia mujaheddin in funzione anti-taleban. Io non esprimo posizioni politico-militari. Tutte le volte stiamo a discutere di cosa fare, senza renderci conto che stiamo elaborando la terapia per un malato terminale. Ma non si potrebbe pensare alla cura quando cominciano i sintomi? Le vittime hanno tutte quante la stessa faccia, a Kabul come a New York. Preferirei che si cominciasse a ragionare sul perché ce ne sono. Anche i gesti più tremendi non nascono dal nulla. Questi clamori di guerra hanno già provocato degli effetti? Hanno già provocato dei morti, che mi sembra più preciso. Quando su una popolazione di una quindicina di milioni di persone poverissime si determina un aumento del costo dei generi alimentari di prima necessità (del riso, della farina, dello zucchero) del 30-40 per cento in due settimane, vuol dire che domani uno su tre non mangia. E spesso muore. Che prospettive ha questa gente? Qui le prospettive non sono rosee per nessuno, anche perché dall’Afghanistan se ne sono andati tutti. Hai presente la gente comune, i più poveri? Ancora una volta pagheranno loro. Io spero che si crei un grande movimento di opinione pubblica che dica: bisogna aiutare i più sfortunati, specie quando noi siamo responsabili della loro situazione. Bisogna aiutarli e non bombardarli. Perché lì dentro, sotto ciò che vedono i piloti super-tecnologici e super-intelligenti, ci sono carne, muscoli, ossa, roba che noi chiamiamo esseri umani.