[Vincenzo Andraous • 17.08.04] Qualche tempo addietro scrissi dei tanti suicidi e  dei troppi silenzi che circondano il carcere…Ricordo la risposta indifferente...

QUEL CAPPIO AL COLLO

Qualche tempo addietro scrissi dei tanti suicidi e  dei troppi silenzi che circondano il carcere…Ricordo la risposta indifferente. Mi sono chiesto spesso qual è il volto nascosto dietro le righe di una notizia.  Qual è il volto e la storia dell’ultimo uomo scivolato in “SCACCO MATTO” in un carcere. Quanto questo ennesimo suicidio risarcisce  in termini di umanità, al di là della mera notizia?

Penso a quel uomo, l’ultimo della serie che s’è impiccato o asfissiato.  A quel volto, a quel cappio al collo, e intravedo l’importanza di demolire i ghetti mentali, di per sé espressione di quello spirito umano… spesso incatenato.

Non conosco il volto strozzato in quel carcere, ma comprendo la difficoltà  dell’accettazione del dolore, il che in una parola sottenderebbe assenza di saggezza.

So bene quanto è difficile agguantarne l’orma, e quanto a volte ciò sembri lontano, sebbene così straordinariamente vicino, al punto da non vederne neppure l’ombra.

In un carcere è  difficile perforare quella superficialità che è corazza a difesa, il “muro di niente” contro cui cozziamo e moriamo.
E’ davvero difficile raggiungere quella falda profonda a nome interiorità, navigando tra anse e anfratti, scogli e derive per arrivare a quell’essenza che può dirci di cosa siamo capaci, e addirittura svelarci  il significato da dare alla vita. Nei riguardi del carcere non credo che tutto ciò che vi accade sia arbitrario, illegale, ingiusto, forse è solo il risultato del nulla prodotto, appunto, per mancanza di un preciso interesse collettivo o meglio della sua comprensione sensibile. Forse sarebbe il caso di ripensare davvero alla possibilità di un carcere a misura di uomo, anche dell’ultimo degli uomini.

Perché in carcere, oltre alle ben note etichette, stigmatizzazioni e umiliazioni, va di moda la flessibilità, non quella del lavoro né della pena: umana, dignitosa, condivisa.

Si tratta di flessibilità nel risolvere i problemi endemici che soffocano l’ Amministrazione Penitenziaria, la quale pare muoversi come la nostra evoluta società, che cresce, si educa, si realizza pari passo con l’imbarbarimento dei sentimenti e dei valori, scambiati per medaglie e successi da conseguire a tutti i costi.

In galera ci si perde per sempre, perché è un luogo separato davvero, da una società che corre all’impazzata al supermercato delle suggestioni, degli ideali venduti a buon prezzo, della fede che non è amore che libera, ma fatica di pochi momenti.

In carcere è morto un altro uomo? I mass-media hanno sparato a zero sul sistema, hanno detto che si è suicidato, per l’invivibilità della prigione, per il peso del proprio reato, per la solitudine imposta…

Ho l’impressione che occorra quella coerenza che riporta al centro l’essere umano, con partecipazione per chi subisce il dolore dell’offesa tragica, e con l’attenzione sensibile che non è accudente, né giustificante, ma un preciso interesse collettivo, affinché l’uomo possa migliorare e trasformarsi.
 
Vincenzo Andraous