[di Aminata Traorè • 19.09.02] Il liberismo sta distruggendo il "continente nero"; non soltanto le sue risorse ambientali ed economiche ma anche le relazioni sociali legate al rapporto con la natura.

L’UMANITA’ VIOLATA DELL’AFRICA

L’idea che la maggior parte degli africani ha finora avuto del presente e dell’avvenire era che la morte, inevitabile, fosse tuttavia tollerabile, purché non mancasse una generazione a sostituire l’altra. Durare era la possibilità di sopravvivere a se stessi. Nessuna persona era considerata povera fintanto ne esisteva un’altra su cui la prima potesse contare. Di qui aveva origine, nelle nostre società, la decisiva importanza della procreazione: in termini non soltanto di numero di figli, ma anche e soprattutto di persone – uomini e donne – di qualità (salute fisica e mentale, socievolezza, moralità) che prolungano la vita e la rendono perenne. Si prendeva ogni precauzione per evitare che il fuoco si spegnesse. L’alleanza con la natura, le diverse forme di solidarietà, erano la garanzia di questa perennità, ben più forte della capacità di durare. Con un sacrificio (cola, latte, farina) si implorava il perdono di un albero che si stava per abbattere, o, prima di arare, quello della terra che si era in procinto di ferire. I primi raccolti erano l’occasioni di manifestazioni culturali che raccoglievano la popolazione e ricordavano l’imperiosa necessità di andare d’accordo con l’ambiente per governarlo. Naturalmente erano forme di esperienza e di conoscenza di vita che fanno sorridere più di un tecnocrate. Gli stati post-coloniali si sono convertiti alla loro nuova religione, piena di promesse. Ma a tanti anni dalle indipendenze aspettiamo ancora che vengano mantenute. E’ magnifico che il continente africano, a dieci anni dal vertice di Rio, accolga la conferenza mondiale sullo sviluppo sostenibile nella sua Johannesburg. Ma lo sviluppo, oltretutto sostenibile, non è che una parolona, una parola d’ordine in più. Ed è tanto più dubbia poiché si iscrive nella missione «civilizzatrice» delle potenze coloniali, ma questa volta con l’appoggio e la complicità delle elite locali, che a loro volta, illudono e assoggettano i loro popoli. La globalizzazione liberista è il quadro logico di questa impostura. I suoi scacchi e le sue tempeste non ci scoraggiano, soprattutto una volta che l’autorevole voce di Joseph Stiglitz, già capo economista della Banca mondiale e premio Nobel per l’economia ha detto che «oggi la globalizzazione non funziona per i poveri del mondo, come non funziona per l’ambiente, come non funziona per la stabilità dell’economia mondiale». L’Africa, più di ogni altro continente, avrebbe dovuto riassestarsi alla luce di tutto ciò che sappiamo sul sistema economico dominante e dei mea culpa di Fondo monetario internazionale e Banca mondiale. Niente. I nostri dirigenti preferiscono perdere la sfida e riempire il granaio con i dividendi della subordinazione. Gli investimenti eccessivi in infrastrutture costose e raramente necessarie che però contribuiscono all’accumulo del debito estero, sono il loro maggiore interesse. Lo testimonia l’ultima trovata: la Nuova associazione per lo sviluppo dell’Africa (Nepad). I padri di questo progetto neoliberista, il più ambizioso mai immaginato dai dirigenti africani, sono fiduciosi e sereni. E questo nonostante le messe in guardia da parte di numerose organizzazioni della società africana.
I soci che si sono trovati e che passano avanti ai loro popoli, come il G8, il Fondo monetario, la banca mondiale, il Wto, non sono sinceri nelle loro risoluzioni di lotta contro la povertà, o di protezione dell’ambiente. Le piogge torrenziali che si abbattono su una parte del nord del pianeta, le siccità e le carestie nell’Africa australe e che raggiungono ormai l’Africa dell’Ovest, non bastano a far cambiare idea ai sostenitori del «mercato totale», in particolare la potentissima amministrazione americana. La sua arroganza non ha limiti, che si tratti della riparazione per i pregiudizi subiti dai discendenti di africani deportati come schiavi (conferenza di Durban), delle sovvenzioni alle esportazioni agricole (vertice di Roma dell’organizzazione dell’Onu per l’alimentazione e l’agricoltura – Fao) del finanziamento allo sviluppo (conferenza di Monterrey) , o delle emissioni di gas di serra (protocollo di Kyoto), della corte penale internazionale, ecc. Sono piaghe aperte e dolorose quelle causate da oltre quaranta anni di sviluppo, compresi due decenni di aggiustamento strutturale sotto la guida dell’Fmi e della Banca mondiale e dieci anni di preteso sviluppo sostenibile. Imbarcati, a loro insaputa, in queste strategie, africani e africane vivono, in grande maggioranza in situazioni di estrema precarietà.
