[di Luciano Pasqualotto • Maggio 1998] Nel numero precedente è stato pubblicato per errore un testo destinato ad altro lavoro. Nello scusarci con i lettori, proponiamo qui l'articolo originale, che focalizza l'attenzione su una questione importante e troppo spesso “invisibile” per gli adulti. Il problema è subito posto: cosa fanno i nostri figli quando non sono a scuola?...

LA SOLITUDINE DEI BAMBINI

Nel numero precedente è stato pubblicato per errore un testo destinato ad altro lavoro. Nello scusarci con i lettori, proponiamo qui l’articolo originale, che focalizza l’attenzione su una questione importante e troppo spesso “invisibile” per gli adulti. Il problema è subito posto: cosa fanno i nostri figli quando non sono a scuola? Quali possibilità hanno di relazioni libere e spontanee con coetanei? Come possono maturare quelle competenze sociali che sono il requisito di tutte le relazioni interpersonali? Il Rapporto sui minori 1996, pubblicato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e curato dai più eminenti studiosi di scienze dell’educazione, ha evidenziato il problema della “solitudine del bambino domestico”, sottratto alla “strada” (in senso lato comprende tutti gli spazi extraistituzionali, di incontro e di esperienza diretta) in quanto luogo pericoloso e costretto all’interno delle case, sempre più piccole, in famiglie poco prolifiche e dai tempi di vita molto serrati. Nello stesso documento si riportano i risultati di un’interessante ricerca condotta da Tullia Musatti, dalla quale emerge un contesto di socializzazione familiare in cui per la maggioranza dei bambini non è presente alcuna altra persona che non sia un adulto. Più della metà dei bambini (53%) non gioca mai all’aperto e un altro 18% lo fa solo per un’ora. Ben il 64% dei bambini gioca da solo; l’esperienza sociale con coetanei non avviene mai per un’altissima percentuale di bambini (80%), solo per pochissimi (6%) supera le due ore e mezzo. I dati mostrano anche che la condizione sociale della madre influenza pesantemente il modo in cui i bambini trascorrono la giornata: paradossalmente tanto maggiore è il tempo che la madre trascorre con il bambino tanto minore è la ricerca da parte sua di occasioni di relazione sociale per il proprio figlio. Dalla ricerca emerge un quadro di profonda solitudine del bambino, privato di esperienze sociali e condizionato dai tempi di vita degli adulti che non paiono modificare più di tanto l’organizzazione temporale della loro giornata per rispondere a bisogni infantili, quali quelli del contatto con i coetanei e del gioco con gli adulti. Questo vale molto spesso anche per le situazioni in cui la madre lavora ed il bambino è affidato ai nonni o alla baby-sitter (cfr. Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento Affari Sociali, Centro Nazionale per la Tutela dell’Infanzia, Rapporto sulla condizione dei minori in Italia 1996, Roma, pp. 357-358). Tale situazione è difficilmente colta nella sua gravità da molti genitori, per i quali il tenere il proprio figlio “custodito” tra le pareti domestiche è considerata la migliore situazione di crescita. Nella nostra pratica di consulenza psicopedagogica riscontriamo spesso che questa situazione di “isolamento” si protrae anche durante i primi anni dell’adolescenza, e non è affatto raro incontrare padri e madri che esibiscono con soddisfazione il fatto che il loro figlio divida il tempo unicamente tra la scuola, la casa (lo studio) e, quando ancora succede, la parrocchia. In realtà la solitudine dei bambini e dei ragazzi in famiglia è senz’altro allarmante da un punto di vista educativo per diversi motivi: potremmo dire della scarsa creatività, della manualità impoverita (cosa sanno fare con le mani?), della noia incipiente. Qui ci limitiamo a considerare un altro aspetto: quando il tempo libero è trascorso in casa, il mondo reale può venire facilmente surrogato con quello virtuale, l’esperienza diretta sostituita con quella indiretta dei computer e della televisione, dai quali i nostri figli traggono la pericolosa convinzione che tutti gli atti sono reversibili, come nei videogames o nelle fiction del piccolo schermo che si possono scorrere avanti ed indietro a piacimento con il videoregistratore senza che si rompa la trama. Se limitiamo le loro uscite da casa agli appuntamenti formali, strutturati e gestiti da adulti (la scuola, il catechismo, le attività sportive ed artistiche), potranno mai capire che i rapporti con gli altri, a cominciare dai coetanei, sono basati su azioni intenzionali che evocano una propria responsabilità personale? Come potranno imparare a modulare i loro sentimenti, a vincere le paure e le frustrazioni che accompagnano di norma ogni processo di crescita? Intravediamo diverse modalità per ovviare a questi rischi: la prima, insostituibile per i genitori, è quella di ascoltare e parlare con i bambini, per poter comprendere, “contenere”, indirizzare in modo corretto le domande, le ansie e i sentimenti che inevitabilmente insorgono quando si allarga l’ambiente di socializzazione (ad. es. con l’ingresso a scuola). Non si sottovaluti a questo proposito che nella prima infanzia il canale privilegiato di comunicazione rimane il gioco: perciò è importante che papà e mamme dedichino tempo per giocare con i loro figli, magari fuori di casa, sottraendoli alla “Tv baby-sitter”. In secondo luogo vanno favorite occasioni di incontro tra coetanei, e se strade e piazze oggi non sono sicure non c’è altra soluzione che aprire le nostre case, anche a costo di sacrificare un po’ di quell’ordine e di quella riservatezza cui siamo spesso tanto legati! Infine gli adulti potrebbero adoperarsi con tutti i mezzi a disposizione per creare o riorganizzare spazi di gioco e di incontro, soprattutto ora che, terminata la scuola, si accentua la solitudine di molti bambini: pensiamo alle aree verdi attrezzate, ancora così rare nei nostri comuni, ed alle potenzialità, oggi poco sfruttate, di oratori e di altre strutture parrocchiali.