LIBRI. «L’ULTIMO ANTI-AMERICANO» DI PINO DATO

[GRILLOnews.it – 23.01.2010] L’ultimo libro di Pino Dato, scritto per Aracne Editrice, si intitola «L’ultimo anti-americano – Goffredo Parise e gli Usa: dal mito al rifiuto». Si tratta di una ricerca sincronica della documentata visione del grande scrittore vicentino sull’America, i suoi miti, i suoi vizi, i suoi limiti, partendo da quella iniziale degli americani sulla piazza palladiana del 1956, «Gli americani a Vicenza».
Pino Dato

L’ULTIMO ANTI-AMERICANO

Goffredo Parise e gli Usa: dal mito al rifiuto

Anno 2009 – 214 pagine

14,00 euro – Aracne Editrice

ISBN 978-88-548-2907-7

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É uscito in libreria in questi giorni l’ultimo libro di Pino Dato, scritto per Aracne Editrice, «L’ultimo anti-americano – Goffredo Parise e gli Usa: dal mito al rifiuto». Si tratta di una ricerca sincronica della documentata visione del grande scrittore vicentino sull’America, i suoi miti, i suoi vizi, i suoi limiti, partendo da quella iniziale degli americani sulla piazza palladiana del 1956 («Gli americani a Vicenza»).

Quest’analisi colma un rilevante vuoto di critica e eredità ufficiali parisiane, perché scopre molte questioni nuove o sempre tenute sottotraccia e porta alla luce gli estratti di alcuni inediti presenti alla Casa Parise di Ponte di Piave.

PROLOGO

Una volta Benedetto Croce, che non era credente, scrisse: «Perché non possiamo non dirci cristiani». La frase fece il giro del mondo. Non so come la pensassero quel paio di miliardi di musulmani e buddisti (e induisti) che pure, al tempo di Croce, vivevano con idee diverse la vita di questo mondo. Non è nella storiografia, la loro opinione, eppure avrebbero potuto dirgli: «Parla per te». Questo per dire subito una cosa: abbiamo, in Occidente, una feroce mania di autoreferenzialità e onnipotenza. Pensiamo, parliamo, ci infervoriamo in un turbine di concetti e princìpi come chi è convinto che il mondo sia senza discussione suo, in quantità e qualità. Quantitativamente (come numero di anime), non è vero. Qualitativamente, è tutto da verificare. Se l’idea di Croce ha ancora un senso per un occidentale (onestamente non è facile dire di vivere, ancor oggi, come se quella storia in Galilea non fosse mai stata scritta) ad essa sono andati a sovrapporsi nel tempo altri aforismi, altre astrattezze, altre definizioni che un po’ le somigliano. E che lentamente ci sovrastano a loro volta. Il riferimento a Croce, non cristiano dichiarato, è stato frequente e strumentale. La frase, estrapolata dal contesto, è solo una bella frase: in realtà il filosofo si riferiva al trasferimento dell’idea del Dio cristiano nella storia e ne prendeva adeguatamente atto. Non era un omaggio a una religione.

Proviamo a sostituire la parola «americani» a quel «cristiani» di Croce. Ebbene, se ai tempi del filosofo napoletano dire «perché non possiamo non dirci americani» avrebbe potuto sembrare uno scherzo verbale di cattivo gusto o una specie di blasfemia, oggi quella sostituzione è più realistica che mai. La frase non farebbe scandalo. Anzi attira, richiamando assonanze, linguaggi, culture, consumi, retoriche, che senza importanti obiezioni appartengono alla vita di tutti i giorni e hanno attraversato i decenni (grosso modo sessant’anni) senza soluzione di continuità.

