PEDOFILIA E CHIESA CATTOLICA


La situazione in cui si trova oggi la mia Chiesa mi rende triste e so di non essere la sola a sentirmi oppressa da questo sentimento. Di fronte ad alcuni recenti o recentissimi comportamenti del Vaticano, molti cattolici sono smarriti, disorientati: non ne condividono alcune reazioni di autodifesa e di arroccamento, di fronte a scandali dei quali non si sospettava la gravità. Il turbamento spinge non pochi a staccarsi dalla vita comunitaria. Siamo di fronte a una specie di scisma silenzioso e doloroso, non solo per le sue conseguenze ma anche perché nasce da una penosa sofferenza di persone che si sforzano di seguire il Vangelo.

L’esplosione del caso dei sacerdoti pedofili ha una parte notevolissima in questo disagio ecclesiale; ed io sento il dovere di riflettere su quanto sta accadendo, come cristiana e come psicologa che nella sua attività terapeutica ha avuto a che fare, dolorosamente, con la pedofilia.

Credo che, innanzi tutto, non si debbano dimenticare i risvolti più propriamente ecclesiologici della vicenda. È evidente che essi hanno avuto un ruolo fondamentale nei confronti della gestione pubblica del «caso». Ora, se la Chiesa  viene concepita soltanto come «santa», con un «santo padre» che la guida e quindi come modello di perfezione da proporre ai fedeli, è comprensibile che si sia cercato di tenere nascosti comportamenti di singoli membri non all’altezza di tale modello. É lo stesso comportamento che hanno, lodevolmente, i genitori quando evitano di scaricare sui figli piccoli i loro problemi, che, se gravi, i loro bambini non sarebbero in grado di reggere senza sentirsene devastati.

Ma questo atteggiamento di salvaguardia del modello genitoriale, in qualche modo idealizzato (chi è piccolo ha bisogno di idealizzare), non è più valido quando i figli crescono. Molto presto, molto prima di quello che generalmente si immagina, essi  si rendono conto di quello che sta capitando nella famiglia e se ciò che viene insegnato dai genitori non corrisponde ai loro comportamenti, i figli sentono la falsità insita nella discordanza tra il dire e l’agire dei genitori e perdono la fiducia nei loro confronti.

Nel caso in cui, per esempio, si fosse dolorosamente arrivati alla rottura del matrimonio, è consigliabile che ogni genitore abbia umilmente la forza, scendendo dal suo piedestallo, di spiegare ai figli in età da capire, cosa sta avvenendo all’interno della coppia, rassicurandoli al tempo stesso che il loro amore per loro non verrà meno.

Ma la Chiesa come si pone nei confronti dei suoi fedeli? Li considera adulti o minori? Se li considera minori, può avere senso, dal punto di vista di chi la guida, difendere la santità di tutti i suoi membri. Se invece la Chiesa considera i fedeli persone mature, non teme di perdere una posizione idealizzata, non teme di presentarsi come realmente è: un insieme di persone peccatrici, che rimangono tali anche che se raggruppate intorno alla figura del Cristo. Gesù stesso, del resto, non voleva essere chiamato «buono», e diceva che solo il Padre lo era. I Padri della Chiesa parlavano di una comunità «casta et meretrix».

A queste due posizioni corrispondono le due diverse reazioni che si sono avute nella Chiesa quando è scoppiato il caso dei preti pedofili. Alcune autorità ecclesiastiche hanno trovato necessario coprirlo, altre hanno pensato necessario affrontarlo pubblicamente, fino ad ammettere che il sacerdote abusatore andava, per la sua pericolosità sociale, giudicato non solo da tribunali interni all’istituzione ma anche da quelli dello stato.

