[Ettore Masina • 05.05.05] Un cretino (uno di quei giornalisti che si infiammano di orgoglio ferito se il direttore del giornale cui collaborano non gli pubblica immediatamente l'articolo che gli hanno inviato) ha scritto che, "dopo tutto", la punizione inflitta da Ratzinger a Leonardo Boff fu "una tazzina di caffè al termine di un loro colloquio" e la proibizione di rendere pubblici i suoi scritti "per il periodo di un anno": amabili quisquiglie....

ETTORE MASINA. «IMMAGINI DELLA CHIESA»

Un cretino (uno di quei giornalisti che si infiammano di orgoglio ferito se il direttore del giornale cui collaborano non gli pubblica immediatamente l’articolo che gli hanno inviato) ha scritto che, “dopo tutto”, la punizione inflitta da Ratzinger a Leonardo Boff fu “una tazzina di caffè al termine di un loro colloquio” e la proibizione di rendere pubblici i suoi scritti “per il periodo di un anno”: amabili quisquiglie.
 
Che in realtà si sia trattato dell’ordine di mantenere “un obbediente silenzio per un tempo indeterminato”, quel tizio non lo dice; che per un intellettuale il divieto di dialogo con i suoi simili possa risultare soffocante sino all’intollerabilità  quel tizio non lo sospetta, tutto essendo fuorché un uomo di cultura. Che poi il caso Boff sia soltanto uno dei tanti casi in cui teologi di fama e di fede sono stati colpiti dall’ex (ma non troppo) Sant’Offizio durante la gestione Ratzinger, sempre quel tizio lo tace.
 
Tuttavia credo anch’io che non si debba negare la speranza che il nuovo pontificato possa essere ben altro che la continuazione di un’attitudine inquisitoria. Non mancano nella storia della Chiesa esempi, commoventi, di mutamento radicale in uomini travolti da nuove responsabilità pastorali. Il vescovo più santo della ma generazione, quello che ha accettato di morire per difendere i diritti e le speranze dei poveri, monsignor Romero, da semplice monsignore e poi da vescovo ausiliare di San Salvador era ossessionato dal comunismo, che gli pareva nascosto in ogni “ribellione” sociale.
 
E colgo anch’io con gioia alcuni primi atti che mi paiono di buon auspicio: nello stemma del nuovo papa la tiara, simbolo regale, è stata sostituita, per la prima volta nella storia pontificia dalla mitria, simbolo vescovile, quasi a sottolineare che Benedetto XVI promette un’accentuazione della collegialità episcopale; nei suoi primi contatti con la folla egli ha usato più volte la parola “amici”, inedita nel linguaggio papale; nel suo terzo discorso ha finalmente parlato di pace come di un dono di Dio da preservare; la sua sollecitudine nei confronti del problema dell’ecumenismo è sembrata sincera; e se mi è parsa assai inquietante la sua intenzione di “rileggere” il Concilio, non posso negare che la frase può essere interpretata anche in senso positivo.
 
Ciò che maggiormente mi è piaciuto è stato il rifiuto di Benedetto XVI di annunziare un suo programma, il suo programma volendo essere – ha detto – quello dell’obbedienza allo Spirito Santo: una svalutazione, si direbbe, delle tendenze burocratiche e centraliste della Curia Vaticana.

 
IN CAMMINO

Se davvero si lascerà guidare dallo Spirito Santo (in “silenzio obbediente” quando non avesse la certezza di certe parole o decisioni), Benedetto XVI non potrà non andare, con tenerezza e sollecitudine, alla ricerca di quella grandissima parte del popolo di Dio che non ha potuto partecipare se non davanti ai televisori (o soltanto davanti alle radio; o, in alcuni luoghi della Terra, soltanto attraverso le notizie portate da qualche “cittadino”) alle solennissime liturgie per i funerali del suo predecessore e per il proprio ingresso nel servizio ai servi di Dio.
 