Dalla fine della seconda guerra mondiale (1945) all’aggressione alle torri gemelle di New York dell’11 settembre 2001, dalla catastrofica – e persa – guerra in Vietnam alla altrettanto catastrofica guerra in Irak, senza contare molti altri conflitti ‘minori’, in Occidente e in Italia in particolare abbiamo percorso tutti (coscienti o no) le nostre strade sul filo di un’alternativa naturale e quasi implicita: americanismo o antiamericanismo. Siamo stati tutti, volenti o no, filo o antiamericanisti. Qualcuno potrebbe a questo punto interferire chiedendo: tertium non datur? Vale a dire: non è possibile un atteggiamento di atarassica neutralità? Teoricamente è possibile, ma è un atteggiamento raro e in linea di principio del tutto improbabile. Va chiarito un aspetto del problema (concreto): americanismo non è America. L’americanismo e il suo anti sono atteggiamenti dello spirito, sono l’estremizzazione di quello che si ritiene un valore assoluto. Alla religione cristiana evocata da Croce è stato sostituito un modo di vivere, di essere, di sentire. Laici, non religiosi. Ciò ha camminato ed è cresciuto in via esponenziale sulle strade di un progressivo, straordinario, sviluppo di alcune storie di questo mondo: il commercio, la tecnologia, il consumo, la comunicazione planetaria, la produzione industriale.

In una parola oggi di moda, la globalizzazione. Non animata da un dio spirituale ma da un dio sensitivo, materiale, che corre sul binario del bisogno. L’America è un grande paese che può piacere in alcune sue parti e in altre meno, che può ispirare, coinvolgere, attrarre, irritare. Come la Francia, l’Italia, la Cina. Tuttavia l’americanismo – e il suo opposto che dalla sua stessa radice cresce – sono sentimenti consapevolmente estremizzati per incorniciare con enfasi un concetto-quadro che esalta al massimo o che al massimo infierisce. Dietro i due eccessi ci sono due sentimenti totalitari di accoglienza o rifiuto.

La potenza dell’America nel mondo è una realtà tranquillamente acquisita, nessuno può dire di non averla in qualche modo percepita. La capacità degli Usa di vendere, comprare, imporre prezzi e cartelli, distribuire, sovrastare, diffondere nel mondo merci, princìpi, e anche crisi (come cronaca e storia recenti hanno insegnato) è fuori discussione. La sua potenza monopolista di paese che non ama, per mentalità e nei puri fatti, nella storia e nella cronaca, venire a patti con nessuno, è provata.

Non è in discussione la legittimità di questo monopolio, non è questo l’oggetto di cui intendo occuparmi. Il monopolio americano è ritenuto più che legittimo, anzi essenziale alla stessa sopravvivenza del mondo occidentale da molti (forse dai più), è ritenuto ingiusto o eccessivo, anche se realisticamente accettato, da altri. Una terza categoria di organismi e persone (per esempio i terroristi di Al Qaeda) cercano di combatterlo con la violenza. Ma la legittimità dei due sentimenti opposti di filo e antiamericanismo è indiscutibile perché danza attorno all’esibizione continua (anche questo è un aspetto da non sottovalutare: la potenza esibita) del potere americano. L’invadenza dell’America è un dato di fatto. É bene accolta solo da chi ritiene di leggerne in perenne divenire l’istanza liberatrice.

Ma c’è uno squilibrio da registrare. Nella vulgata corrente i fuorilegge dell’intelletto e della ragione sono considerati gli anti-americanisti perché portatori di un vulnus inaccettabile, mentre gli americanisti riescono quasi sempre a nascondere il loro sentimento estremo (positivo) dietro il paravento del perbenismo e si sottraggono sistematicamente a una resa (intellettuale) dei conti. Il tema equivoco sempre caldo che danza attorno a una ormai logorata parola – l’americanismo – è questo.

«È bene essere americanisti»

Qualche anno fa (nel 1999) ci fu un gravissimo incidente a Cavalese (TN): top gun americani di Aviano in libera uscita giocarono con le loro bullesche abilità attorno ad una teleferica civile che saliscende quelle bellissime montagne, uccidendo venti inermi cittadini italiani. Le polemiche furono giustamente vivaci e durarono molto tempo. Accanto alla scandalosa pretesa di voler far godere agli aviatori la mancanza di giurisdizione (soldati americani ingiudicabili, anche solo civilmente, da un tribunale italiano), gli echi socio politici di quella tragica impresa ‘infantile’ corsero inesausti verso un’unica direzione fin dal giorno successivo al fatto.

