ASPETTANDO IL PEGGIO


I. Una crisi per scherzo?

“Strana guerra” o “guerra per scherzo” (drole de guerre) è l’espressione con la quale l’opinione pubblica francese alludeva alla guerra in corso con la Germania nazista, nel periodo dal settembre 1939 al maggio 1940. Si tratta, come è noto, di un periodo in cui la guerra, formalmente dichiarata fra Germania da una parte e Francia e Inghilterra dall’altra, non viene in pratica combattuta sul fronte franco-tedesco. C’era una guerra ma non c’erano combattimenti, non c’erano né morti né distruzioni. Per qualche mese i francesi poterono illudersi che la drole de guerre avrebbe risparmiato loro le grandi sofferenze della Prima Guerra Mondiale. E’ noto che queste illusioni vennero spazzate via dalla grande offensiva tedesca iniziata il 10 maggio 1940, che portò in breve tempo al crollo della Francia, all’occupazione di Parigi e di larga parte del territorio nazionale, al regime di Vichy e a tutto quello che seguirà.

In questi mesi l’opinione pubblica italiana sembra vivere un’illusione simile. La grande crisi economica mondiale, che è iniziata nel 2007 negli Stati Uniti con la crisi dei mutui subprime, e che è arrivata, nell’autunno del 2008, quasi a distruggere il sistema finanziario internazionale, non è ancora arrivata a incidere sulla vita quotidiana della maggioranza degli italiani, i quali guardano con l’indifferenza di un egoismo ormai generalizzato la minoranza che già ne soffre crudelmente. Alla maggioranza degli italiani la crisi sembra per il momento una “drole de crise”, una strana crisi, una crisi per scherzo.

Siamo convinti che presto dovremo svegliarci da questa illusione. L’attuale crisi è qualcosa di molto serio. Si tratta della fine del ciclo trentennale del capitalismo definito “neoliberista” e “globalizzato”, nato alla fine degli anni Settanta dalla crisi della fase precedente, quella del capitalismo “keynesiano” e “socialdemocratico”. Senza pretendere di sviluppare in questa sede un’analisi approfondita, occorre spendere qualche parola sugli aspetti fondamentali di tale crisi. Il ciclo trentennale (dalla fine degli anni Quaranta alla fine degli anni Settanta) del capitalismo “keynesiano-fordista” si basava sullo sviluppo della produzione di beni di consumo di massa, che aveva bisogno di un aumento effettivo del reddito dei ceti subalterni per creare una domanda solvibile di tali beni. É questa la base del grande compromesso “socialdemocratico” e riformista che ha caratterizzato tale periodo, compromesso per il quale i ceti subalterni rinunciavano ad ogni velleità di superamento rivoluzionario del capitalismo e godevano in cambio di un accrescimento effettivo del proprio livello di vita (aumento del salario reale, diminuzione dell’orario di lavoro, forme svariate di salario indiretto). Tale compromesso entra in crisi con la saturazione dei mercati dei beni di consumo di massa. La crescita dei redditi e dei diritti dei ceti subalterni non è allora più compatibile, come era stato nei trent’anni precedenti, con lo sviluppo capitalistico, e diventa anzi un pericolo per i profitti. La crisi che ne risulta durerà in sostanza per tutti gli anni Settanta, e verrà risolta con il passaggio alla nuova fase “neoliberista” e “globalizzata” del capitalismo. In questa fase l’accumulazione di plusvalore e lo sviluppo capitalistico vengono cercati da una parte, sul lato dei ricavi, dalla vendita di prodotti sempre meno utili, sempre più sofisticati e sempre più bisognosi di un potente sostegno pubblicitario, dall’altra, su lato dei costi, con una progressiva riduzione dei redditi e dei diritti dei lavoratori. In questo modo i margini di profitto vengono ristabiliti, lo sviluppo capitalistico può ripartire, ma a prezzo di una grande crescita delle disuguaglianze sociali, che fa storicamente riemergere uno dei problemi strutturali del modo di produzione capitalistico, quello dell’insufficienza della domanda solvibile per la propria produzione. Sta qui la radice degli sviluppi che hanno portato all’attuale crisi. La risposta alla potenziale crisi della domanda è consistita infatti nello sviluppo del credito, cioè in sostanza nell’indebitamento di massa. E poiché anche questo si è rivelato insufficiente, il capitale, non riuscendo più a valorizzarsi nella produzione, si è riversato nella finanza, il cui sviluppo abnorme è stato il punto di partenza dell’attuale crisi.

