[di Gian Carlo Caselli • 23.05.02] Il ricordo che conservo maggiormente si lega ad una delle pagine più vergognose della nostra storia giudiziaria e nazionale (che ho già trattato nel volume “L’eredità scomoda” di Feltrinelli, scritto insieme ad Antonio Ingroia e Maurizio De Luca). Falcone e gli altri magistrati del pool di Palermo avevano dimostrato, col maxi-processo, che la mafia si può sconfiggere. Stavano rendendo un eccezionale servizio all’intiero paese...

1992-2002 STRAGE DI CAPACI/3 – GIAN CARLO CASELLI RICORDA GIOVANNI FALCONE

Il ricordo che conservo maggiormente si lega ad una delle pagine più vergognose della nostra storia giudiziaria e nazionale (che ho già trattato nel volume “L’eredità scomoda” di Feltrinelli, scritto insieme ad Antonio Ingroia e Maurizio De Luca). Falcone e gli altri magistrati del pool di Palermo avevano dimostrato, col maxi-processo, che la mafia si può sconfiggere. Stavano rendendo un eccezionale servizio all’intiero paese. La loro azione avrebbe dovuto essere apprezzata e valorizzata ad ogni livello, soprattutto al centro, nei gangli del nostro sistema di democrazia. Invece…Invece di essere difesi e sostenuti, Falcone ed i suoi colleghi furono avversati e attaccati. Le loro strutture demolite, i loro metodi cancellati. Si ritrovarono amaramente soli. Massacrati prima di tutto a parole, tra le nebbie dei sospetti e gli schizzi di melma che attribuiscono appartenenze e interessi politici inesistenti. Quante volte mi è capitato di sentir sussurrare che quel Falcone era un “comunista” e per questo si stava dando un gran daffare, lui che comunista non era mai stato. Oppure che con la sua attività danneggiava l’economia siciliana! E’ andata avanti così fino alla sua morte, fino a quando “Cosa nostra” non ha pensato che era arrivato il momento di chiudere a colpi di bombe quella partita assai pericolosa. Soffrì non poco, Falcone, per gli incivili attacchi scagliati contro di lui, rovesciando la verità, insultando i pentiti, descrivendo un magistrato integerrimo come orditore di trame politiche in nome di una giustizia presentata come un inaffidabile centro di potere. Un repertorio di contumelie e di travisamenti che conosco bene. Che ho provato anch’io sulla mia pelle, insieme a tanti colleghi della Procura di Palermo del “dopo stragi”. Che non ci ha mai condizionato, come non aveva condizionato Falcone. Ma che fa male. Spinge alla rabbia ed esaspera. A volte genera quella sottile ma lancinante amarezza che fa velo alla speranza. Di Falcone mi mancano ovviamente la sua amicizia, la sua intelligenza, la sua capacità di insegnare a tutti spirito di servizio e di sacrificio. E poi il fatto che se ci fosse ancora lui a difendere i suoi metodi di lavoro, la lotta contro la mafia sarebbe più facile. Invece, c’è una corrente di pensiero, chiamiamola così, che cerca di imporre in ogni modo, con protervia, una falsità che a forza di ripeterla è diventata – per qualcuno – un luogo comune: la Procura di Palermo del “dopo stragi” avrebbe abbandonato il metodo di Falcone, adottando una strategia sbagliata, tesa a cercare un inesistente terzo livello della mafia, con uso e abuso dei “pentiti” e di una figura duttile e ambigua come il “concorso esterno” nel reato di associazione mafiosa. La verità delle cose ( che però interessa sempre meno, soprattutto da quando vengono sempre più massicciamente applicate, anche ai temi della giustizia, tecniche pubblicitarie di sofisticato imbonimento) è ben diversa. Alla figura del “concorso esterno” il pool di Falcone fece ampio ricorso, come dimostra – fra i tanti esempi possibili – un passo centrale dell’ordinanza-sentenza conclusiva del “maxi – ter” (17 luglio 1987), là dove si sostiene che “manifestazioni di connivenza e di collusione da parte di persone inserite nelle pubbliche istituzioni possono – eventualmente – realizzare condotte di fiancheggiamento del potere mafioso, tanto più pericolose quanto più subdole e striscianti, sussumibili – a titolo concorsuale – nel delitto di associazione mafiosa. Ed è proprio questa ‘convergenza di interessi’ col potere mafioso…che costituisce una delle cause maggiormente rilevanti della crescita di Cosa Nostra e della sua natura di contropotere, nonché, correlativamente, delle difficoltà incontrate nel reprimerne le manifestazioni criminali”. Secondo un altro, non meno falso, luogo comune, nella più recente stagione si sarebbe smarrito il “rigore della prova”, tipico invece del pool di Falcone. Ma anche qui, basterebbe leggere i provvedimenti relativi ai vari maxiprocessi per rendersi conto che l’architrave del solidissimo lavoro del pool era la cosiddetta “convergenza del molteplice” a riscontro delle dichiarazioni dei “pentiti”, vale a dire che gli elementi probatori a carico di ciascun imputato non erano certamente più consistenti di quelli che – in questi ultimi tempi – sono stati spesso ritenuti non sufficienti per affermare la responsabilità di vari imputati “eccellenti” accusati di collusione con la mafia. Il vero obiettivo di questa speciosa ed inconsistente contrapposizione tra “metodo Falcone” e metodo del periodo “dopo stragi” in realtà è proprio il metodo Falcone, un metodo di lavoro che le stragi del ’92 volevano cancellare per sempre col sangue e che invece è stato ripreso anche dopo, nonostante la strategia di “normalizzazione” che avanza tutte le volte che si profila un’effettiva volontà dello Stato di recidere le collusioni fra mafia e pezzi della politica.


Gian Carlo Caselli è Magistrato