Quando i corpi delle vittime erano ancora caldi e la sorpresa per la banalità del male che aggravava l’episodio era vibrante, i maggiori quotidiani italiani d’informazione e le loro teste pensanti si dichiararono preoccupati all’unisono di una cosa sola: che sulle ceneri di quel terribile disastro non rinascesse una forma di anti-americanismo. Da un delitto colposo, un fatto grave, inedito, certo inaudito (venti vite inermi tranciate) provocato da soldati americani in libera uscita militare sul cielo italiano, ci creavamo un archetipo bizzarro di scienza e coscienza ad usum delphini: per evitare reazioni inconsulte di popolo (si legga: sentimenti anti americani) i nostri maggiori editorialisti si preoccuparono – in negativo – di svelare i danni eventuali dell’anti-americanismo (considerato un demone che striscia in noi e che non deve essere evocato o provocato) per esporre le ragioni che dovevano ispirare, in buona sostanza, un sentimento buono e giusto di filo-americanismo. Partendo da un presupposto indimostrato: «É bene essere americanisti», si è utilizzato un fatto esecrabile e certo criticabile per affermare con una discreta dose di ipocrisia: «Suvvia, venti morti sono venti morti, è grave, drammatico, tragico. Ma non tirate fuori il demone dell’antiamericanismo sulla scia di questo episodio. Perché ciò sarebbe catastrofico».

La tautologia americana

E invece il demone è double face: è filoamericano e antiamericano. Uno sostiene e giustifica l’altro. In realtà senza un americanismo acritico ed estremista, coattivo e fideistico, l’antiamericanismo non avrebbe senso. Posso amare l’America e tutto quello che l’America mi ha dato e continua a darmi e non essere affatto americanista. Ed essere, possibilmente e contestualmente, antiamericanista.

Quasi tutti i maîtres à penser italiani del nuovo millennio – i pochi rimasti – e i giornali che dirigono e che orientano il consenso dei lettori, oltre ai molti intellettuali di regime e ai politici di tutti i colori (con poche sfumature fra loro) si preoccupano terribilmente che il germe dell’antiamericanismo non abbia a crescere. Sono custodi impeccabili, con intelligenza, del filo americanismo eterno, incontestabile, che è fatto diventare un sentimento a prescindere: errori e orrori sono secondari e spesso declassati rispetto al verbo. Qualsiasi errore, ogni eventuale delitto di matrice americana, hanno lo strano potere di rafforzare, anziché indebolire, questa tendenza. È il metodo dell’affrancatura culturale. Era in voga prima del fascismo, si è rafforzato con il fascismo, ha rallentato la sua corsa negli anni Cinquanta e Sessanta e poi, da metà anni Settanta a oggi è stato un vero maramaldo.

L’affrancatura dal diritto al dubbio è manichea per definizione. La tautologia è semplice. L’America è il bene, questo è il primo membro. Tutto il resto gli casca sopra. Tutto quello che l’America fa – superate le prime negatività dell’impatto – è dunque un bene. Il suo potere economico mondiale largo e assoluto è la prima prova del bene. Se c’è del male, in questo bene, il bene comunque non ne è scalfito. Dunque, non siate mai contro l’America, perché questo sarebbe il più grande e irreparabile dei mali.

La salvaguardia obbligata del mito

La caduta del sistema sovietico e di parte del comunismo mondiale nel 1989-1991 ha paradossalmente rafforzato questa illogica tautologia. La scomparsa dell’unico teorico contraltare ideologico al monopolio intellettuale filoamericano, anziché, come era razionalmente prevedibile, indebolire la tautologia americanista per la caduta del confronto (le gravi debolezze del sistema sovietico avevano in realtà nobilitato l’immagine americana al di là dei suoi meriti), l’ha al contrario rafforzata.

L’omologazione ad un pensiero filoamericano debole – ma unico – è parsa acriticamente estesa. Il pensiero unico si è rafforzato in modo perfino imbarazzante. La chiave per spiegare questa degenerazione non è politica, è culturale e connessa alle vie della comunicazione, unica come il suo pensiero. Il pensiero debole filoamericanista ha contagiato il mondo e lo sta conducendo inesorabilmente verso un’indistinta massificazione culturale. Le radici di tutto questo, ad esempio in Italia, stanno nel rifiuto sistemico a legittimare l’antiamericanismo come diritto culturale. La salvaguardia obbligata del mito americano è la nostra cattiva coscienza collettiva. È ormai il suo braccio secolare. Non toccatelo, non scuotetelo troppo, non colpitelo: perché altrimenti rischiate di violare qualcosa di molto più vitale per la stessa sopravvivenza del pianeta. È il grande fratello di Orwell che si protrae nel nuovo millennio anche se non c’è più l’altro grande fratello del Novecento, quello sovietico, a giustificare tale spirito collettivo.

