[Monica Ricci Sargentini • 25.07.04] Un mondo multiculturale dove la diversità non venga vissuta come fattore destabilizzante ma anzi come collante e ricchezza di una società. E’ questa la sfida del nuovo Millennio secondo il Rapporto sullo Sviluppo Umano 2004...

L’ALLARME DELL’ONU: «CRESCE LA POVERTÁ»

Un mondo multiculturale dove la diversità non venga vissuta come fattore destabilizzante ma anzi come collante e ricchezza di una società. E’ questa la sfida del nuovo Millennio secondo il Rapporto sullo Sviluppo Umano 2004 (sottotitolo: “La libertà culturale in un mondo di diversità”) giunto alla quindicesima edizione e presentato ieri a Bruxelles dall’Unpd (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo).

Se non si affronta questo problema, se non si riconosce che tutti gli individui hanno diritto a conservare le proprie identità etniche, linguistiche e religiose, spiega il Rapporto, “le lotte per l’affermazione di un gruppo possono diventare una delle maggio fonti d’instabilità all’interno degli Stati e tra gli Stati”. Lo dimostrano i conflitti etnici e religiosi di questi ultimi anni, basti pensare al Kosovo e alla Bosnia, al genocidio in Ruanda, allo scontro tra israeliani e palestinesi, alla guerra santa lanciata da Al Qaeda.
 
DEMOCRAZIA MULTICULTURALE

“Io sono la mia lingua, i miei simboli, le mie credenze” si legge nella prima pagina del Rapporto. Il problema della convivenza di diverse identità culturali non riguarda pochi individui ma tutti noi. “Quasi nessun Paese – spiega lo studio dell’Undp – è interamente omogeneo. I circa 200 Paesi del mondo hanno al loro interno più di 5 mila gruppi etnici”. E nei due terzi di questi Paesi le minoranze rappresentano il 10%. La globalizzazione ha portato ad una accelerazione della migrazione internazionale. E molti degli Stati sono già delle società multiculturali. Metà degli abitanti di Toronto, ad esempio, sono nati fuori del Canada. Ma spesso si teme che l’identità di una nazione e la sua stessa esistenza possano essere minacciate dall’introduzione di diversi costumi. Non è un caso che un miliardo di persone, oggi, siano soggette a forme di discriminazione a causa delle loro identità etniche, razziali o religiose. Eppure la democrazia multiculturale, assicurano gli esperti dell’Undp, è possibile “attraverso l’adozione di politiche che riconoscano esplicitamente le differenze culturali, ossia le politiche multiculturali”. Come dimostra l’Afghanistan che nella sua Costituzione ha riconosciuto due lingue ufficiali, il pasto e il dari. O come l’Olanda che garantisce alle minoranze una rappresentanza in Parlamento.
 
L’INDICE DI SVILUPPO

Il Rapporto, curato da un team indipendente di esperti e che si avvale di contributi prestigiosi quale quello del premio Nobel per l’Economia nel 1998, Amartya Sen, stila anche una classifica dei Paesi in base all’indice di sviluppo umano, tenendo conto di diversi fattori, tra cui il reddito pro capite, il livello d’istruzione, la qualità del servizio sanitario e l’aspettativa media di vita. Al primo posto si trova la Norvegia, seguita da Svezia, Australia e Canada. All’ultimo molti Paesi africani, tra cui il Burundi, il Niger, la Sierra Leone. L’Italia è ferma al 21° posto, preceduta dalla Spagna e seguita da Israele. Un risultato non brillante, se si pensa che, dal 1975 al 2002, il nostro Paese è stato sorpassato da Irlanda, Finlandia, Spagna e Lussemburgo. “L’Italia – spiega Antonio Vigilante, uno dei revisori del Piano – è un Paese ad alto sviluppo umano, ma ha perso dinamicità. Siamo meno competitivi sul piano dell’economia e abbiamo limitato la spesa nella ricerca, un punto percentuale del Pil è troppo poco”. Non brillano, comunque, neanche Francia, sedicesima, e Germana, diciannovesima. Mentre gli Stati Uniti si piazzano all’ottavo posto. In Irlanda si vive meglio che in Inghilterra. La Russia, tra le nazioni europee più importanti, è al 57° posto con un’aspettativa di vita di 66,7 anni contro i 78,9 della Norvegia. La Cina, grande potenza mondiale, rientra a malapena tra i primi cento Paesi.
 
