ITALIA. ARMI E VALORI, GIOIE E DOLORI


«Nell’Italia della crisi c’è un settore che continua a volare, quello delle armi. E da due anni è calato il silenzio assoluto sulle banche» che prestano i propri servigi per le operazioni d’appoggio all’export di armi leggere e pesanti. C’è un’Italia in cui gli affari legati alla produzione e commercializzazione di armamenti vengono prima di qualsiasi principio etico. E c’è un’Italia, invece, di persone di buonsenso che si mobilitano per dire basta a questo autentico spreco di risorse pubbliche.



C’è un’Italia in cui gli affari legati alla produzione e commercializzazione di armamenti vengono prima di qualsiasi principio etico. E c’è un’Italia, invece, disposta perfino a digiunare per richiamare l’attenzione sulla preoccupante escalation delle spese militari e dell’economia armata «Made in Italy». C’è un’Italia di enti pubblici e privati che, più o meno di nascosto, traffica e incassa profitti vendendo armi anche (e, ultimamente, soprattutto) a regimi dittatoriali. E che spende faraoniche cifre per riempire i propri arsenali di guerra. E c’è un’Italia, invece, di persone di buonsenso che si informano, si mobilitano, firmano petizioni e articoli per dire basta a questo autentico spreco di risorse pubbliche, che ogni buon padre di famiglia sa che potrebbero essere destinate ad altri settori produttivi, oppure a servizi utili a tutti.

Sulla prima Italia sono state scritte, in questi giorni, pagine già lette nel 2009 e prima ancora: «Nell’Italia della crisi c’è un settore che continua a volare, quello delle armi. E da due anni è calato il silenzio assoluto sulle banche» che prestano i propri servigi per le operazioni d’appoggio all’export di armi leggere e pesanti, scrive Stefano Vergine sul «Fatto Quotidiano». Ed aggiunge: «Osservando i numeri, l’impressione è quella di essere capitati sulla pagina del ministero dell’economia cinese. Perchè la crescita è a doppia cifra, tipica di un Paese emergente. Siamo invece in Italia, dove nel 2009 le esportazioni sono crollate del 20,4% rispetto all’anno precedente, il calo maggiore dal 1970. C’è però un settore che non ha risentito della crisi: quello delle armi. Nell’anno appena trascorso l’industria militare italiana si è superata. Mentre il comparto tessile arrancava sotto i colpi della concorrenza straniera (-23,2%) e il mercato dell’auto subiva gli effetti più immediati della recessione (- 34%), le società italiane attive nella produzione di armi hanno visto aumentare del 61% gli ordini in arrivo dall’estero. Performance di gran lunga migliore rispetto ai più noti simboli del made in Italy».

«Un capitolo a sé stante merita l’attività degli istituti di credito in relazione alle transazioni bancarie in materia di esportazione-importazione e transito di materiali di armamento» sottolinea su «Nigrizia» Gianni Ballarini. «Per il secondo anno consecutivo non è stata pubblicata la tabella (né parziale, né completa) che riporta le indicazioni delle singole operazioni autorizzate dal ministero dell’Economia e delle Finanze agli istituti di credito, relative all’esportazione di armi italiane nel 2009. Una tabella significativa per tutte le associazioni della società civile e per i singoli correntisti, perché consente loro di poter verificare se agli annunci di una parte del mondo bancario di abbandonare questo business corrispondono, poi, dei fatti concreti». Dati che rimangono nascosti perché «la quasi totalità delle grandi banche italiane continua a fornire risorse economiche alle industrie che producono armamenti».

A dirci chi sono i committenti delle produzioni nazionali è l’annuale Rapporto della Presidenza del Consiglio sull’esportazione di materiali militari. Giorgio Beretta li elenca su «Unimondo.org»: «Sono nazioni del Nord Africa e Medio Oriente i principali clienti dell’industria militare italiana: verso quest’area geopolitica sono state rilasciate autorizzazioni all’esportazione di armamenti per oltre 1.9 miliardi di euro pari al 39,5% del totale. Tra i maggiori acquirenti spiccano oltre all’Arabia Saudita (1,1 miliardi di euro di commesse, pari al 16,3% del totale), il Qatar, soprattutto per la fornitura di elicotteri, gli Emirati Arabi Uniti, il Marocco e la Libia, per citare solo i principali».

