[ALESSANDRO MANTOVANI 21.07.04] Il maresciallo Diana, malato di tumore dopo Somalia e Bosnia: «La pensione non basta, la Difesa deve riscarcirmi». Già 27 morti per l'uranio impoverito. Prc e Ds: inchiesta parlamentare. Accame: «2 milioni per ricerche fuorvianti»...

URANIO. «MUOIO IN DIVISA, LO STATO MI AIUTI»

Nelle mani tremanti rigira un vecchio rosario. Negli occhi la malattia e l’umiliazione non hanno spento l’intelligenza, né la rabbia: «Non ci sono più terapie, aspetto solo di morire – dice il maresciallo Marco Diana, 35 anni, secondo reggimento Granatieri di Sardegna – Ma la mia Repubblica deve darmi il modo di morire con dignità, perché io ho giurato fedeltà alla Repubblica». La formula del giuramento la sbatte in faccia ai giornalisti (pochi) e a chi siede accanto a lui, alla conferenza stampa organizzata da
Gigi Malabarba, capogruppo Prc in senato.

Le opposizioni chiedono una commissione d’inchiesta parlamentare sull’uranio impoverito, probabile causa di morte per almeno 27 militari italiani: l’ultimo, il caporalmaggiore Luca Sepe, è il 13 luglio. «Gli ammalati nelle forze armate sono decine, non si può più dire che non c’è connessione con l’uranio impoverito», dice Malabarba. E la lista degli agenti radiottivi, tossici e chimici, ai quali sono esposti innanzitutto i civili dei paesi in guerra, è molto più lunga. Sala gialla del senato, torrida estate rinfrescata dal condizionatore. Il maresciallo Diana indossa un pesante giaccone e un berretto di lana, il volto scavato porta i segni del tumore che gli divora l’intestino e il fegato. Per alzarsi ha bisogno d’aiuto. «Dove mi sono ammalato? Non lo so – risponde per l’ennesima volta – In Somalia, in Bosnia… Lì che sono stato in contatto con ogni tipo di armamenti: missili, bombe, mortai… Tutto senza protezione, a volte in calzoncini a petto nudo. Ma che ne sapevamo? In Somalia facevo il caposcorta per i trasporti di armi e missili da Mogadiscio verso le zone sotto bandiera Nato.

Ero a contatto con materiali che, prima di ripartire per l’Italia, venivano sottoposti a bonifica nucleare, biologica e chimica. Gli americani avevano maschere, elmetti e scafandri… Perfino i pakistani erano protetti. Noi non sapevamo niente». Era il `94, missione Ibis: quella delle presunte torture, dell’assassinio di Ilaria Alpi e di diversi scontri a fuoco per i militari italiani.
Il maresciallo Diana, perito elettrotecnico di Villamassargia (Cagliari), si accorge della malattia nel ’98, dopo la Bosnia. Carcinoma all’intestino, forma rara e a rapida evoluzione. La pensione detta «privilegiata» dovuta ai militari che si ammalano per cause di servizio, gli viene assegnata dalle commissioni mediche militari, poi gli viene ritirata dal ministero del Tesoro e nel 2003 la Corte dei conti gliela restituisce. Ma non basta: «Vedete – dice vergognandosi di mostrare i conti – Questa è la pensione, tre milioni e quattrocentomila lire italiane, e questo è l’elenco degli integratori aliminari che devo prendere ogni mese, integratori che non ti passa nessuno: 1.714 euro, 3.319.657 lire. Insomma la pensione se la mangia  il tumore, e poi ci sono le medicine, i viaggi all’Istituto oncologico di Milano… ». Diana è disperato e non solo per il male che lo affligge.

Vorrebbe essere orgoglioso della sua divisa e invece chiede «se è giusto che devo venire qui a fare l’elemosina…». Circola un numero di conto corrente, 1150900 al Credito italiano di Iglesias (Abi 2008, Cab 43910). Il maresciallo sta intentando una causa civile per il riconoscimento del danno biologico. Gli stati maggiori sostengono che se Diana avesse ragione la Difesa andrebbe sul lastrico per risarcire i militari che si ammalano: è molto più economico continuare a non riconoscere l’uranio impoverito come Causa di patologie. «Ma i soldi li hanno!», protesta Falco Accame, presidente dell’Anavaf, sventolando l’articolo 13 bis del penultimo decreto sulla missione in Iraq (convertito nella legge 68/2004). Vengono stanziati 1.175.330 euro per una  ricerca sui danni da uranio impoverito condotta su mille militari impegnati in Iraq, «militari che hanno tutte le protezioni: maschere, tute, eccetera… – dice Accame – E’ come buttare in acqua uno con la muta e concludere che non si bagna. E’ fuorviante. Da un lato si continua a dire che l’uranio non fa male, dall’altro però si assicura che non viene più usato e che sono adottate tutte le precauzioni possibili… E’ assurdo».

Alla conferenza stampa, con altri militari e con i familiari di quelli scomparsi, c’è Antonio Savino, segretario dell’Unione arma dei carabinieri (Unac): «Riceviamo centinaia di chiamate, anche nei nostri poligoni di tiro, in Sardegna e altrove, si usano proiettili all’uranio». Si fa vedere il senatore Gianni Nieddu, Ds: «Subito l’inchiesta parlamentare». Le conclusioni del professor Franco Mandelli oggi non bastano neppure alla maggioranza che istituì quella commissione nel 2000.


Fonte: il Manifesto, 21 luglio 2004