Poiché  l’intervento del Papa fissa ora l’assoluta necessità di un mutamento radicale nel comportamento dei vescovi, mi sembra importante, a questo punto, porre alcuni fondamentali interrogativi: Chi è il pedofilo? Che cosa cerca il pedofilo nel bambino? Che conseguenze ha per un bambino essere abusato? Come mai vi sono potenziali pedofili che scelgono lo stato clericale? Come mai non ci si è accorti della pedofilia di un candidato al sacerdozio? Le misure adottate nei suoi confronti quando ci si è resi conto della sua pedofilia sono state adeguate? Come potrebbero essere rese più valide?

 

Chi è il pedofilo?

Il pedofilo non è un mostro, è piuttosto lui stesso una vittima: un povero essere umano che, in chi si occupa di lui, suscita una grande compassione. É una persona che nella sua prima infanzia non ha ricevuto cure amorevoli dai genitori, i quali, per  ragioni diverse (morti, separazioni, estrema povertà, dissidi familiari, disorientamenti dovuti ad emigrazione o immigrazione), non sono stati in grado di rispondere ai bisogni del proprio piccolo/piccola nei suoi aspetti di base, che noi psicologi chiamiamo aspetti sensoriali (cioè dei cinque sensi: tattili, visivi, uditivi etc.). Sono quei bisogni che ogni madre riconosce nel neonato accudendolo. La non risposta a tali bisogni primari produce conseguenze gravissime nella vita adulta. Solo, infatti, se c’è stato un «buon ambiente» creato da una madre non perfetta ma «sufficientemente buona», il neonato può iniziare la tappa fondamentale del suo sviluppo, quella che lo psicoanalista Eugenio Gaddini ha definito «organizzazione mentale di base». Tutto quello che succede poi nello sviluppo è importante, ma questa organizzazione ha la stessa importanza delle fondamenta per una casa. Alla nascita il neonato è fisiologicamente assemblato (ciò avviene nella vita fetale), ma psichicamente è ancora costituito da parti sconnesse che devono essere organizzate, integrate, dall’amore   di una persona che si prende cura di lui.

Qualche volta (non sempre) il futuro pedofilo ha subito nell’infanzia anche qualcosa di peggio: una violenza sessuale. Se alla mancanza di un buon ambiente, già da sola premessa di una psicosi, si aggiunge questa terribile esperienza, si può capire come alla sua struttura psichica sia stato impedito di costruirsi.

Ecclesiastici autorevoli, purtroppo digiuni di psicologia, hanno messo in connessione la pedofilia con l’omosessualità. Come s’è detto sopra, il pedofilo ha sofferenze strutturali di base che non hanno niente a che vedere con le problematiche di tipo omosessuale. Oltre a tutto, le statistiche ci dicono che il numero dei maschi pedofili è maggiore di quello delle donne, ma che tanto gli uni che le altre seducono bambini e bambine.

Che cosa cerca il pedofilo nel bambino?

Il pedofilo cerca nel bambino risposte a bisogni del Sé, a quei bisogni sensoriali di base, come l’essere toccato o l’essere guardato, che gli sono mancati nella sua infanzia. Inizia di solito il suo approccio al bambino con l’esibizione del propri genitali perché – come ritengono eminenti specialisti in questo campo – egli ha insicurezze relative alla propria identità di genere, un rapporto problematico con il proprio corpo, che richiede conferme soprattutto per quel che riguarda l’apparato sessuale e nel bambino cerca di suscitare ammirazione per i propri attributi, ammirazione non altrettanto facile da suscitare in un adulto.

Poi inizia con il bambino un «gioco di carezze», che lo fa sentire, con un processo di identificazione, il bambino accarezzato. Ma poiché il pedofilo è un adulto, l’eccitazione suscitata da tali preliminari, sfocia facilmente in atti sessuali veri e propri, che talvolta esplodono con inaudita violenza. In tal caso poiché l’apparato sessuale del piccolo non è proporzionato a quello del suo violentatore, violenza può voler dire lacerare il bambino nelle sue parti intime. In casi estremi, per fortuna rari, quando il pedofilo ha l’impressione che il bambino stia per parlare ai genitori di quello che sta subendo arriva ad ucciderlo e a farne sparire il corpo.

