LIBANO. CRONACA DI UN’EVACUAZIONE

È dalla sorprendente velocità della escalation che si capisce che cosa sia veramente questo conflitto. Un giorno gli Hezbollah distribuiscono cioccolatini ai passanti per festeggiare la cattura di due soldati israeliani, e il giorno dopo il Libano è un paese isolato, colpito duramente nelle sue infrastrutture, con danni economici gravissimi in grado di mettere il paese in ginocchio a lungo termine. Una reazione, da parte di Israele, non solo di una violenza sproporzionata, come è stato fatto notare da molti portavoce di stati e entità sovranazionali, ma anche estremamente repentina, che di certo non ha lasciato alcuno spazio alle parti in causa per dialogare.

19.07.2006 - bombardamento nel villaggio di sriefahSi tratta evidentemente di una guerra preparata da tempo e molto ideologizzata, dove non esiste a priori una volontà di reciproca intesa: gli Hezbollah da una parte e Israele dall’altra non hanno bisogno di sentire le ragioni gli uni degli altri per andare avanti nella loro miope azione: vogliono soltanto il confronto armato a tutti i costi. Lo dimostra anche il fatto che le motivazioni addotte dalle due parti per giustificare le proprie azioni sono del tutto contraddittorie e inconsistenti.

Per gli Hezbollah, dopo soli due giorni di attacchi, la guerra non è più una questione di trattativa per la liberazione di prigionieri, ma una pura prova di forza nei confronti dell’aggressore che, come volevasi dimostrare (!), è un nemico spietato e irrazionale. Dall’altro lato, le dichiarazioni di Israele non lasciano capire se la loro sia un’operazione contro gli Hezbollah oppure contro il governo del Libano, e fra le righe si legge quindi che anche la loro è soltanto una dimostrazione di forza.

Le prime, sorprendenti, dichiarazioni erano esplicitamente rivolte contro il governo libanese nel suo insieme, reo di ospitare nel suo parlamento elementi del Partito di Dio, di conseguenza responsabile per la loro condotta e destinato a pagarne in prima persona un prezzo salatissimo. Le dichiarazioni fatte dall’ambasciatore israeliano all’ONU, al contrario, riconoscevano l’incapacità del Libano di controllare i movimenti degli Hezbollah, sostenendo paradossalmente di svolgere addirittura un grande servizio allo “stimato” paese, aiutandolo a liberarsi di questa anomalia politica.

18.07.2006 - bambini del villaggio di sriefahl ricoveratiUn favore, insomma, ma un favore che prende la forma della distruzione di tutte le infrastrutture che gli Hezbollah utilizzerebbero in Libano: le stesse infrastrutture, cioè, che usano tutti. Il Libano sicuramente ringrazia. Intanto, dopo tre giorni di bombardamenti intensi a sud del paese, neppure un Hezbollah è stato ucciso, non un soldato. Solo famiglie innocenti. E a fronte del disastro causato in Libano, gli Hezbollah, come al solito, non fanno che lanciare apparentemente a casaccio qualche missile fornito dall’Iran, in grado sì e no di graffiare qualche cittadina a nord Israele. A questo punto, parlare di ostaggi diventa superfluo. Lo scopo principale di Israele è adesso quello di sgomberare il paese dalla presenza degli Hezbollah, i quali, sentendosi “provocati”, dichiarano guerra aperta e totale ad Israele. Ci sono le basi per un pesante conflitto a lungo termine. È giustificata l’apprensione di chi opta per abbandonare subito il paese.

CRONACA DI UN’EVACUAZIONE

L’ambasciata italiana, in collaborazione con l’Unità di Crisi del Ministero degli Esteri, organizza il rimpatrio di circa 420 persone, di cui due terzi italiani e il resto cittadini UE e libanesi. Il viaggio inizia alle cinque e mezza del mattino del 15 luglio, quando la gente è già in coda davanti all’ambasciata, sotto i primi raggi di un sole caldissimo.

