[GRILLOnews • 18.09.01]E' uno dei tanti paradossi di questa vicenda pirandelliana e kafkiana che è la lotta per la vita e per la morte tra la mafia e l'umanità, il fatto che da assassinato don Pino Puglisi venga riconosciuto: la sua morte lumeggia (certo: di tragica, gelida luce) la sua vita e la sua azione: si capisce adesso quanto efficace fosse quella tenace costante testarda lotta fatta di piccole cose semplici, di quotidiani gesti netti, di sollecitudine per gli altri, di attenzione ai bisogni concreti; si capisce adesso la vittoria grande che Pino Puglisi aveva costruito giorno per giorno senza impettite parate, senza proclami e senza spot, senza le arti del truccatore e dei tecnici del suono e delle luci; si capisce adesso che nel quartiere Brancaccio un uomo, senza parere, facendo le cose ovvie e minute, stava rompendo il consenso alla mafia, stava organizzando la Resistenza, ogni giorno una barricata, ogni giorno un Gavroche.

ANTIMAFIA: L’ESEMPIO DI GIUSEPPE PUGLISI/2

Il 15 settembre uccisero don Pino Puglisi e ci fecero conoscere la sua lotta e la sua strategia, ci fecero sapere che un prete li aveva sconfitti e umiliati proprio lì, sul piazzale dell’appello. Uccidendolo ci rivelarono un segreto: che saranno gli uomini di pace, quelli del discorso della montagna, che spezzeranno la dittatura mafiosa.Un estratto da: Umberto Santino, Storia del movimento antimafia – Il 15 settembre 1993 nel quartiere Brancaccio, roccaforte storica della mafia, veniva ucciso il parroco della chiesa di San Gaetano, Giuseppe Puglisi. L’omicidio arriva dopo una serie di intimidazioni, di minacce per telefono e attentati incendiari. Alla fine di maggio era stato incendiato un furgone dell’impresa Balistreri di Bagheria che aveva vinto l’appalto per la ristrutturazione della chiesa (i mafiosi considerano l’imprenditore un intruso). Alla fine di giugno era stato appiccato il fuoco alle porte delle case di abitazione di tre rappresentanti del comitato intercondominiale del quartiere. Alle minacce padre Puglisi aveva risposto con serenità nelle sue prediche in chiesa: “Parliamone, spieghiamoci, vorrei conoscervi e sapere i motivi che vi spingono a ostacolare chi tenta di aiutare ed educare i vostri bambini alla legalità, al rispetto reciproco, ai valori della cultura e dello studio”. La sua azione nel quartiere era discreta ma decisa, senza scoop ma continua. “Questa è la borgata più dimenticata della città -diceva-. Non ha una scuola media, niente asilo e nemmeno consultorio o centro sociale comunale” e si dava da fare per dotare il quartiere di quei servizi elementari, formando un comitato, scontrandosi con la burocrazia comunale. Aveva creato il Centro sociale “Padre nostro”, in cui operavano alcune suore e dei volontari. Questo impegno quotidiano, poco appariscente ma instancabile, lo ha portato a scontrarsi con il dominio mafioso, che si è sentito messo in discussione, scalzato, e per imporsi ha fatto ricorso all’ assassinio. Padre Puglisi, rispetto ai cosiddetti “preti antimafia”, si potrebbe definire un moderato, un prete all’antica che per la serietà del suo impegno si è trovato in prima linea e davanti agli ostacoli più pericolosi non è retrocesso di un millimetro. Una figura simile a quella di monsignor Romero, il vescovo salvadoregno inizialmente spoliticizzato che poi si è opposto con tutto se stesso alle violenze degli squadroni della morte fino al sacrificio della vita. La reazione suscitata dall’omicidio di padre Puglisi è stata intensa ma tutto sommato inadeguata. Alcuni preti hanno scritto al Papa chiedendogli “un forte segno della sua presenza tra noi come conferma e guida in questo cammino difficile ed ogni giorno