Non ci dilunghiamo sui meccanismi di scatenamento della crisi perché sono stati ampiamenti descritti nella pubblicistica. Il punto che vogliamo mettere in evidenza è che, se quanto abbiamo fin qui detto è corretto, l’attuale crisi appare espressione di limiti strutturali dell’attuale forma di organizzazione del capitalismo. D’altra parte, un ritorno alla forma organizzativa precedente, cioè al capitalismo “keynesiano-fordista”, ci sembra difficile. Tale modello di sviluppo si basava su una crescita indefinita dei consumi di massa che non è compatibile con i limiti delle risorse disponibili. E non ci riferiamo qui ai problemi di esaurimento fisico delle risorse, messi in luce da tanta letteratura ecologica. Questi ultimi sono problemi reali, che dovrebbero necessariamente essere al centro della riflessione di una politica attenta al bene comune, ma nel breve periodo non appaiono pressanti: non c’è ancora il problema di una fine rapidissima del petrolio, per esempio. Il problema è che le risorse disponibili sono di sempre più difficile e costosa estrazione, perché ovviamente i giacimenti più economici sono quelli che vengono sfruttati ed esauriti prima. La riproposizione del modello di sviluppo “keynesiano-fordista”, basato su consumi di massa estesi a tutti i paesi industrializzati, si scontrerebbe oggi con il problema economico della lievitazione dei costi delle risorse, prima che con quello ecologico del loro esaurimento fisico.

Non intendiamo dire con questo che siamo di fronte alla “crisi finale” del capitalismo. La storia reale è sempre creativa e imprevedibile, ed è questo che rende la futurologia un’attività poco interessante. É però chiaro che, qualsiasi sia l’esito finale di questa crisi, il passaggio comporterà drammi storici di grande ampiezza [1]. La storia del Novecento è lì a ricordarci, con due guerre mondiali, quali sono i costi umani di grandi passaggi storici nei tempi moderni. Saranno come al solito i ceti subalterni a pagare il prezzo maggiore di queste dinamiche.

L’altro aspetto del mondo contemporaneo foriero di drammi storici di grande ampiezza è quello legato al lento declino dell’egemonia statunitense e al contemporaneo sorgere di potenze che potrebbero, in prospettiva, competere con essa. Il relativo declino economico degli Stati Uniti, il loro passaggio dal ruolo di paese esportatore e creditore a quello di paese importatore e debitore, è uno dei punti cruciali per capire il mondo attuale. Tale passaggio è legato al ruolo, che gli USA hanno assunto, di “compratore in ultima istanza”, di grande mercato per le merci prodotte in tutto il mondo, e in particolare in Cina. Il fatto che gli USA si siano assunti questo ruolo rappresenta, come è evidente, un tentativo di rimuovere la contraddizione rappresentata dalla carenza di domanda nel capitalismo attuale. Questo ruolo nel breve periodo rafforza gli Stati Uniti ma nel medio e lungo periodo li indebolisce. Nel breve periodo li rafforza perché, data la natura del capitalismo contemporaneo, non è facile trovare chi sostituisca gli USA nel ruolo di “compratore in ultima istanza”. Sta qui, a nostro avviso, uno dei motivi del profondo servilismo che i dirigenti europei hanno manifestato in questi anni nei confronti degli USA. Inoltre la posizione di “compratori in ultima istanza” degli USA rafforza il ruolo del dollaro come valuta internazionale, e questo rende più difficile la sfida all’egemonia statunitense. Si è visto in questi mesi come le grandi riserve di dollari accumulate dalla Cina, dovute proprio al ruolo di grande mercato degli USA, rappresentino un vincolo serio per la possibilità di una politica cinese di contrapposizione agli USA: la Cina non può permettersi una caduta di valore del dollaro perché questo farebbe cadere il valore delle sue riserve in dollari.

