[Daniele e Patrizia Aronne • luglio 2004] Osservare le stelle da una enclave serba in Kosovo è qualcosa di impressionante: ti colpisce prima di tutto la bellezza naturale del cielo e l´intensa luminosità delle stelle (anche perché ancora oggi centinaia di famiglie kosovare vengono sistematicamente lasciate senza corrente elettrica per ore ed ore tutti i giorni!), ma poi ti assale prepotentemente la consapevolezza che stai guardando le stelle da una prigione a cielo aperto...

KOSOVO. ANCORA PRIGIONI A CIELO APERTO

Osservare le stelle da una enclave serba in Kosovo è qualcosa di impressionante: ti colpisce prima di tutto la bellezza naturale del cielo e l´intensa luminosità delle stelle (anche perché ancora oggi centinaia di famiglie kosovare vengono sistematicamente lasciate senza corrente elettrica per ore ed ore tutti i giorni!), ma poi ti assale prepotentemente la consapevolezza che stai guardando le stelle da una prigione a cielo aperto.

Il Kosovo è terra di Albanesi mussulmani e cattolici, di Serbi, Gorani, Egizi, Rom… ma è anche terra di nessuno. L’Operazione Colomba (che è il Corpo Nonviolento di Pace dell’Associazione Giovanni XXIII di don Benzi) è l’unica realtà internazionale non militare presente a Gorazdevac dal ´99 ad oggi (anche grazie al coordinamento di associazioni denominato “Trentino con il Kosovo”): Gorazdevac è una piccola enclave serba a circa 2 km da Pec-Peja. Il villaggio sembra tranquillo: ci sono molti giovani, case povere ma ben curate, giardini fioriti, piccoli orti e cimiteri.

Sembra tutto normale peccato ci siano all’ingresso e all’uscita del villaggio check-point della KFOR (Kosovo Force) a “tutela e controllo di ogni movimento umano”. Noi possiamo entrare ed uscire a nostro piacimento, passaporto in mano vai ovunque, peccato che i serbi di Gorazdevac siano rinchiusi lì da 5 anni e non abbiano libertà di movimento al di fuori di questi confini senza rischiare di mettere a repentaglio la propria vita. La storia, la politica e i bombardamenti NATO hanno relegato le varie etnie a vivere isolate, diffidenti, depresse ed insoddisfatte.
E’ una storia fatta di e/orrori mai ammessi, responsabilità di tutti e di nessuno… pagliuzze e travi, dove le colpe sono sempre dell’”altro”.

Quando parli di Kosovo pensi ai profughi, alle bombe della NATO, alla pulizia etnica, ai morti e ai tanti ragazzi militari in missione di “pace”, ma oggi più che mai pensi anche ai miliardi di dollari arrivati sotto forma di “aiuti umanitari”, “programmi speciali” e “investimenti” che avrebbero potuto risolvere i problemi di qualsiasi Stato africano ma che in Kosovo, sinceramente, hanno risolto ben poco (anche perché forse solo in piccola parte sono concretamente andati a beneficio della gente…!?).

Non pensi però a persone vere, persone con volti e nomi, che sono sopravvissute a morte, dolore e distruzione e che vivono soffrendo la loro condizione di prigionieri-fantasma. E’ più facile pensare che una terra piena zeppa di truppe armate sia una terra tranquilla e che ghettizzare le persone crei una situazione facilmente controllabile.

Ma è proprio “sul campo” che tocchi con mano (per ammissione più o meno diretta di responsabili dell´UNMIK – Missione in Kosovo delle Nazioni Unite) il fallimento dell’intervento internazionale, di molte ONG (Organizzazioni Non Governative) e di alcuni programmi dell’ONU.
Vedere negli occhi di alcuni nostri amici che lavorano nell’Amministrazione Civile dell’ONU l’imbarazzo nel non saperci ancora dire che Status avrà in futuro il Kosovo (indipendenza o autonomia?) e leggergli in volto, tra un sorriso ironico ed uno isterico, la triste consapevolezza di essere alla guida di una nave costretta a brancolare nel buio mentre miliardi di dollari continuano ad essere spesi per mantenere in piedi strutture logistiche praticamente inutili… e poi l’incapacità della struttura militare di essere forza di polizia e di protezione in situazioni post belliche, di entrare in contatto con la gente, di intessere rapporti umani… tutto ciò è molto triste.

Amareggiati allora pensiamo: è veramente una “grazia” (o “fortuna” per i non credenti…) che qui ci sia l´Operazione Colomba… volontari che, lontano dai riflettori della cronaca, spendono la propria vita per proporre il dialogo come unica alternativa possibile all’annientamento morale e umano e che dopo aver curato “le ferite” dell’animo dei civili vittime dei bombardamenti e della follia omicida di entrambe le parti, negli ultimi 5 anni hanno tracciato un cammino fatto di piccoli passi verso la riconciliazione, nel tentativo di costruire nuovi e più solidi ponti tra tutte le persone che inevitabilmente e da ogni parte hanno perso qualcosa (se non tutto).

Ed è con questa semplicità che dopo aver guardato le stelle da una prigione abbiamo abbassato lo sguardo e visto 23 ragazzi mangiare allo stesso tavolo e bere la stessa birra: ragazzi italiani, ragazzi serbi “padroni” dell’enclave e ragazzi albanesi “ospiti” venuti appositamente dalla città (senza scorta armata ma con noi come accompagnatori e garanzia) per festeggiare insieme, giovani che per non far morire la speranza di una vita normale cercano di andare oltre i pregiudizi e le ingiustizie passate, trovando punti in comune in tante piccole attività quotidiane.

La perplessità e l’amarezza che ci restano è sapere che se la comunità internazionale avesse lavorato con umiltà e attenzione da subito forse non avremmo ancora oggi queste prigioni a cielo aperto dove a volte i sogni muoiono sulla riva di un fiume insieme ai ragazzi, come Ivan, che su quel fiume hanno provato a sognare.

I volontari dell’Operazione Colomba
Daniele e Patrizia Aronne