più rischioso”, ma il Papa non è ritornato, se non due anni dopo per il convegno nazionale delle chiese tenutosi a Palermo nel novembre del 1995. Si può dire che, al di là dell’emozione del momento, non si è colta la valenza del delitto, che era rivolto contro quel tipo d’impegno, vissuto quotidianamente in contatto con il territorio, quindi non solo contro gli uomini di Chiesa più attivi ma contro tutta la società civile. La Curia non si è costituita parte civile al processo, e non lo hanno fatto neppure la parrocchia e il Centro “Padre nostro”. Hanno tentato di costituirsi parti civili alcune associazioni ma la loro richiesta è stata respinta.[Estratto da Umberto Santino, Storia del movimento antimafia, Editori Riuniti, Roma 2000, pp. 307-308. L’autore, fondatore e direttore del Centro Impastato di Palermo, è il più importante studioso della mafia ed uno dei principali protagonisti del movimento antimafia]. Un estratto da: Saverio Lodato, Dall’altare contro la mafia. – Sembrava (…) che nessun potere avrebbe mai avuto il coraggio di sfidare i clan di Brancaccio, sin quando nella parrocchia di san Gaetano, al centro della borgata, non giunse un parroco apparentemente piccolo piccolo. Si chiamava Pino Puglisi. Don Pino è stato l’unica autentica spina nel fianco, per boss che non avevano mai incontrato sul loro cammino un oppositore vero, uno che avesse il coraggio di guardarli negli occhi. Ho già avuto modo di dirlo: per noi giornalisti, sino al giorno della sua tragica scomparsa, don Pino Puglisi era un illustre sconosciuto. Non avevamo idea di quanto fosse prezioso il lavoro sotterraneo che stava conducendo in una delle borgate a più alta densità mafiosa di tutta la città. Non lo tenevamo d’occhio perché raramente aveva fatto parlare di sé e mai aveva fatto notizia. (…) Chi era veramente quel prete apparentemente piccolo piccolo? Testimonianze ne ho raccolte tante, e sono concordanti. Tutti quelli che lo hanno conosciuto lo descrivono come umile, dolcissimo, ma anche capace di usare il pugno di ferro. Non accettava imposizioni. Rifiutava le situazioni ambigue giustificate da una lunga pressi che nessuno, prima di lui, aveva osato mettere in discussione. Si ribellava, con lo stesso spirito combattivo, sia alle spaventose condizioni di vita degli abitanti della sua parrocchia, sia a tutti quei gruppi organizzati che, a vario titolo, avevano interesse al mantenimento della palude. Era giunto a Brancaccio nel 1990. Nei tre anni trascorsi alla guida di san Gaetano non fece mai nulla per mantenere le vecchie regole del gioco. Fece di tutto per sovvertirle. [Brani estratti da Saverio Lodato, Dall’altare contro la mafia, Rizzoli, Milano 1994, pp. 133-135. Questo libro è opera di uno dei giornalisti che più hanno contribuito ad una informazione corretta ed alla lotta contro il potere mafioso; Lodato è autore tra l’altro di un libro molto noto, cronaca giornalistica che si avvicina alla storiografia, che nella sua più recente edizione aggiornata si intitola Venti anni di mafia, Rizzoli, Milano 2000.Nell’introduzione di Dall’altare contro la mafia, Lodato scrive (alle pp. 12-13): “Questo libro che avete appena cominciato a leggere parlerà solo di un delitto: l’uccisione di padre Pino Puglisi, parroco della borgata Brancaccio a Palermo”]. Luigi Ciotti: La parabola di don Pino – “Entrato nella città di Gerico, Gesù la stava attraversando” (Lc 19, 1). Gesù percorreva quelle strade attento non soltanto a incontrare la folla che gli era attorno, ma anche chi, a causa della ressa, non riusciva a vederlo: Zaccheo. Un Gesù che attraversa le strade del suo tempo è, probabilmente, il più bel ricordo di don Giuseppe Puglisi ucciso a