«Anche chi non era in condizioni di lavorare, uomini affetti da malaria, beriberi e ulcere tropicali, tra le varie malattie, erano trascinati fuori e costretti a lavorare. I giapponesi prendevano con due mani dei bastoni di bambù forgiati a mo’ di spada, e li usavano per picchiare i ragazzi sulle ulcere».
«Ho visto dei compagni – è alquanto straordinario ciò che il fisico umano può sopportare – con la tibia completamente esposta dal ginocchio alla caviglia. L’intero osso, intendo. Quelli del corpo medico ogni tanto si presentavano con delle forbici, con cui tagliavano via la carne putrefatta, operazione che ovviamente era estremamente dolorosa. Dolorosa, certo, ma non faceva altro che aumentare di un pochino le già atroci sofferenze. L’ho visto succedere. L’odore era orrendo. E questi ragazzi erano pallidi e grondavano di sudore, ma non fiatavano. Solo dopo che se n’erano andati li sentivi singhiozzare».
«Avevamo così tanta fame che mangiavamo rane, serpenti, lucertole – qualunque cosa che riuscissimo a cacciare, inclusi cani e gatti».
«Hoshijima diceva che la guerra sarebbe durata cent’anni, e che noi avremmo lavorato fino a quando le nostra ossa non sarebbero marcite sotto il sole tropicale del Borneo».
Queste sono alcune delle testimonianze dei sei sopravvissuti al campo di concentramento allestito dai giapponesi nei pressi di Sandakan, una cittadina portuale nel Borneo malese, per ospitare i prigionieri inglesi e australiani catturati durante la presa di Singapore nel luglio del 1942. Un gruppo di circa 2400 uomini fu trasferito in questo campo e usato come forza lavoro per costruire un aeroporto militare, con l’aiuto di 4000 lavoratori giavanesi. Le condizioni di vita in un campo di concentramento giapponese non erano molto diverse da quelle che abbiamo imparato a conoscere dalle testimonianze di chi è sopravvissuto alle equivalenti strutture in Europa. Il controllo psicofisico esercitato dagli aguzzini attraverso la fame, lo strenuo lavoro imposto senza sosta, in un ambiente torrido e afoso, le pessime condizioni igieniche, le sofferenze derivanti da malattie, sadiche punizioni corporali, calzature inadeguate, il terrore e le umiliazioni quotidiane andavano ben oltre la privazione della libertà di un regime carcerario, sebbene alla fine la libertà rimanesse sempre l’aspirazione più grande di ogni detenuto.
Visitare il sito di Sandakan è un’esperienza molto diversa da quella che si può fare per esempio ad Auschwitz o a Dachau, perché nulla è rimasto a testimonianza diretta di ciò che si è verificato qui. I giapponesi hanno distrutto e bruciato ogni prova e i testimoni di quei crimini sono pochissimi. Raramente capita di soffermarsi a considerare il dramma della guerra da questo particolare punto di vista, da questa angolazione geografica per noi insolita, ma il confronto aiuta davvero a comprendere la portata di quanto è successo in quegli anni difficili per tutto il pianeta.
Per recuperare una memoria perduta, su parte del sito dell’ex campo di prigionia è stato aperto un parco, con al centro un padiglione che documenta la storia attraverso narrazioni e materiale fotografico. Più avanti si incontra un granitico monumento commemorativo, immerso nel verde e una tranquillità fuori dal comune per questa zona. Al di fuori del cancello, moderni complessi condominiali tutti identici e marchiati in serie numerate (Block 15, 16…) sorgono sul terreno dove un tempo si trovavano le baracche dei prigionieri. Rimane molto spazio per la riflessione e l’immaginazione.