Personalmente sono stato profondamente affascinato da quei riti. Ho sempre amato la liturgia, questo tentativo umano di lodare il nostro Creatore, presentargli le nostre suppliche, cercare d’intenderne la Parola. Soffro per certe messe la cui celebrazione appare una stanca ripetizione di formule e di atti, le letture affidate a velocisti, i canti spesso letterariamente e teologicamente banali e dal punto di vista musicale simili a certe canzoncine dei film di Walt Disney; in cui il silenzio viene considerato pericoloso.
 
Penso che, almeno in Italia, salvo nobilissime eccezioni, la riforma liturgica si sia ridotta all’abolizione del latino. Turoldo e Ravasi hanno consegnato alla Chiesa italiana testi bellissimi; vengono scarsamente usati nelle nostre buone parrocchie. C’è voluto un papa polacco, che è stato anche un eccellente poeta, perché, tre o quattro anni fa, ci si rivolgesse al nostro maggiore poeta, Mario Luzi, per la composizione di testi per la Via Crucis al Colosseo: forse i vescovi italiani non lo avevano mai sentito nominare. Eppure, io credo, ogni popolo e ogni generazione dovrebbero essere chiamati a elaborare simboli dell’amore unificante di Dio. È vero che la Curia vaticana si è distinta, dalla fine del Concilio in poi, nello stabilire lacci e laccioli contro la creatività, ma è certamente  anche vero che, in attesa che il nuovo papa ne rimuova qualcuno, non si possono assumere queste difficoltà come alibi a certe sciatterie.

 
QUEL VENTO CHE SCOMPIGLIA

Dunque dicevo che sono stato affascinato dalle liturgie vaticane. Alcuni simboli mi sono sembrati stupendi: penso a quel vangelo deposto sulla bara di Giovanni Paolo II e al vento che lo ha sfogliato, quasi leggendolo; e poi lo ha chiuso, come a dirci. adesso tocca a voi. E mi ha commosso, questa volta dal punto di vista estetico, anche qualche elemento più propriamente profano: la solennità delle processioni e di nuovo il vento che scompigliava le vesti rosse dei cardinali, come di certi personaggi del Pontormo.
 
Riscoprivo, ancora una volta, la raffinatezza della cultura cattolica europea, la capacità tutta “romana” di avere assorbito usi e costumi da molte civiltà e di averne fatto un corpus unitario di straordinaria efficacia, tale da portare l’animo dei piccoli a un deliziato stupore, così come l’oro di certe chiese barocche che alle inquietudini dei cuori in ricerca risponde: guarda quanto è grande la gloria del Signore, abbandònati ad essa, senza resistere né dubitare.
 
Ma d’un  tratto per me l’incanto si è rotto. I diaconi stavano leggendo il vangelo della messa di insediamento e papa Ratzinger, il bel volto assorto, stava in piedi, eretto, ascoltando. La sua mitria era dorata, dorato il suo splendido piviale e d’oro (o pareva) la croce astile che reggeva con la destra. All’improvviso ho pensato: sembra l’El Dorado, il mitico re amerindio invano ricercato dai conquistadores assatanati dalla fame di ricchezza; e disposti per trovare la sua città lastricata d’oro a torturare ferocemente e uccidere, come testimonia Bartolomé de las Casas, migliaia e migliaia  di innocenti. E mi sono domandato: ma Gesù di Nazaret è qui?

 
RICORDI

Io non ho risposta a questo interrogativo se non, per così dire, “laterale”, nel senso che so bene dove ho sentito presente, con assoluta certezza, il Signore che i cristiani invocano. Eravamo, mia moglie Clotilde ed io, con un gruppo di amici, in Brasile, a Recife, e una domenica fummo invitati a partecipare alla liturgia di una comunità cattolica poverissima, quella del barrio (=quartiere) di Nossa Senhora de Conceipcâo.
 