Data la fragilità del suo Io, il pedofilo è incapace di tenerezza, un sentimento che si può sviluppare solo quando l’Io è in grado di controllare le proprie pulsioni. Inoltre, proprio per le sue carenze di sviluppo, ha un ridotto senso di realtà, che non gli permette di rendersi conto, non solo di quello che sta facendo, ma anche di quello che prova il bambino che subisce le sue seduzioni: è mancante di capacità empatica.

Che conseguenze ha per il bambino essere abusato?

Le violenze che il bambino subisce hanno conseguenze diverse in base al rapporto affettivo che il bambino ha con l’abusante, al grado della loro brutalità e sono tanto più gravi quanto più è piccolo l’abusato. Le violenze subite in tenera età da parte di familiari, anche madri, che sono molto più frequenti di quello che si possa pensare, producono danni talvolta irreparabili anche da una buona terapia del profondo e comunque rimangono sempre come tracce indelebili. (Pare che il corpo abbia più memoria della psiche del male ricevuto. I torturati, infatti, non dimenticano facilmente le sevizie patite). Se infatti le violenze fatte su bambini piccoli impediscono il consolidarsi della organizzazione mentale di base, anche le violenze fatte su bambini più grandi – quelle generalmente subite da figure genitoriali come i sacerdoti – non  sono prive di gravi conseguenze: nel primo caso, viene interrotto il processo integrativo, nel secondo caso avviene un processo disintegrativo, simile all’effetto di una bomba. Questo tipo di violenza colpisce tanto più gravemente in quanto il bambino si affida fiduciosamente a tali figure, e in modo inerme, senza quindi attivare lo schermo difensivo abitualmente messo in atto di fronte a una persona che non conosce.

Perché alcuni potenziali pedofili scelgono lo stato clericale?

Come nella pianta, già nel seme c’è la spinta verso il progetto genetico che essa deve realizzare, così in ogni uomo c’è la spinta verso il compimento del proprio sviluppo. Chi è cresciuto nella condizione tragica descritta cerca intorno a sé un ambiente protettivo che lo aiuti in questo percorso. Ora ambienti costituiti da persone che si occupino di chi è in sofferenza psichica non sono facili da trovare, in una società come la nostra, in cui lo Stato sembra spesso indifferente ai problemi dei cittadini che si trovano in  quelle condizioni. Si pensi alla mancata attuazione della legge Basaglia, che ha costretto molte parrocchie a diventare strutture di accoglienza di gran numero di persone in stato di indigenza psichica. In mancanza di strutture adeguate, l’ambiente clericale può essere allora sentito come particolarmente protettivo.

La scelta celibataria sacerdotale del pedofilo può anche dipendere dal fatto che il matrimonio gli appare poco desiderabile, se i suoi hanno avuto una esperienza fallimentare. In questo caso egli teme di essere inadeguato a vivere ogni tipo di relazione, e in modo particolare la relazione sessuata di coppia, proprio come sono stati inadeguati i suoi genitori. Il potenziale pedofilo, essendo una persona fragile, si sente minacciato e a rischio di disgregazione del Sé, in modo  più o meno consapevole, tanto dalla propria libido che non riesce a gestire come vorrebbe, quanto dalla propria aggressività, e queste due componenti sono costitutive di qualsiasi rapporto.

Chiunque abbia responsabilità di formazione dovrebbe essere consapevole che il modo di esprimere la propria istintualità, può essere maturato e «ingentilito» da una buona «educazione» non formale: «fatti non foste a vivere come bruti» ha scritto Dante. L’educatore che affronta il problema della sessualità solo in modo repressivo non favorisce tale maturazione. È infatti la difficoltà a contenere la propria aggressività e il terrore provocato da quella che può venirgli dall’esterno (soprattutto una aggressività sessuale, se il potenziale pedofilo ha subito abusi nell’infanzia), che lo potrebbe portare ad essere attirato da strutture ecclesiastiche, in quanto ritiene che i loro membri siano persone addestrate a contenere i propri impulsi, e quindi poco temibili.