Senza fare troppo rumore, insomma, l’Italia del «Made in Italy, del prosciutto San Daniele e del Parmigiano Reggiano», l’Italia conosciuta in tutto il mondo, sta diventando sempre di più un Paese che produce, investe e vende armi. Un argomento tabù, questo, per i mass media più blasonati, che si tengono ben lontanti dallo scoperchiare la fossa piena di vermi di un business di cui andare poco fieri.

L’ALTRA ITALIA



Nelle scorse settimane GRILLOnews.it ha cercato di rilanciare, su scala nazionale, il dibattito sulla “madre” di tutti i suddetti tabù informativi: il programma di produzione e acquisizione di 131 cacciabombardieri F-35 (aerei d’attacco capaci di portare, se serve, anche ordigni atomici) varato dall’attuale Governo attraverso all’adesione (bipartisan) al gigantesco programma di riarmo «Joint Strike Fighter». Mastodontiche le spese preventivate nel periodo 2009-2026: oltre 15 milardi di euro, equivalenti a oltre 30.000 miliardi di lire. Duecentocinquanta euro a carico di ognuno dei sessanta milioni di abitanti del paese. Spesa che è destinata ulteriormente ad aumentare, se si considera che dal 2001 al 2009 il costo preventivato per ogni singolo velivolo è più che raddoppiato.

É stata per questo lanciata, all’interno delle iniziative della «Campagna di indignazione nazionale», la «1^ Settimana di digiuno (alimentare e/o televisivo) per il disarmo», che al motto «Tu Sprechi, io digiuno» ha fatto seguire l’azione-partecipazione di 96 aderenti residenti in tutta la Penisola, impegnati in un digiuno da cibo a staffetta per uno o più giorni e/o a lasciare spenta la tv per tutta la settimana, quale segno di disappunto per il silenzio e l’assenza di informazione sulla questione dei caccia F-35, che finora ha contraddistinto in negativo gran parte del panorama informativo.

Francesco Vignarca, coordinatore della «Rete italiana per il Disarmo» e aderente alla «Settimana di digiuno» spiega: «Per chi si occupa da tempo del tema delle spese militari e della loro diminuzione e controllo è naturale impegnarsi affinchè non venga portato a termine lo scellerato acquisto dei caccia F-35. Tanto più che da più parti (anche ufficiali, anche del Pentagono) si continua a sottolineare la crescita esponenziale dei costi che potrebbe addirittura portare ad un esborso per l’Italia di ben più dei 14 miliardi già previsti. Come «Rete italiana per il Disarmo» e campagna «Sbilanciamoci!» abbiamo lavorato sul tema con il lancio di un appello e di una petizione online, condotta poi anche con il grande supporto di GRILLOnews.it e della «Campagna di Indignazione nazionale» promossa sullo stesso tema. Il caso degli F-35 dimostra come la riconversione della produzione militare – che è dimostrata meno efficiente di quella civile – sia in molti casi possibile da subito solamente “riconvertendo” i capitoli di spesa dei Governi, sempre pronti a tagliare sociale e istruzione e a mettere mano alla borsa per i “giocattoli” di natura militare. Crediamo che questo caso sia davvero emblematico e che sia uno schiaffo a molte cittadini e cittadine in difficoltà in questo periodo di crisi. A riguardo sono lampanti i numeri forniti dalla Campagna alla pagina www.disarmo.org/nof35».

É possibile leggere le testimonianze di alcuni aderenti alla «Settimana di digiuno per il disarmo», pubblicate su GRILLOnews nella sezione dedicata alla «Campagna di indignazione nazionale». E, chi non l’ha già fatto, è invitato a porre la propria firma accanto a quelle delle oltre 20 mila persone e associazioni nazionali e locali che hanno già sottoscritto l’appello «Caccia al caccia! Diciamo NO agli F-35», promosso dalla «Rete Italiana per il Disarmo» e dalla «Campagna Sbilanciamoci!». É questa l’altra Italia, che non si rassegna al silenzio.

Amedeo Tosi



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