[di Maria & Elisa Marotta • 24.01.04] (Giugno 2003) - Dopo ore di fila sotto un sole cocente durante la vernice della 50.ma Biennale d’Arte di Venezia, ai Giardini, è valsa proprio la pena  di sudare  e di inquietarsi per poter entrare nel padiglione di Israele. Certamente è stato tra i più interessanti e ed ha riscosso grande successo presso il pubblico come presso la critica. In linea con la tendenza dominante della 50.ma  Biennale, il padiglione israeliano ha ospitato un’esposizione monografica di Michal Rovner che ha occupato con le sue opere sia i due piani all’interno dell’edificio sia i suoi muri esterni, con un’opera/percorso intitolata «Against Order? Against Disorder?»...

ARTE E MEMORIA. DI QUA E DI LA’ DEL CONFINE

(Giugno 2003) – Dopo ore di fila sotto un sole cocente durante la vernice della 50.ma Biennale d’Arte di Venezia, ai Giardini, è valsa proprio la pena  di sudare  e di inquietarsi per poter entrare nel padiglione di Israele. Certamente è stato tra i più interessanti e ed ha riscosso grande successo presso il pubblico come presso la critica. In linea con la tendenza dominante della 50.ma  Biennale, il padiglione israeliano ha ospitato un’esposizione monografica di Michal Rovner che ha occupato con le sue opere sia i due piani all’interno dell’edificio sia i suoi muri esterni, con un’opera/percorso intitolata «Against Order? Against Disorder?», articolato in quattro tappe: Wall Text; More; Data Zone; Time Left.
A distanza di tempo, si possono rivivere le emozioni suscitate dai lavori dell’artista, raccontando l’impatto visivo che si è avuto? Forse sì, se pensiamo che ogni anno celebriamo il giorno della memoria di quella crudele strage che fu la Shoà. Soprattutto, se non ci limitiamo alle sole parole. L’arte è uno strumento formidabile per mantenere presente il passato.
Nel Padiglione israeliano si entrava in pochi perché le installazioni di Michal Rovner hanno bisogno di attenta lettura e concentrazione totale, ma soprattutto di silenzio, per la ragione che le sue produzioni sono inquietanti ed ossessive , di elevato spessore artistico.I video esprimono un’intensità efficace coinvolgente che crea la tensione giusta per partecipare al progetto «Time Left» che immerge il fruitore in uno spazio totalizzante. In un primo momento, si resta sconcertati: ci siamo guardate in faccia e a segni ci siamo interpellate: «Ma cosa vogliono dire queste strisce grigie sul muro? Sembra una casacca di ergastolani!».
Poi… il tuffo al cuore, un’emozione grandissima nel rilevare che quelle strisce erano formate da tanti “omini” in movimento!Tutto lo spazio  circondato a 360° da segni allineati, come scritture antiche, geroglifici, in realtà  è un’interminabile sequenza di piccole figure in fila indiana. Esseri senza definizione, tutti uguali, asessuati, omologati, uniti in questa immensa diaspora. Scorrono come un testo senza soluzione di continuità, un testo che aldilà delle intenzioni non può non rammentare la millenaria questione ebraica.
