[di Vincenzo Andraous • 30.07.02] Il carcere a detta di molti affermati studiosi non riesce a piegarsi a nessun scopo sociale condivisibile. Personalmente non sono d’accordo con questi scienziati;  almeno fin tanto che il carcere renderà pietra dura che dura anche il pensiero più fragile, quel pensiero senza più credo affondato dalle scelte sbagliate.

UNA FUNE SULL’ABISSO

Il carcere a detta di molti affermati studiosi non riesce a piegarsi a nessun scopo sociale condivisibile. Personalmente non sono d’accordo con questi scienziati;  almeno fin tanto che il carcere renderà pietra dura che dura anche il pensiero più fragile, quel pensiero senza più credo affondato dalle scelte sbagliate. Perché, inutile nasconderlo, la prigione sequestra i bisogni-desideri, e stabilisce lei quando questi debbono essere soddisfatti, persino decidendo quando e dove è possibile realizzarli. Impossessandosi così del corpo e della mente di una persona detenuta nel maggior riproduttore di perdita di affettività e  senso cognitivo. E’ in questa dinamica che  la mente finisce in un anfratto remoto, in un angolo dove non è più possibile vedere niente. Penso che fino a che  non si comprenderà che in carcere si va perché puniti e non per essere puniti, questa dicotomia spingerà il detenuto privato della libertà a sedersi a tavola con la morte, decidendo di guardarla in faccia e sfidarla. Senza però tenere in considerazione che la morte quasi sempre vince. E’ una prova questa, che indica la paura del potere della morte, ma ugualmente il carcere continua a rimanere un luogo dove non è autorizzato fare nascere  vita nè speranza, ma l’uomo privato della speranza è un uomo già morto. Questo “niente” inciderà forzatamente sulle menti, per cui gli stessi messaggi diventano cifrati, non più chiari né leggibili per tentare di rielaborarli. Momento dopo momento, giorno dopo giorno, anno dopo anno, in compagnia del solo passato che ricompone la sua trama, e passato, presente  e futuro sono lì, in un presente che è un attimo dove non esiste futuro. Quando il sentimento dell’amore è segregato, sei  ancorato a una stanchezza che ti fa sentire perduto, hai  in comune con il tuo simile solo un dolore  sordo, che evita di guardare all’indietro nè di pensare al  domani, e allora riconoscere i propri errori è un’impresa ardua. Le analisi sistemiche a questo punto servono a poco per rendere più umano l’inumano, dalla mia ridotta specola, sono più propenso a credere che dobbiamo convincerci  noi, quelli dentro, della  possibilità di raggiungere dei traguardi e degli obiettivi per ritornare a volerci un po’ bene, per riuscire a essere persone e non solo numeri usati per la statistica. Finchè i ragionamenti saranno  un’estensione degli atteggiamenti negativi le rappresentazioni mentali si trasformeranno  in eventi negativi. Il carcere è ancora, ancora e ancora quello che ben sappiamo, ma chi vive in quest’agglomerato umano ha il diritto-dovere di ritrovare fiducia in se stesso e negli altri, e ci riuscirà solamente comprendendo che l’intorno non parla, perché noi non parliamo, e peggio non siamo capaci di  aprirci. Eppure gli altri sono i mille pezzi che a noi mancano, che a noi sono sempre mancati, e finchè noi continueremo a pensare di sopravvivere senza il bisogno dell’altro, nel lungo tempo ci  ritornerà questo annichilimento con la stessa intensità e precisione, inevitabilmente. Ciò che noi diventeremo è ciò che ci siamo incisi nella mente, l’immagine di noi stessi che ci siamo costruiti si riprodurrà con un fatto concreto. Ecco perché sono dell’idea che finchè il carcere, ma meglio dire tutto il consorzio sociale, non si attiverà consapevolmente con il suo interessamento produttivo e non pietistico, e non si predisporrà ad aiutare chi è nell’errore a ritenersi capace di essere in costante e continuo miglioramento; ebbene questa indifferenza e questo disinteresse collettivo  continuerà a seppellire quei “dettagli” che invece servono  per migliorarci tutti. (CONTRIBUTO  DI VINCENZO ANDRAOUS  DEL CARCERE DI PAVIA  PER LA CONFERENZA NAZIONALE VOLONTARIATO E GIUSTIZIA).