ASPETTATIVA DI VITA

In alcune parti del mondo la situazione è desolante. La speranza di vita è diminuita a meno di 40 anni in venti Paesi, di cui tredici nell’Africa sub sahariana. La causa dell’aumento della mortalità si chiama Aids. Il contagio ha raggiunto livelli apocalittici in Lesotho, Namibia, Sud Africa e Zimbabwe, dove più di una persona su cinque tra i 15 e i 49 anni è stata colpita dal virus. La situazione è anche peggiore in Botswana e Swaziland: una persona su tre è positiva o già malata. “La malattia – spiega Malloch Brown, amministratore dell’Undp – colpisce le persone nei loro anni più produttivi e danneggia gli Stati ad ogni livello. Così si finisce per distruggere le fondamenta di ogni cosa, dall’amministrazione pubblica all’assistenza sanitaria”.
 
POVERTA’ IN AUMENTO

Mentre in Asia orientale il numero delle persone che vive con meno di un dollaro Usa al giorno si è ridotto nel corso della metà degli anni ’90, in altre parti del mondo si registrano delle tragiche inversioni di tendenza. Sono 46 i Paesi in cui le persone sono più povere oggi che nel 1990. Tra questi, il Ruanda, lo Zambia, il Camerun, il Congo, la Federazione Russa, l’Ucraina. In 25 di questi Paesi, molti dei quali si trovano nell’Africa sub sahariana e nella Comunità degli Stati Indipendenti (Csi), “il numero delle persone che patiscono la fame è maggiore rispetto a un decennio fa”. Il dato è particolarmente preoccupante, se si pensa che nei decenni precedenti agli anni ’80 e ’90 non si era mai verificato un declino dell’indice di sviluppo. Secondo gli autori del Rapporto, questi Paesi “stanno indebolendo la loro base per lo sviluppo, cioè la loro popolazione che rappresenta la loro ricchezza”.
 
Monica Ricci Sargentini
 
 
Approfondimento
RAPPORTO 2004 SULLO SVILUPPO UMANO

(Fonte: Radio Vaticana, 15 luglio)

SOSTENERE IL MULTICULTURALISMO E NON L’ASSIMILAZIONE FORZATA AL FINE DI PROMUOVERE LO SVILUPPO. E’ QUANTO INDICA IL 15.MO RAPPORTO SULLO SVILUPPO UMANO, PRESENTATO NEI GIORNI SCORSI DAL PROGRAMMA DELLE NAZIONI UNITE PER LO SVILUPPO
 
Interviste con Antonio Vigilante e padre Carmine Curci
 
La libertà di scegliere la propria identità culturale, senza per questo dover affrontare discriminazioni, è essenziale ai fini dello sviluppo umano. È quanto emerge, in sostanza, dal 15.mo Rapporto sullo sviluppo umano, presentato dalle Nazioni Unite, il cui titolo è “La libertà culturale in un mondo di diversità”.
 
Antonio Vigilante (responsabile del Programma dell’Onu per lo Sviluppo in Egitto) intervistato da Dorotea Gambardella:
 
In passato due approcci sono falliti, quello del differenzialismo e quello dell’assimilazione. Differenzialismo, cioè creare dei ghetti in cui gli immigrati possano far valere la propria cultura e l’altro, l’assimilazione, per cui gli immigrati devono conformarsi con la cultura dominante del luogo dove emigrano. A questi approcci il rapporto sostituisce il multi-culturalismo che è un’accettazione della diversità e la gestione possibile di questa diversità. Una delle strategie indicate dal rapporto è acquisire la consapevolezza che esiste la multipla identità. Forse non ce ne rendiamo conto, ma ciascuno di noi ha tante identità con ordine di priorità diverse, certo, ma una persona può essere allo stesso tempo europeo, italiano, napoletano.
 
Tra gli ostacoli che impediscono la libertà culturale vi sono i pregiudizi sulla diversità…
 
