Frasi da delinquenti consumati, di quelle che si sentono nei film. Anche loro erano noti con il soprannome («er patata», «il milanese» e «zippo») e dettavano legge, anche usando coltelli a serramanico se doveva servire a convincere le vittime a consegnare denaro, cellulari, giubbotti e in un caso anche le scarpe, un paio di Nike nuove.
Eppure solo uno dei diciassette componenti della banda di taglieggiatori sgominata è maggiorenne: gli altri sono tutti ragazzini tra i 15 e i 17 anni. Più o meno la stessa età delle loro vittime: almeno 25 quelle accertate dai carabinieri che l’altra notte hanno notificato una ventina di provvedimenti ad altrettanti baby-estorsori sparsi in varie province del nord, oltre che – ovviamente – nel Veronese. Per tre di loro c’è l’obbligo di permanenza in casa (misura restrittiva equivalente agli arresti domiciliari), uno è finito in comunità e un quinto, un extracomunitario, è in stato di arresto perchè si era allontanato dal Comune in cui risiedeva nonostante fosse sottoposto all’obbligo di dimora a Sondrio, ed è stato invece trovato a Casaleone. Per tutti gli altri l’ipotesi di reato è associazione per delinquere finalizzata a rapina, estorsione e tentata estorsione.
Due bande, una a Legnago e una a Bovolone, e un bilancio pesante che potrebbe aggravarsi, soprattutto perchè non si esclude che il gruppo di bulli con testa rasata, cappellino da baseball e bomber griffato possa aver compiuto atti analoghi anche in altre province, con tutta probabilità in quelle in cui vivono alcuni di loro: Ferrara, Trento, Como, Brescia e Sondrio. Si chiama «Number One» l’operazione condotta dai carabinieri di Legnago e coordinata dal capitano Alessandro Manfredini. Prende il nome dalla discoteca che secondo le indagini risulta essere il luogo di ritrovo abituale dei «gaber»: giovani che stanno a mezza strada tra i punk e gli skinheads (uno dei baby estorsori è stato denunciato in passato per istigazione all’odio razziale) e che sono riconoscibili non solo per la testa lucida ma anche e soprattutto per il bomber.
E proprio da un giubbotto e un cellulare rubati a Verona, in piazza Bra, in settembre è partita l’indagine. Un’indagine difficile, soprattutto per la paura da parte delle vittime a denunciare i soprusi, la diffidenza che affonda le radici nel timore di subire poi rappresaglie e ritorsioni per rapine di scarso valore: dieci, venti euro, il cellulare o il giubbotto. Non era l’entità del bottino, insomma, ad essere preoccupante ma piuttosto la sistematicità delle «richieste». Che in qualche caso sono state accompagnate da minacce con coltello alla mano. Una sorta di dipendenza psicologica che ha spinto una delle vittime – l’unico maggiorenne – a diventare l’autista, colui che in macchina portava gli estorsori in trasferta a Cerea e a Casaleone, fuori dai locali abitualmente frequentati dai coetanei: bar, paninoteche e discoteche dove entravano in azione. Strafottenti e sicuri di sé, al punto che non hanno esitato a impaurire con minacce pesanti chi si opponeva al taglieggiamento.
Ma poi qualcosa ha ceduto, e alla paura si è sostituita la consapevolezza. Così in gennaio sono arrivate le prime denunce. Mancavano i nomi: le vittime sapevano solo i vari soprannomi, ma ai militari hanno raccontato come in alcune foto di gruppo appariva qualcuno degli estorsori. E quelle immagini facevano bella mostra di loro sul sito internet del «Number One». Quando l’altra notte i carabinieri hanno iniziato a notificare i provvedimenti, allo sguardo stupito dei genitori è seguito quello di sfida dei ragazzi indagati, la maggior parte dei quali finita la scuola dell’obbligo ha iniziato a lavorare come muratore o falegname. Ragazzi che appartengono a famiglie normali, senza particolari disagi. Ragazzi che guardando gli addebiti non sono riusciti a trattenere un sorriso di sfida. Da bulli.
da “L’Arena” – Sabato 9 Febbraio 2002