È una situazione di privilegio invidiabile per l’America e i cultori dell’americanismo. Essi hanno il privilegio (evidentemente ben conquistato, forse legittimato dall’aura di potenza) di lasciare comunque intatta la dignità e la legittimità del sistema – che ha un’autoreferenzialità potenziale inestimabile – al di là di qualsiasi misfatto. Questo è un sentimento integralista e dovrebbe impegnare l’intelligenza di tutti per un suo corretto superamento. Ma non accade. Il messaggio complessivo, riassuntivo, del sistema America è lasciato verginale. Così l’invasione dell’Irak, uno stato sovrano, ingiustificata, falsificata, ingiustificabile, non ha fatto mettere in discussione nemmeno in piccola parte il sistema America: ma solo la credibilità di un presidente di nome George W. Bush. Così la crisi finanziaria mondiale, provocata da un meccanismo impazzito che non era affatto estraneo al sistema, non era identificabile come un reato isolato individuale o collettivo né come un casuale incidente di percorso. Ma faceva (e fa) parte del sistema di pesi e contrappesi finanziari ed economici insiti nel capitalismo americano e dei quali è perfettamente consapevole lo stesso nuovo presidente Obama: tanto è vero che le sue riparazioni al meccanismo depressivo e alla famosa bolla speculativa sono del tipo «soccorso rosso». Si turano le falle, non si discute il sistema che le ha criminalmente provocate.

Questo vasto e automatico privilegio non ha ragioni politiche valide – Bush non era, ad esempio, il prodotto del caso – e meno che mai ragioni culturali perché è evidente che l’America, invadendo l’Irak e l’Afghanistan e rimanendoci per molti anni ha condizionato la vita degli abitanti di una vasta area e non ha contribuito al loro sviluppo ma a un loro degrado che per ora appare irreversibile. È attuata, su larga scala, la propensione italiana che ho cercato di spiegare più sopra per l’impresa dei Top Gun a Cavalese: non facciamo analisi troppo approfondite, è stata una tragica bravata, il sistema non c’entra. Gli integralisti non demordono: in ogni campo, dall’Irak a Cavalese, dal sesso orale di Clinton e Lewinski alle esecuzioni capitali efferate e inumane come quelle di Karla Tucker, alle grottesche torture di Guantanamo, la loro prima preoccupazione è quella di salvaguardare il tutto, cioè il monopolio pensante americano, al massimo discutendone – ma per breve tempo – qualche sua parte bizzarramente impazzita.

È violenta l’America? Sì, ma è grande. C’è una ragione che la giustifichi? Sì – rispondono e assolvono – è la libertà. Che si tratti di astrattezze e non di fatti, non conta. L’astrazione, in fondo, ci fa vivere e sopravvivere. Se una metà d’America è forcaiola, l’altra metà non lo è: consoliamoci con quest’ultima. Il problema vero è che se l’American Way of Life diventa una categoria del pensiero mondiale esso non rappresenta la metà americana liberal ma quella forcaiola e tutti i suoi eccessi. Tutti i suoi americanismi.

Il problema è serio e tuttora irrisolto. Non è più tempo di pollice alto o pollice verso. Non è più tempo di frontali partigianerie. Il Grande Fratello diffonde da oltre sessant’anni immagini planetarie con la velocità dei Top Gun di Cavalese, ha in mano tutta la TV, tutto il cinema, produce e controlla tutta (o quasi) la scienza, tutte (o quasi) le armi più distruttive. Può farci lezione di potenza o di libertà. Perfino di religione. Se vuole blocca, aggredisce, punisce, decreta. Forse Croce, oggi, scriverebbe «perché non possiamo non dirci americani». Sì, forse lo scriverebbe, ma è difficile capire quali sarebbero i limiti storiografici della sua eventuale analisi.