Soprattutto la Shoà. Il silenzio s’impone, la gente ammutolisce di fronte alla grande capacità significativa. «La riduzione dei particolari dà all’opera una potenza grafica nella quale le immagini sono spogliate di qualsiasi identità», così si esprime il curatore nella presentazione in catalogo. La stessa potenza grafica che pone l’opera al di fuori di qualsiasi rimando temporale e spaziale. Anche la tecnica è perfetta; sappiamo che le riprese per i video sono state effettuate in Russia, Romania, Israele, ma nessun particolare rivela il luogo come nessun particolare rivela il perché. Però l’immagine d’origine è una fotografia in bianco e nero, sulla quale l’artista è intervenuta, eliminandone i dettagli e l’identità così che le figure sono ridotte a poco più di sagome e lo sfondo si è dissolto in un bianco completo. Questi “omini” senza identità sono simili alle grandi migrazioni suicide dei lemming (grossi roditori della zona settentrionale dell’emisfero boreale), instancabili moltitudini si muovono inesorabili e descrivono sulle pareti pagine da leggere come nuove realtà che l’artista ha accuratamente selezionato. Sempre di selezione si tratta, ma una selezione più scientifica e incontrollabile quella che ispira la ricerca molecolare che vede il riprodursi in «capsule di Petri» (scatola di vetro rotondo usata per colture di microrganismi) di colonie mutanti o clonate di nuovi esseri simili ai primi e già pronti per nuove migrazioni. Data Zone esprime un’indagine che va al di là della riproduzione molecolare, sfocia nella interiorità umana e nei meandri oscuri della psiche.Osservando e commuovendosi dinanzi all’arte di questa giovane artista israeliana cui è stato concesso lo spazio intero del Padiglione, cosa questa che succede pochissime volte, ti vengono in mente i versi sofferti di Samuel Beckett: «Sulla faccia della terra. Di quello che non è mai stato. E se per sfortuna qualcosa rimane vai di nuovo. Ancora per sempre. Avanti. Finché non c’è traccia. Sulla faccia della terra. Invece di sempre allo stesso posto. Sfiancandosi per sempre nello stesso posto. A questa o quella traccia. E se l’occhio non potesse? Non più staccarsi da ciò che rimane della traccia. Di quello che non è mai stato. Veloce di’ che tutto d’un tratto può e addio di’ di’ addio. Soltanto alla faccia. Della sua tenace traccia». (Samuel Beckett, Ill seen Ill said, London 1981, p. 52).

Più analiticamente, sul muro esterno:
in  «Wall Text» gli uomini in miniatura sono stampati sull’intonaco in più file sovrapposte e compongono una scritta (come indica il titolo stesso) fatta di segni incomprensibili. Mordechai Omer, (commissario e curatore del padiglione, come pure direttore del Tel Aviv Museum of Art) li assimila a geroglifici egiziani e ai manoscritti del Mar Morto.
In «More», vi è un circolo di piccoli uomini ammassati e visti dall’alto. Essi ruotano ammucchiati, e, tutto d’un tratto sciamano velocemente verso l’esterno del rettangolo proiettivo. Poi le piccole figure confluiscono nuovamente dai margini verso il centro e ricompongono il mucchio rotante e informe. L’artista parla a questo proposito di “una fatica di Sisifo nella quale le figure si disperdono creando ordine e disordine”. Intervenendo sull’immagine video eliminando gli elementi descrittivi: gli omini, privati delle caratteristiche individuali, vengono colti nei movimenti grossolani e negli spostamenti collettivi, divenendo unità semplici di una collettività mobile. La ripetitività delle fasi di convergenza al centro, rotazione e fuga verso l’esterno, ottenuta mediante un semplice comando di ripetizione loop dei file che regolano l’immagine, così come l’osservazione dall’alto di questo brulicare e agitarsi anonimo, dà uno stordimento: t’accorgi che c’è pietà, non  disprezzo per un vano e illusorio gesticolare, per la piccolezza della presenza umana nel cosmo, c’è invece una commossa partecipazione al dramma sociale dell’uomo; la ricerca di una sintesi visiva, quasi un archetipo, del suo agire. In questo senso la Rovner riflette più di chiunque altro sull’attrazione conflittuale che ogni contesto sociale rappresenta per l’individuo.