Analfabetismo, mancanza di lavoro, sottoalimentazione, carestie e malattie continuano, devastanti. Le popolazioni sono tanto più vulnerabili, quanto i loro riferimenti culturali sono divenuti confusi o resi inoperanti. E’ certo che le popolazioni si sforzano di inventarne di nuovi, in ogni settore; e resistono come possono, con esiti più o meno validi. Il ripiegamento identitario, l’individualismo, il fanatismo, l’esilio, la violenza, la follia sono, in Africa, altrettanti luoghi di rifugio per le vittime dello sviluppo e della globalizzazione mercantile.
Le migrazioni che tanto ossessionano le leadership dei paesi ricchi devono essere rilette alla luce di questa tragedia. Se c’è insicurezza, essa colpisce soprattutto donne, bambini, lavoratori, contadini, anziani e handicappati, che continuano a essere maltrattati e impoveriti in nome dello sviluppo. Gli uomini e le donne partono perché non sanno più come dare senso alla propria esistenza sulla propria terra.
Nelle zone di partenza (città, quartieri, villaggi) gli africani privi di fonti di reddito e di mezzi di sussistenza, vivono nel timore di scomparire fisicamente a causa dell’aumento del prezzo della derrate alimentari e della privatizzazione dei servizi pubblici, soprattutto delle cure sanitarie. I malati che non sono in grado di pagare sono condannati a morire. La sopravvivenza deve fare i conti con il lavoro minorile, lo sfruttamento delle donne, la miseria, la prostituzione (malgrado l’Aids), le rapine a mano armata… Allo stesso tempo, i legami sociali si sfilacciano, i punti di riferimento si attenuano e le risorse naturali si rarefanno ad un ritmo spaventoso. Le foreste vengono saccheggiate dalle multinazionali per il legno di costruzione, dalle famiglie povere per il legno da riscaldamento e come fonte di guadagno. La pressione demografica, a cui il discorso dominante imputa la responsabilità di questa situazione, è certo un vincolo notevole, la cui soluzione può e deve tuttavia essere trovata nell’educazione, soprattutto quella delle donne. Quando ne va dei loro interessi, i potenti del mondo travestono i mali del pianeta in soluzioni, confiscano le risorse finanziarie e imbrogliano, definendo tra loro le regole del gioco. La fame – che colpisce 800 milioni di persone nel mondo, la maggioranza delle quali si trova in Africa – lancia oggi più che mai una sfida ai sostenitori dello sviluppo durevole. La pandemia dell’Aids, che sta decimando le popolazioni del continente mentre potrebbe essere arginata, gliene lancia un altra, diretta anche alle élite africane, che continuano a sbagliare nella scelta dei propri partner.
Cosa ci possiamo aspettare dal vertice di Johannesbourg, in un contesto internazionale così segnato dall’unilateralismo degli Stati uniti, dal doppio linguaggio, dalle esitazioni e dai tradimenti dell’Europa, dall’onnipresenza, dall’ingerenza e dall’impunità dell’Fmi e della Banca mondiale in Africa, dalla corruzione, dalla miopia dei dirigenti africani e dalla strumentalizzazione dei tenetivi di organizzazione delle società? E’ poco probabile che gli stati industrializzati, devastati dalle conseguenze dell’11 settembre e dalle valange di scandali finanziari di questi ultimi mesi (Enron, Worldcom, Xeros, Vivendi Universal, e così via) si mostrino più attenti che in passato ai mali del nostro continente.
Come definire, allora, questa speranza legittima di riacquisire i nostri diritti economici, politici, sociali e culturali, quando le parole suonano false? Perché non dare provare di creatività pescando, nel ricco patrimonio linguistico del continente, concetti che parlano dell’umano e del suo ambiente e che abbiano senso per i popoli? Quello dello sviluppo (antinomico alla nozione di durabilità) e quello della globalizzazione liberale discendono dalla stessa logica disumanizzante. Si tratta, per l’Africa, di opporgli principi di vita, oltre a valori che privilegino l’umano: l’umiltà contro l’arroganza, la comprensione e la preoccupazione per l’altro, soprattutto nei confronti delle generazioni future, di fronte alla logica dell’ognun per sé.
Questo sforzo di creatività compete soprattutto alle organizzazioni delle società africane. Sono loro a dover far emergere una massa critica di cittadini e cittadine che afferrino la vera natura del sistema mondo, e imprimano all’apertura politica un senso diverso dalla mercificazione dell’Africa.


(L’articolo è stato scritto in occasione del vertice di Johannesburg ed è pubblicato nell’edizione francese di “Le Monde diplomatique” di settembre).