L’afflato del Dio cristiano – si chiederebbe il filosofo – è stato sostituito da quello del Grande Fratello Americano, titolare di tutte le iniziative rilevanti, di tutte le economie condizionanti, dei mezzi che possono essere padroni di vaste parti del pianeta, ma soprattutto capace di orientare il consenso e le idee migliori? Sicuramente Benedetto Croce sarebbe colpito dalla presenza, nel mondo, di un pensiero economico e politico di unica matrice e dell’assenza quasi totale di alternative filosofiche, civili, politiche riconoscibili. È come se il mondo occidentale si fosse fermato, rinunciando a riflettere. Ha fissato alcuni punti fermi cui tutti si sentono ‘obbligati’ ad aderire, e poi ha lasciato terreno libero per il vuoto terroristico pseudo-islamico.

Alla domanda di Saroyan rispose Parise

Nel ventesimo secolo – prima, a dire il vero, dell’avvento/invasione della massima dimensione americanista – l’America ha dato i natali a scrittori ancora indimenticabili – e il caso vuole che tutti possedessero una prevalente dimensione internazionalista – , Ernest Hemingway, William Faulkner, John Dos Passos, John Steinbeck, Gertrude Stein, Francis Scott Fitzgerald, Truman Capote, Joseph Heller, Saul Bellow, Charles Bukowski, Henry Miller, e poi Cormac McCarthy, Philip Roth, Paul Auster per non dire del teatro, degli inimitati Arthur Miller e Tennessee Williams. In questa forza comunicativa, poetica e letteraria d’America ci sono tutte le tendenze che il mondo non ha potuto mai ignorare. La letteratura americana è la loro e la nostra speranza, perché tutta, senza eccezioni, ha messo in discussione il verbo americanista e anche quello più moderatamente filoamericano. Uno dei suoi migliori figli, siamo a metà circa del Novecento, William Saroyan, scrisse un giorno un racconto importante ed emblematico, scolastico e semplice. Ma profondo già nel titolo: Che ve ne sembra dell’America?. Una vera domanda, fatta per avere risposte. Ma poche risposte sono arrivate. Nessuna dai fedeli scolaretti del verbo filoamericanista (quelli del bene a prescindere), qualcuna incerta, ideologicamente troppo marcata per essere credibile, dai nemici dell’America.

Infine, ed è questo il tema che intendo sviluppare in questo libro, da uno scrittore italiano straordinario, del tutto affrancato da pregiudizi e posture di tipo ideologico o politico contro o a favore dell’America: Goffredo Parise. Dopo averla vista – con uno sguardo allucinato – arrivare nel 1956 nella sua Vicenza annunciata da soldati “palombari” (e a Vicenza a oltre 50 anni quella ‘stanza’ a stelle e strisce c’è ancora) – andò Parise a conoscere l’America in due periodi molto lontani fra loro (1961 e 1975) e diversi anche in rapporto alla sua realtà esistenziale. Ne sortì un materiale non coordinato, in parte non pubblicato e in gran parte pubblicato senza troppa cura. Le testimonianze di Parise sull’America sono scoordinate all’origine – basti pensare che Gli Americani a Vicenza ci mise dieci anni per venire alla luce – anche per una forma di autoritenzione culturale o di incomprensibile (mai esplicitato) pudore.

Ciò non significa che Parise non avesse dell’America e dell’americanismo nascente un’idea chiara e ripetutamente espressa. Ci possono essere alcune zone d’ombra nel suo pensiero e anche qualche contraddizione: ma l’affrancatura ideologica di cui il suo sguardo ha sempre tratto vantaggio ci ha restituito immagini limpidissime e coerenti.

Goffredo Parise, a distanza di qualche anno, ha risposto, con la schiettezza di cui poteva essere capace solo un grande scrittore, alla bella domanda posta da William Saroyan. Le sue risposte non possono essere lasciate cadere nell’oblìo, sono troppo significative e importanti ancor oggi: è questa la ragione di questo libro.

L’AUTORE

Pino Dato, nato a Venezia, vicentino d’adozione, ha pubblicato, fra gli altri, «Dimenticare Vicenza?», «Un laccio al cuore», «Sillabario Vicentino», «Onisto (Un vescovo pastore nella sagrestia d’Italia)», «Vicentinità» (Goffredo Parise, il manoscritto ritrovato, gli Americani a Vicenza). Tutti con le edizioni Dedalus.