[di Paolo Mozzo • 06.10.02] La musica, un anno dopo, è la stessa. Tamburi di guerra. Settembre 2001 di lutto, da New York a Kabul. Settembre 2002 di lutti annunciati su Baghdad. «Lutti già presenti: un milione e mezzo di morti in 12 anni di embargo mi sembrano abbastanza. O no?», corregge Gino Strada, 54 anni, chirurgo e fondatore di Emergency , l’associazione attiva nel mondo per l’assistenza medica ai civili vittime di conflitti...

LA SCELTA DI EMERGENCY

La musica, un anno dopo, è la stessa. Tamburi di guerra. Settembre 2001 di lutto, da New York a Kabul. Settembre 2002 di lutti annunciati su Baghdad. «Lutti già presenti: un milione e mezzo di morti in 12 anni di embargo mi sembrano abbastanza. O no?», corregge Gino Strada, 54 anni, chirurgo e fondatore di Emergency , l’associazione attiva nel mondo per l’assistenza medica ai civili vittime di conflitti. Vede addensarsi «un attacco all’Iraq annunciato con fragore e che verrà, poco ma sicuro. Salvo mobilitazione immediata delle coscienze». Il contatore sul sito Web (www.emergency.it) segna oltre 100 mila adesioni a un appello di cinque righe e un solo concetto: «L’Italia dica “no”, non partecipi. Nel rispetto della Costituzione». Lui, il coordinatore della squadra che in otto anni ha ricucito le ferite aperte dall’odio in Cambogia e Sierra Leone, in Afghanistan e Cecenia, è ancora una volta in partenza: destinazione Baghdad. «Tratterò col governo iracheno l’allestimento di un centro chirurgico nella capitale e anche altrove, se necessario».

«Se scoppierà la bufera – aggiunge Gino Strada – dovremo essere lì, con l’equipe pronta a operare». Lo dice con amarezza. Perchè tutto sembra il replay di una scena già vista un anno fa: la lunga cavalcata attraverso le linee del fronte verso una Kabul ancora (per poco) talebana, l’ospedale da riaprire e i letti che subito si saturano di dolore. Lo dice con rabbia «perchè quelli che, a destra come a sinistra, si riempiono la bocca di paroloni, di analisi strategiche, di armi intelligenti non hanno mai i loro figli là, a morire sotto le bombe senza cure e medicine».

Settembre 2001, settembre 2002. Cos’è cambiato?
«Si è aggravata l’insicurezza per i cittadini del pianeta. Entro tre mesi potremmo trovarci coinvolti in un conflitto dall’esito potenzialmente mondiale, in cui si ipotizza senza imbarazzi l’uso di armi nucleari. I governi manovrano la disinformazione. Il rischio è pratico e concreto. Ma, al di là dell’irrilevanza delle opinioni politiche individuali, non c’è alcuna volontà di renderlo visibile».

Perchè?
«Perchè la politica è stata usurpata, a livello mondiale, da bande criminali sorrette da potentati economici e dal controllo dei mezzi di comunicazione. E questo gioco di squadra riesce a spostare l’attenzione del pubblico dalla realtà: l’attacco all’Iraq è una guerra per il petrolio. Tutti lo sospettano, lo mormorano. Ma dirlo chiaro equivale a urlare: “Il re è nudo”».

Chi vince in questo gioco?
«Vince il più forte. Oggi tocca a Baghdad. Domani a chi? Alla Corea, al Sudan, allo Yemen? Il più forte decide, gli altri lo seguono».

Guerra inevitabile, dunque?
«Un dato è certo e gli ultimi anni lo dimostrano, dal Medioriente all’Afghanistan: la politica non sa, né vuole, prevenire ed evitare i conflitti. L’ingiustizia planetaria ne è la causa profonda. Ma è soprattutto l’incapacità culturale di bandire la guerra come opzione, estrema o primaria che sia, ad alimentare la spirale».