Come mai non ci si è accorti della pedofilia di un candidato al sacerdozio?

La gente si chiede come sia possibile che chi si è dedicato alla formazione di un candidato al sacerdozio non si sia accorto della sua patologia. E come mai più tardi i suoi superiori non si siano resi conto della gravità e della pericolosità dei suoi comportamenti. Le risposte non sono facili. La prima causa  sembra quella dell’ignoranza. Ignorare vuol dire non capire, e si può non capire tanto per ignoranza psicologica dei processi di sviluppo, quanto perché i propri problemi fanno velo alla comprensione. In ogni caso valutare la sanità psicologica di una persona è molto difficile: anche patologie molto gravi rimangono spesso nascoste in una parte scissa della personalità, (il cosiddetto «falso Sé») e sfuggono persino a valutatori sperimentati. Consapevoli di ciò, alcuni ordini religiosi affiancano all’esame vocazionale dei candidati test, che sono ormai ritenuti dagli psicologi strumenti validi di conoscenza e di svelamento del non detto.

Qualcuno ha messo in relazione il celibato con la pedofilia; questo non è vero in modo diretto, però occorre fare alcune considerazioni in proposito. Sulla valutazione dei candidati al sacerdozio pesa anche, in maniera più o meno consapevole, la preoccupazione dei vescovi per la crescente secolarizzazione della nostra società. Le candidature sacerdotali sono diminuite di numero e le esigenze pastorali influiscono certamente su una minore severità di giudizio dei candidati. La diminuzione del numero delle vocazioni potrebbe anche avere a che fare con la sessualità e la repressione della sessualità e viceversa.

L’abbandono della vita sacerdotale avviene spesso, non sempre, perché nel cammino dello sviluppo l’individuo scopre il valore della sessualità. Siccome, quindi, il desiderio di vivere la propria sessualità è una minaccia di abbandono della vita consacrata, la sessualità viene sentita dall’istituzione come temibile e quindi da reprimere, con i risultati negativi di cui s’è detto. Con ciò non si vuol affermare che il celibato non possa essere vissuto in modo esemplare da persone mature in grado di sublimare le loro pulsioni sessuali.

Freud, ingiustamente considerato da molti cattolici un pericoloso sessuomane, aveva teorizzato che una persona normale possa  sublimare le pulsioni. Sublimare, secondo lui, significa «deviare la pulsione sessuale verso una nuova meta non sessuale tendente verso oggetti socialmente valorizzati». Se la sublimazione riesce, il celibato non solo è vissuto bene, (in particolare in alcuni ordini monastici in cui c’è vita comunitaria di preghiera), ma è una condizione auspicabile, quando un sacerdote si impegna a dare vita a uomini e donne che vivono in ambienti di miseria disumana, impegno quasi impossibile da sostenere in coppia. Il privilegio di avere conosciute persone del genere mi ha aiutato a non abbandonare la fede.

Ma perché la sessualità arrivi al livello elevato della sublimazione occorre innanzi tutto che il soggetto abbia ricevuto inizialmente una buona strutturazione di base – altrimenti la sessualità può erompere in forme perverse in momenti inaspettati della vita – e deve anche, va ripetuto, non essere rigidamente repressa.

Abbiamo scritto  sopra che la persona che ha avuto difficoltà di base è portato istintivamente verso ambienti ecclesiastici; dobbiamo aggiungere che anche se spesso trova in tali ambienti persone mature e generose, esse sono in grado di aiutarlo ma non di risolvere i suoi problemi più gravi. In altri casi può accadere invece che sia proprio la non maturità del superiore a non fargli riconoscere la gravità della patologia del candidato. In altri casi, inoltre, può accadere che la non maturità del formatore lo possa portare inconsciamente a sentire che il candidato, proprio perché è fragile, può essere facilmente sottomesso e dunque non porrà particolari problemi dal punto di vista disciplinare.