All’inizio del 1945, le cose cominciavano a mettersi male per i giapponesi, che temevano un’invasione degli Alleati nel nord del Borneo. Si decise di spostare le operazioni a ovest, nell’entroterra, trasferendo anche i prigionieri di guerra, utili per trasportare munizioni e logistica. In gennaio fu organizzata la prima marcia, con 455 prigionieri. La seconda, di 540 prigionieri ebbe luogo a fine maggio, in seguito a un raid delle forze alleate a Sandakan. «Le istruzioni erano di prendere razioni per quattro giorni, ma alla partenza, ci prese in consegna un ufficiale che ci disse che le razioni dovevano bastare per otto giorni».
Per alcuni, uscire dal campo significava riaccendere un barlume di speranza: «Il 29 maggio 1945, dopo l’incendio del campo, pensavamo che la guerra fosse finita, e che si andasse a prendere una nave al porto di Sandakan. Era la voce più diffusa, che si andasse a casa. Una volta arrivati sulla strada asfaltata principale, pensavamo «Se giriamo a sinistra, quando arriviamo in fondo, vuol dire che andiamo a Sandakan. Se invece giriamo a destra, beh, non sappiamo dove ci porteranno». Giunti al bivio, girammo a destra». Girare a destra significava partire per una estenuante maratona di 260 chilometri in mezzo alla giungla, fino alla cittadina di Ranau, passando prima per terreni pianeggianti e paludosi, per poi inerpicarsi su territori montuosi.
«Diecimila sanguisughe grosse come matite attaccate addosso. In questa maniera si dormiva, o per lo meno si cercava di dormire. Si sentivano grossi orangutan gridare nella foresta, durante la notte, e maiali selvatici, e coccodrilli… E pensavo, ok, d’accordo, è la fine, sto per morire… Ti sentivi davvero morire».
I prigionieri partivano già provati dalle fatiche del campo, non avevano gli stivali, ed erano in cattive condizioni di salute. Fu subito chiaro che chi non riusciva a stare al passo sarebbe stato fucilato e abbandonato sul sentiero. «Varie guardie mi intimarono che fermarsi avrebbe significato la morte». L’elevato numero di guardie al seguito rendeva impossibile la fuga: solo due uomini della seconda marcia riuscirono incredibilmente a scappare. Dei mille prigionieri complessivamente partiti da Sandakan, meno della metà giunse a destinazione. Nel frattempo, al campo erano rimasti altri 300 uomini circa. Per lo più si trattava di persone troppo malate per essere evacuate, che furono lasciate morire di inedia, oppure fucilate e bruciate. 75 di loro furono istradati verso Ranau, in una terza e ultima marcia della morte a giugno, ma nessuno sopravvisse. Nell’erronea convinzione che il campo di Sandakan fosse vuoto, gli australiani non intrapresero alcuna missione di soccorso.
A Ranau, altre miserie e fatiche si prospettavano per i ‘fortunati’ che non erano stati inghiottiti dalla foresta durante la prima marcia. Il loro compito principale nel nuovo campo era trasportare sacchi di riso da 20 chili avanti e indietro da un villaggio 40 km a monte. Debilitati oltre ogni umana resistenza, quasi tutti morirono in questa fase. «Nessuno può immaginare lo sporco e il tasso di mortalità durante i giorni trascorsi in questa fogna. La fanghiglia arrivava alle anche, i malati erano lasciati a terra, incapaci di muoversi, distesi nei loro escrementi». Quando gli Alleati attaccarono Ranau, erano rimasti in 18, e all’arrivo in giugno dei 118 (su 540) sopravvissuti della seconda marcia, soltanto in 6. Nel giro di un mese erano tutti morti. Soltanto quattro audaci e fortunati prigionieri australiani riuscirono a sfuggire ai loro aguzzini. Uno di loro ricorda: «Un colonnello australiano venne da me e mi disse: «Adesso andiamo a salvare anche i tuoi compagni». Io mi girai dall’altra parte, verso il muro, e piangendo come un bambino, dissi: «Ormai sarà troppo tardi». E infatti era così.
Ci sono tragedie che vanno conosciute, e poi ricordate.
Paolo Ferrarini