Che resta all’uomo della strada? Guardare, aspettare e sperare?  
«Il nostro appello ha sommato oltre 90 mila adesioni. È un record per una raccolta di firme sulla rete Internet. Significa, a mio avviso, qualcosa: che molti italiani, per i motivi più vari e personali, non vogliono una guerra. Per religione, coscienza o semplice desiderio di tranquillità sanno che l’uso delle armi servirà solo a qualche lobby economica per strappare contratti migliori. E dicono no. Anche per non diventare bersagli di una spirale di ritorsioni. Israele e palestinesi stanno pagando gli errori proprio a questo prezzo»

E questa è politica…  
«Politica certo, ma senza targa per quanto riguarda Emergency . Nell’ottobre 2001 siamo andati a combattere con un governo di centrodestra. Prima l’avevamo fatto con uno di centrosinistra. Abbiamo una Costituzione, un articolo 11: “L’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie…”. Voglio essere provocatorio: aboliamolo se non lo vogliamo onorare. Decidiamo, una buona volta, se quella Carta vale qualcosa o la si può spiegazzare al bisogno».

Guerra no, comunque e sempre?
«La guerra è un macello orrendo, anche se poco filtra e si riesce a fare conoscere. Chi si oppone viene tacciato di catastrofismo, di vigliaccheria, di antipatriottismo: possibile che non si possa, non si voglia affrontare un tema di questa portata in modo sereno?»
 
Eravate in piazza con il «girotondo per la giustizia». Equivale a una scelta?  
«C’è un legame tra la giustizia, o la sua assenza, e la guerra. Nulla più. Ripeto: sinistra e destra non hanno fatto per la pace una più dell’altra. È una realtà»

Emergency che farà?
«Chiameremo i cittadini a esprimersi»

Come?
«Ci stiamo pensando. Venerdì 27 a Roma ci sarà una manifestazione per dire «fuori dalla guerra, no a un intervento diretto o indiretto». E terremo alte le voci anche per i mesi a seguire. Il come si vedrà»

E il perchè?
«Per la giustizia, per l’orizzonte dei nostri figli. Io ho 54 anni. Quand’ero bambino Hiroshima e Nagasaki mi sembravano un incubo e uno spettro. Oggi altrettanto».

Siete già in Iraq con tre centri di riabilitazione e 20 chirurgici. Com’è la situazione dopo 12 anni di embargo?
«Drammatica. I numeri dicono poco al mondo: un milione o un milione e 100 mila morti sembrano la stessa cosa. Chi riesce a vedere la vera “differenza” di 100 mila vite? In realtà un milione e mezzo di persone hanno pagato questo embargo assurdo. Il popolo iracheno ha sofferto l’inimmaginabile. Lo sappiano i teorizzatori delle sanzioni: paga la gente. I politici, del resto, non hanno mai i figli loro a crepare in ospedali senza medicine…»

Nell’immediato?
«Parto tra due settimane per Baghdad. Spero di ottenere l’autorizzazione ad aprire una clinica chirurgica nella capitale. Anche altrove, se servirà».

Lei aveva criticato il «disimpegno» delle agenzie umanitarie nell’imminenza dell’attacco all’Afghanistan. Ha cambiato idea?
«No. Da quando qualche sciagurato ha inventato una bestialità come la “guerra umanitaria” la filosofia delle grandi organizzazioni è rimasta la stessa: via tutti quando piovono le bombe, rientro poi con le “briciole per i poveracci” quando la polvere si è posata. Alle critiche rispondono di aver “lasciato sul posto il personale locale”. Bella forza: come se infermieri e impiegati afghani o iracheni potessero scegliere, senza problemi, di andare o stare. Così è. Resta, ma è tutto loro, il problema dell’”identità etica”»

Che per Emergency non si pone?
«Noi andiamo dove c’è qualcuno da curare. Dovunque riusciamo ad arrivare. Stiamo ampliando l’attività in Afghanistan, apriremo un centro di riabilitazione in Algeria e stiamo valutando un intervento nella città di Jenin».

Che bilancio per Emergency dopo otto anni?
«Abbiamo assistito 320 mila persone. Non mi sembra poco. Abbiamo un sostegno fortissimo dalla base, migliaia di persone. E questa è una molla ancora più forte».


(L’Arena – Domenica 22 settembre 2002)