In «Data Zone», che è il  nucleo del progetto e principale novità nella ricerca dell’artista, in un ambiente da laboratorio, su tavoli bianchi, sono inserite venticinque tonde piastrine di coltura. Dentro le capsule i soliti piccoli uomini, visti dall’alto, si muovono. Ogni piastrina ha caratteristiche diverse: in una piccole file di uomini procedono in percorsi sinuosi e s’intrecciano tra loro come nelle immagini microscopiche dei batteri; in un’altra è un caotico brulicare e un continuo mutamento dei punti di addensamento e di rarefazione; altrove piccole file si agitano nelle loro componenti rimanendo ferme sul posto. C’è qui un molteplice livello di drammaticità: l’ostentato distacco, la pretesa di oggettività è in realtà una ricerca altrettanto affannosa  dell’artista, che è parte di quell’agitarsi dei piccoli uomini sotto-vetro. Anche lo spettatore che si aggira per i tavoli e si piega a guardare nelle capsule di Petri ne viene catturato. Molti hanno parlato a proposito di quest’opera, di bio-tecnologia: sicuramente c’è pure la bio-tecnologia, ma non è che un aspetto, forse estremo, di questa ampia, frenetica ricerca. «Time Left» conclude il percorso espositivo. In una sala quadrata e buia, le quattro pareti sono tappezzate di immagini proiettate: gli omini questa volta sono ripresi frontalmente, uno accanto all’altro su un fondo bianco, creando strisce nere orizzontali. Fermi sul posto si agitano muovendo le braccia, le gambe, la testa e il corpo.La precisione con cui le proiezioni coprono le quattro pareti dalla base al soffitto e l’esattezza con cui si congiungono agli angoli in una perfetta continuità, danno la sensazione di una carta da parati dai motivi decorativi mobili. Dice Mordechai Omer: «Come artista israeliana che vive in America e crea la sua arte da immagini riprese in Russia in Israele e in altre parti del mondo, Rovner attraversa le frontiere nazionali e crea ciò che ella chiama “nuove realtà” da nazioni e situazioni politicamente esplosive».In altre parole, Michal Rovner travalica le frontiere per creare nuove realtà per la rifondazione della storia dell’umanità. Si parte da una riflessione sulla diaspora per arrivare ad indagare la psiche umana. Senza riferimenti spazio temporali.Nel più perfetto silenzio…

CHI E’
Michal Rovner è nata nel 1957 a Tel Aviv e attualmente vive e lavora sia a New York che  a Tel Aviv. Nel 2002  il Whitney Museum di New York le ha dedicato una grande retrospettiva . Rammentiamo altre importanti mostre personali e interventi site- specific: al Lincoln Center Festival di New York e al Barbican Theater di Londra (nel 2002) in collaborazione con Philipp Glass; al Kemper Museum of Contemporary Art, Kansas City (2001); Overhang in collaborazione con Deitch Projects, Chase Manhattan Bank, New York (2000); Overhanging, allo Stedelijk Museum, Amsterdam (1999); alla Tate Gallery, Londra (1997) e partecipazioni alle collettive (recenti e selezionate): War (What is it Good For?); Museum of Contemporary Art, Chicago (2003); The Endurance of Art. Westport Arts Center, Westport (2002); Exposure: Recent Acquisitions, Tel Aviv Museum of Art (2000); Zero-G: When Gravity Becomes Form. Whitney Museum of American Art at Champion (1999); Apposite Opposites: Photography from the MCA Collection, Museum of Contemporary Art, Chicago (1999); Animal. Anima. Animus. Poori Art Museum, Finland, P.S.1, New York (1999). In Italia ha esposto per la prima volta allo Studio Stefania Miscetti di Roma nel 1998. Michal Rovner si considera un’artista nomade, il cui percorso inizia in Israele negli anni Ottanta, ma l’affermazione sulla scena internazionale avviene nei primi anni Novanta, dopo il trasferimento a New York, che rimane tuttora la sua “seconda base” dopo la sua casa nel deserto nei pressi di Tel Aviv. Il “nomadismo”, lo “spostamento” nelle zone di confine e nei territori incerti sono i temi che affronta e che danno una forte impronta all’immaginario visivo che crea. E’ un immaginario popolato da figure dai lineamenti spesso irriconoscibili, ombre e sagome umane e animali, che evocano atmosfere  estremamente poetiche e drammatiche allo stesso tempo. Queste zone di confine sono per la Rovner i luoghi dove si è più consapevoli della fragilità dell’esistenza umana, il tema centrale del suo lavoro, ed è per questo che le figure appaiono prive di un’identità definita, in modo da sembrare più universali e vicine a tutti. Anche lei, come ebrea, celebra il  Giorno della Commemorazione dei Martiri e degli Eroi della Shoà (Olocausto), meno di una settimana dopo la Pasqua, quando il popolo d’Israele è in comunione con la memoria dei sei milioni di martiri del popolo ebraico che perirono per mano dei nazisti durante la Shoà. Anche lei partecipa ai riti tradizionali di lutto pubblico. In questo giorno, viene fatta suonare una sirena alle ore 10.00 e il paese osserva due minuti di silenzio, impegnandosi “a ricordare, e a far ricordare ad altri perché non dimentichino mai”. Michal Rovner lo fa con le sue terribili opere.