Pochi i bagagli, perché siamo stati informati che sugli aerei militari la precedenza sarebbe stata data alle persone e non alle valigie. Molti effetti personali e valori rimangono in Libano per il futuro, chissà… I preparativi durano fino alle otto e mezza, quando finalmente riescono a distribuirci razionalmente su nove pullman numerati, ciascuno con una bandiera italiana riciclata dai recenti successi della nazionale di calcio. Pochi giorni prima quelle stesse bandiere, migliaia e migliaia, erano state portate in giro dai festanti libanesi in tutto il paese: ai libanesi piace molto far festa ad ogni occasione, hanno una passione particolare per le bandiere, vanno pazzi per il calcio e adorano l’Italia.

Dall’alto della collina su cui si trova l’ambasciata, si vede il fumo nerissimo che sale dalle riserve di carburante dell’aeroporto colpito e si espande come una paurosa mano inquinante sopra buona parte della città. Per il resto, il silenzio e la calma sono totali e ricordano il vuoto desolante e spettrale delle piazze della capitale negli ultimi giorni. Ci muoviamo in direzione nord, verso l’unica e ultima via d’uscita dal Libano, dopo la distruzione dell’aeroporto e della principale arteria di traffico che porta a Damasco. Il governo israeliano rispetta gli accordi presi con l’Italia e ci garantisce di arrivare fino al confine senza trovarci nel mezzo di attacchi militari. Gli attacchi arrivano infatti puntuali il giorno stesso, subito dopo il nostro transito. Il paesaggio si fa sempre più selvaggio e abbandonato mano a mano che ci avviciniamo alla frontiera. La strada a un certo punto si trasforma in un sentiero di ghiaia. Il confine nord tra Libano e Siria è un posto rurale, con pochi vecchi caseggiati in mezzo alla polvere; l’unico servizio per il viaggiatore sono alcuni bambini locali con ciabatte della misura sbagliata che fanno a gara per venderci chewing gum.

Ci vuole ben più di un’ora soltanto per uscire dal Libano e parcheggiare il pullman nella zona di passaggio tra i due stati. La tensione fra i passeggeri comincia a crescere. Nessuno sa esattamente come comportarsi, mancando istruzioni precise e un referente dell’ambasciata sui bus. I passaporti vengono raccolti e ridistribuiti più volte in errore da parte di passeggeri che si offrono volontari, senza ben sapere cosa fare. I bambini si lamentano per la fame, ma nessuno ci aveva avvisato di portare cibo e acqua, beni irreperibili nel corso del viaggio stesso. Lo stress, amplificato dalla stanchezza e dalla privazione di sonno, è palpabile. Ma nulla poteva prepararci alla lunga e snervante attesa alla dogana siriana.

La Siria apparentemente non rispetta l’accordo preso con il nostro governo e non agevola assolutamente il nostro passaggio. I volontari tentano più volte di mettersi in coda per ottenere il visto necessario ad entrare nel paese, devono acquistare i francobolli da applicare ai passaporti, che ci vengono a costare ben venti dollari a testa, ma non riescono a concludere con le autorità doganali le formalità necessarie all’immigrazione. Agli sportelli, arabi di ogni nazionalità conquistano a gomitate la propria posizione agli sportelli degli uffici, mentre noi siamo chiaramente ignorati. Lo stress e la rabbia prendono ora anche i contorni di sentimenti razzisti e di odio. Un bambino sceso dal bus cade per terra e si fa male. La situazione si sblocca soltanto quando un funzionario arriva da Damasco e dà istruzioni agli ufficiali di lasciarci passare.

Il giorno dopo, leggo sui giornali che era stato necessario un intervento dall’alto, forse addirittura una telefonata di Prodi al presidente Assad, per sbloccare quell’impasse. Sono passate più di sette lunghissime ore dal nostro arrivo alla dogana, e con pesantezza ci avviamo finalmente verso l’aeroporto di Latakia, a due ore circa di distanza. Il viaggio non è così tranquillo come ci aspettavamo. Il nostro autista, che si muove indipendentemente dal resto del convoglio, sbaglia ripetutamente strada e cominciamo a preoccuparci quando si ferma ad una stazione di servizio per chiedere indicazioni.