É capitato non infrequentemente che si ritenga, magari in buona fede, che la grazia di Dio possa guarire anche le situazioni più difficili. Qualche volta questa buona fede si accompagna a una buona dose di presunzione sulle proprie forze taumaturgiche, a ignoranza e a diffidenza verso le terapie psicoanalitiche. (Quanto questa ignoranza sia prevenuta lo prova il fatto che Freud, il quale ha messo in evidenza l’importanza della sessualità, è stato un marito fedele, anche se gli atteggiamenti transferali amorosi delle sue pazienti hanno certamente messo alla prova la sua serietà nella condotta terapeutica).

Le misure adottate quando ci si è resi conto della pedofilia di un sacerdote sono state adeguate?

Nella nuova consapevolezza che l’istituzione ecclesiastica mostra nei confronti del dramma della pedofilia nella Chiesa e degli errori commessi da quei superiori che non hanno agito immediatamente nei confronti del sacerdote, considerando magari utile il semplice spostamento in un altro ambito, appare di evidente importanza la necessità di aggiornare le norme di prevenzione e di punizione in questa materia. Sembra ovvio che debba essere reso più cogente l’obbligo per i superiori, anche i più renitenti, a non considerare più tali eventi come «cosa loro», in modo che il pedofilo sia sottoposto a un processo giudiziario amministrativo e penale anche in quegli stati in cui la denuncia non è obbligatoria: il pedofilo ha commesso atti che non riguardano lui solo, e un solo ambiente, ma che lo rende pericoloso per l’intera società. Non potrà mai svolgere una funzione sacerdotale.

É da augurarsi che in questo aggiornamento si consideri la questione anche dal punto di vista psicologico. Si ha l’impressione, dai giudizi espressi da ecclesiastici autorevoli, che il pedofilo sia considerato soprattutto da un punto di vista morale, come un grave peccatore che ha commesso atti «ignominiosi» dai quali può pentirsi e riscattarsi. Ma per fare un peccato non occorre avere la piena consapevolezza di quello che si sta facendo? Non è facile per uno psicoterapeuta che ha avuto a che fare con la pedofilia trasmettere ai non addetti ai lavori la gravità degli esiti di un abuso su un bambino. Ma è ancora più difficile fare capire, soprattutto ha chi ha responsabilità nei suoi riguardi e diffida magari della psicologia, che il pedofilo è un malato grave, con un Io talmente poco coeso, da arrivare talvolta a non essere consapevole di quello che fa o ha fatto. Solo un Io integro è in grado di esprimere veri atti di contrizione e di penitenza. Il pedofilo non può arrivare alla possibilità di chiedere perdono e soprattutto non è in grado di cambiare i suoi comportamenti dopo che ha fatto un atto di contrizione. Ogni madre sa bene che un bambino piccolo, quando è sgridato, spesso non ricorda cosa ha fatto,  altre volte lo nega. Anche nei casi in cui arriva a chiedere scusa e dice «Non lo faccio più» ciò non significa che poco tempo dopo non rifaccia esattamente quello che ha fatto. Vista in questa ottica, perde molto valore la considerazione della maggiore o minore gravità degli atti compiuti che possono richiedere un richiamo, un ammonimento e solo in casi estremi la riduzione allo stato laicale. Inoltre come si può essere sicuri che un atto considerato «poco grave», dato che appare soltanto come un preliminare sessuale non scatenerà in altre occasioni imprevedibili una violenza distruttiva?

Clotilde Buraggi Masina

Per una più ampia trattazione dell’argomento vedi: Clotilde Buraggi Masina, «Psicogenesi della pedofilia» all’interno del libro di Salvino Leone, «L’INNOCENZA TRADITA, Pedofilia: Il punto sulla questione», (Città Nuova editrice, Roma, 2006).