Palermo esattamente un anno fa, nel giorno del suo compleanno. Lo hanno ucciso in “strada”. Dove viveva, dove incontrava i “piccoli”, gli adulti, gli anziani, quanti avevano bisogno di aiuto e quanti, con la propria condotta, si rendevano responsabili di illegalità, soprusi e violenze. Probabilmente per questo lo hanno ucciso: perché un modo così radicale di abitare la “strada” e di esercitare il ministero del parroco è scomodo. Lo hanno ucciso nell’illusione di spegnere una presenza fatta di ascolto, di denuncia, di condivisione. Ricordare quel momento significa non soltanto “celebrare”, ma prima di tutto alzare lo sguardo, far nostro l’ impegno di don Giuseppe, raccogliere quell’eredità con la stessa determinazione, con identica passione e uguale umiltà. Cosa ci ha consegnato don Giuseppe? Innanzitutto il suo modo di intendere e di vivere la parrocchia, di essere parroco. Non ha pensato, infatti, la parrocchia unicamente come la “sua” comunità di fedeli, come comunità di credenti slegata dal contesto storico e geografico in cui è inserita. L’ha vissuta, prima di tutto, come territorio, cioè come persone chiamate a condividere uno spazio, dei tempi e dei luoghi di vita. Per partecipare alla vita di chi gli era vicino ha accettato di percorrere e ripercorrere le strade del rione Brancaccio. Ha vissuto la strada -quella strada che Gesù ha fatto sua- come luogo di povertà, di bisogni, di linguaggi, di relazioni e di domande in continua trasformazione. L’ha abitata così e ha tentato, a ogni costo, di restarvi fedele. In altre parole, ha incarnato pienamente la povertà, la fatica, la libertà e la gioia del vivere, come preti, in parrocchia. Con la sua testimonianza don Pino ci sprona a sostenere quanti vivono questa stessa realtà con impegno e silenzio. Non il silenzio di chi rinuncia a parlare e denunciare, ma quello di chi, per la scelta dello “stare” nel suo territorio, rifiuta le passerelle o gli inutili proclami. “Beati i perseguitati a causa della giustizia perché di essi è il Regno dei cieli” (Mt 5, 10). Anche questo ci ha consegnato don Giuseppe: una grande passione per la giustizia, una direzione e un senso per il nostro essere Chiesa e soprattutto un invito per le nostre parrocchie ad alzare lo sguardo, a dotarsi di strumenti adeguati e incisivi per perseguire quella giustizia e quella legalità che tutti, a parole, desideriamo. Per questo don Giuseppe è morto: perché con l’ostinata volontà del cercare giustizia è andato oltre i confini della sua stessa comunità di credenti. “Entrato in casa di uno dei capi dei farisei, Gesù…” (Lc 14, 1). Ecco un altro aspetto ricco di significati. Al di là dei princìpi o delle roboanti dichiarazioni ciò che conta è la capacità di viverli e di praticarli nella quotidianità. Don Puglisi non è stato ucciso perché dal pulpito della sua chiesa annunciava princìpi astratti, ma perché ha voluto uscire dalla loro genericità per testimoniarli nella vita quotidiana, dove le relazioni e i problemi assumono la dimensione più vera. Tre dimensioni, tre consegne e tre aspetti che rendono questa ricorrenza estremamente ricca e significativa. Tre messaggi perché le nostre parrocchie e quanti in esse lavorano possano essere sostenuti con gli strumenti necessari. [Questo testo è apparso dapprima nel quotidiano “Avvenire” il 15 settembre 1994, poi è stato ristampato in Luigi Ciotti, Persone, non problemi, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994, pp. 72-73; da lì lo abbiamo ripreso. Don Luigi Ciotti, come è noto, è il fondatore del Gruppo Abele di Torino, ed il presidente di “Libera”, l’associazione di associazioni impegnate contro la mafia]. (fonte: Centro di ricerca per la pace).