L’incredulità e lo sgomento prendono il sopravvento quando all’improvviso l’uomo comincia a guidare contromano in autostrada, per raggiungere l’uscita che aveva mancato precedentemente. Le donne gridano in panico, chiedendogli di fermarsi e minacciandolo come possono, ma lui sembra non prenderle sul serio, proseguendo imperterrito con un sorriso di scherno. Il sollievo è tale, quando finalmente raggiungiamo l’aeroporto, che non riusciamo a trattenere un applauso. All’entrata ci attende il caos. La gente, tutta la gente del convoglio, si accalca, impaziente, per poter entrare nella struttura, dove le autorità italiane tentano inutilmente di porre ordine, chiamando i nostri nomi da una lista stilata in base alla nazionalità e al pullman di provenienza. Ma non c’è verso. Tutti spingono, impedendo alle persone chiamate di passare. Le donne gridano di lasciar passare i bambini per primi. Non si respira. Gli italiani danno degli incivili agli arabi, gli austriaci danno degli incivili agli italiani. Molti alzano la voce.

Alla fine ci riversiamo senza ordine nella hall dell’aeroporto. Il console italiano in Siria ci dà informazioni contraddittorie, che deve smentire in continuazione. Le formalità per la partenza sono svolte in modo disordinato. Ancora tentano di far imbarcare le persone in base alla nazionalità. Due bambini piangono attorno alla loro nonna cieca che è caduta distesa con la faccia per terra, incapace di rialzarsi. Nello stesso momento una donna francese ha una crisi isterica e se la prende con l’addetto che mi sta facendo passare al gate per salire sulla navetta, accusandolo fra le lacrime di non aver pietà dei suoi bambini, che dovrebbero salire per primi. Lui cerca di spiegarle, con tono comprensivo, in un francese molto limitato, che ha delle istruzioni da seguire, ma così facendo alimenta ulteriormente la foga della signora disperata. Ci sono due C-130 ad aspettarci sulla pista. Faranno la spola tra Latakia e Larnaka per portarci tutti a Cipro, in territorio europeo, e da lì trasferirci in Italia.

A Cipro, dove arriviamo intorno a mezzanotte, distribuiscono dei buoni pasto, ma pochi hanno il tempo materiale di mangiare qualcosa, perché ci chiamano quasi subito per l’imbarco sull’Airbus dell’Alitalia. Anche la fame, a questo punto, è solo un ricordo del passato. Ho il privilegio, per la prima volta nella vita, di caricare da solo il mio bagaglio sull’aereo, che comunque non parte prima delle 2 del mattino, per essere a Fiumicino alle 5,30.

Il mio viaggio finisce quando finalmente arrivo a casa a Verona, dopo mezzogiorno. Un’odissea che fino a pochi giorni prima non avrei neppure immaginato possibile. Il pensiero va ora a tutti gli amici libanesi, che giorno dopo giorno di attacchi continui, non solo sono isolati dal mondo, ma stanno restando senza alimenti e beni di prima necessità, subendo una guerra di un’ingiustizia inaudita.

Paolo Ferrarini

Paolo Ferrarini, nato a Nogara (Vr) nel 1977, dopo aver conseguito la maturità scientifica si è laureato nel 2002 all’Università di Venezia in Lingue e letterature orientali (arabo) col massimo dei voti e la lode. Nel 2001 è stato rappresentante degli studenti italiani all’Europarlamento di Strasburgo in occasione della discussione e votazione della Carta dello studente europeo. Ha visitato numerosi paesi europei ed extraeuropei tra i quali l’Egitto, la Giordania, le Repubbliche Baltiche, i Paesi Scandinavi, i Paesi dell’Est Europa, gli Stati Uniti d’America, la Siria, il Libano, lo Yemen ed il Kuwait. Proprio in Kuwait, nel 2002, ha svolto un tirocinio di tre mesi presso l’Ambasciata d’Italia, come ricercatore per l’ufficio culturale e commerciale. Attualmente risiede tra Beirut e Londra, dove – nel 2005 – si è specializzato nel Master in Linguistica applicata e traduzione arabo-inglese.

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Foto: da una fonte diretta di GRILLOnews