Uno è quello che esiste una sola identità possibile, per cui c’è un livello di difficoltà di interazione umana perché si vede l’identità come un gioco a somma zero, cioè, si pensa che acquisire una identità diversa sminuisca l’originale, invece il rapporto dice che da un lato non c’è contraddizione fra il riconoscimento della diversità e l’unità dello Stato, ma allo stesso tempo, rispetto alla pace sociale, mette in luce come i conflitti derivino più dal mancato riconoscimento della diversità culturale, che dalla diversità in se stessa, e sfata anche il mito della contraddizione fra la diversità culturale ed il mantenimento della democrazia. Per esempio il rapporto dice che quando ci sono tradizioni che violano i diritti umani, mettiamo il caso della circoncisione femminile, non per questo bisogna mantenere a tutti i costi una tradizione. Più che altro libertà culturale significa scegliere, non mantenere necessariamente la tradizione storica, allo stesso tempo il mito secondo il quale c’è un determinismo culturale, per cui certe culture sono più propense di altre allo sviluppo, viene sfatato dal rapporto per esempio mostrando il caso della Malesia, un Paese ad alta eterogeneità etnica che nonostante tutto riesce ad ottenere tra i più elevati tassi di crescita degli ultimi 20 anni. E l’ultimo mito che il rapporto sfata è che tra certe culture e democrazia ci sia una contraddizione insita, per esempio fra l’Islam e la democrazia. Il rapporto dimostra empiricamente che ci sono molti Paesi musulmani che sono democratici, ed analizza anche proprio i concetti tipici dell’Islam dimostrando come sia perfettamente compatibile con uno Stato democratico.
 
Quali sono i Paesi con il più elevato tasso di sviluppo umano e quali con quello inferiore?
 
Anche quest’anno il Paese che ha il maggiore sviluppo umano è la Norvegia. Lo sviluppo umano viene misurato sulla base non solo del reddito pro capite in termine di potere di acquisto, ma anche in termini di istruzione, in termini di salute. Fra i Paesi poveri, purtroppo, troviamo sempre quelli dell’Africa subsahariana: Mali, Burkina Faso, Niger e l’ultimo è la Sierra Leone. In tutti questi Paesi, il diffondersi dell’Aids ha ridotto anche a meno di 40 anni la vita media delle persone, rivelandosi la causa primaria nel declino degli indicatori di sviluppo umano. Non dimenticare la Sierra Leone. Questo l’appello lanciato da mons. George Biguzzi, vescovo saveriano di Makeni, proprio a seguito della pubblicazione della classifica Onu sullo sviluppo umano che colloca la Sierra Leone all’ultimo posto, preceduta da altri 18 Paesi africani. Dopo la guerra civile durata dal ’91 al 2001, “gran parte della popolazione sierraleonese – ha ricordato mons. Biguzzi all’Agenzia Misna – non ha ancora accesso all’acqua potabile, all’elettricità, all’istruzione, alle comunicazioni e in generale ai servizi essenziali”.
 
Ma perché la Sierra Leone risulta il Paese meno sviluppato al mondo? Giada Aquilino lo ha chiesto a padre Carmine Curci, direttore della rivista comboniana “Nigrizia”
 
Non dobbiamo dimenticare che è solo da qualche anno che la Sierra Leone è uscita da un decennio di guerra civile, che ha provocato la morte di 50 mila persone e centinaia di migliaia di rifugiati e sfollati. Ci si è quindi trovati di fronte un Paese con tutte le infrastrutture distrutte e con migliaia di persone senza lavoro. Non è una sorpresa perciò che la Sierra Leone risulti agli ultimi posti per lo sviluppo. Nello stesso tempo però dobbiamo riconoscere il cammino lento di ricostruzione del Paese africano, per quanto riguarda le scuole, le case, le infrastrutture delle zone che fino a qualche tempo fa erano in mano ai ribelli. All’inizio di giugno, inoltre, ha cominciato il proprio lavoro la speciale Corte internazionale della Sierra Leone: sarà questo tribunale ad esaminare i crimini dei 10 anni di guerra e a condannare i vari responsabili delle violenze.
 
Ma cosa manca allora alla Sierra Leone per imboccare la via dello sviluppo?
 
La comunità internazionale deve essere attenta a ciò che sta avvenendo nel Paese, con degli aiuti mirati, con un appoggio al governo di Freetown eletto democraticamente e soprattutto con uno sguardo particolare al futuro e ai giovani sierraleonesi.
 
Quale ruolo può svolgere la Chiesa in questo contesto?
 
La Chiesa durante i 10 anni di guerra civile è stata sempre un interlocutore molto attento al ritorno della pace. Ora sta facendo anzitutto un lavoro di base, quindi di riconciliazione delle persone, delle famiglie, delle comunità. Nello stesso tempo assistiamo ai tanti progressi fatti negli ultimi due-tre anni ed i progressi a volte non vengono decisi dai numeri, ma dai cuori delle persone.


L’articolo di Monica Ricci Sargentini è tratto da www.societasalutediritti.com