Era una delle tante parrocchie su cui si era abbattuto il furore del successore di dom Helder Camara, convinto che dom Helder avesse seminato eresie e comunismo. Un sacerdote che era (ed è tuttora) consulente liturgico della Conferenza dei vescovi brasiliani evangelizzava i 20 mila favelados in maniera che a Sua Eccellenza l’arcivescovo José Cardoso Sobrinho sembrava sovversiva. Il sacerdote era stato rimosso, nella baraccopoli costruito, a tempi di record, con enormi spese, un santuario mariano.
 
L’arcivescovo aveva ordinato la chiusura della baracca in cui i fedeli da anni si radunavano per la messa. La favela non si era arresa: il nuovo parroco aveva dovuto fare il suo ingresso protetto da un centinaio di poliziotti. Il santuario, per impulso dell’arcivescovo, era divenuto meta di pellegrinaggi, ma nessun favelado vi era mai entrato. La chiesa-baracca continuava a funzionare da cappella; il mercoledì e la domenica la gente continuava a radunarsi per un “servizio della Parola”, diretto da uomini e donne formati, negli anni precedenti, dai “laboratorî” teologici  di dom Helder. Si leggeva e si meditava la Bibbia; si cantava, si pregava. Poiché non v’era più sacerdote, non si poteva celebrare la messa ma, ci spiegò una giovane, “elemosiniamo l’eucarestia da preti che sono solidali con noi”. In altri termini, v’erano sacerdoti che donavano alla favela ostie consacrate.
 
La mattina in cui partecipammo al rito, l’assemblea era presieduta da una donna e da un uomo, Roberta e Reginaldo, vestiti di una tunica verde. Raccontarono di avere visitato recentemente altre comunità cristiane in favelas anche più povere della loro (impossibile per noi immaginarle) e di averne tratto grandi speranze per l’impegno generoso di tante e tante persone che lottavano per ottenere, per sé e per gli altri, giustizia e dignità. Roberta predicò dicendo che nessuno deve vergognarsi della propria origine e condizione. La gente può cambiare la propria sorte; non è vero, disse, che la favela condanni inesorabilmente alla prostituzione, all’emarginazione. “Insieme possiamo cambiare il nostro destino con l’aiuto del Signore; e quando cambiamo il nostro destino, cambiamo anche il mondo”. Poi la gente cominciò a cantare: “Dalla Bibbia che vive nel popolo nasce un mondo nuovo…”. E cantava, suonando lietamente tamburi e muovendo passi di danza: Menina Maria, menino Jesus, carrego un peso de tâo grande cruz, mas gardame o sonho de um mundo de luz… (Bambina Maria, bambino Gesù / porto il peso di una croce tanto grande / ma conservami il sogno / di un mondo di luce…).
 
Mi guardavo intorno e vedevo bambini dai grandi occhi, donne che sembravano vecchie e avevano poco più di quarant’anni, uomini dal volto scavato, madri giovanissime, piedi nudi; e baracche di cartone e di latta e canaletti fognari  a cielo aperto, “Um mundo de luz”? Che la nostra santa Chiesa, pregai, li aiuti in questa ricerca e lotta.
 
Ma improvvisamente una specie di muggito, altissimo, si distese sulla favela. Da due altoparlanti posti sul campanile, il parroco del santuario bombardava la “messa dei poveri” con la registrazione di un rosario,   a un milione di decibel. “Tutte le volte così” mi disse scuotendo il capo con compassione un anziano che stava su una sedia a rotelle.

 
LA CHIESA DEI POVERI

“La Chiesa. quale è e quale vuole essere è la Chiesa di tutti e specialmente la Chiesa dei poveri”. (Papa Giovanni XXIII, discorso dell’11 settembre 1962, a un mese dall’inaugurazione del Concilio Vaticano II).
“…Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: ‘Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli”. (Luca 10,21)

 
Ettore Masina
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