D’altra parte è chiaro che sul medio e lungo periodo non si può pretendere l’egemonia mondiale in una situazione di indebitamento cronico. La strategia seguita dagli Stati Uniti nella seconda parte della presidenza Clinton, con le due presidenze Bush e con l’attuale presidenza Obama diviene allora chiara: si tratta di sfruttare i vantaggi momentanei di cui attualmente godono gli USA (supremazia militare, ruolo internazionale del dollaro) per acquisire vantaggi strategici che rendano più difficile una sfida seria alla loro egemonia. Uno degli aspetti cruciali di questi vantaggi strategici è il controllo delle risorse energetiche. La politica di Bush, incentrata sul Medio Oriente, e quella di Obama, che guarda piuttosto all’Asia centrale, sono due diverse declinazioni della stessa strategia.

L’essenza della politica statunitense attuale è il controllo egemonico sulle aree strategiche del mondo, in particolare sulle risorse energetiche, come risposta al proprio relativo declino economico. Si tratta di una strategia che non ha nulla da offrire ai popoli che vengono da essa dominati, e che si può realizzare solo attraverso la violenza. L’attuale politica statunitense porta quindi inevitabilmente a guerre e violenze planetarie, e rappresenta oggi il maggior pericolo per il genere umano.

II. L’Italia dentro allo scenario

Per tornare all’Italia, siamo convinti che la crisi, di cui finora hanno crudelmente sofferto molti precari e alcuni settori di operai e piccoli produttori, si farà più generale e devastante. Alla ripresa autunnale ci ritroveremo di fronte alla chiusura di moltissime attività che finora hanno saputo resistere, pur tra difficoltà, e quindi ad un aumento drammatico della disoccupazione. Del resto, l’economia italiana era in affanno già da parecchio tempo, come rilevato da molti studiosi e osservatori [2]. La crisi economica internazionale ha trasformato lo stato di stagnazione della nostra economia in stato di recessione. E, nonostante le voci di rassicurazione da parte di qualche potente, non c’è da sperare nel breve periodo in una ripresa dell’economia internazionale che possa fungere da volano.

Con questo non intendiamo delineare scenari catastrofici, di bancarotta del paese. Lo scenario più verosimile è quello di una lunga stagnazione economica nella quale aumentino povertà e insicurezza, e diminuiscano il livello dei servizi e la qualità della vita per i ceti medi e per i ceti popolari.

Se ora ci chiediamo se vi sia qualche forza politica nazionale all’altezza dei problemi così individuati, la risposta non può che essere totalmente negativa. Per quanto riguarda la crisi economica il centrodestra attualmente al governo non sta in sostanza facendo nulla di significativo, mentre il centrosinistra non mostra di avere idee-forza diverse da quelle del centrodestra.

Non intendiamo spendere qui molte parole sulla sinistra, “moderata” o “radicale”. Ne abbiamo già parlato in vari articoli e libri [3]. Basti dire che giudichiamo la sinistra “moderata” completamente interna, nelle sue azioni e nei suoi slogan, all’attuale organizzazione economica e sociale. La sinistra cosiddetta “radicale” mescola slogan anticapitalistici con una politica effettiva tutta interna al sistema dei partiti, dimostrandosi sempre pronta ad abdicare a tutti i suoi principi se la sinistra “moderata” la include nel governo (come la vicenda dell’ultimo governo Prodi ha definitivamente chiarito a chiunque non sia prevenuto). In questo modo la sinistra “radicale” non fa che incanalare un possibile dissenso antisistemico verso il supporto al sistema dei partiti. La scomparsa progressiva della sinistra “radicale” ci sembra quindi un processo positivo, il superamento di un’ipocrisia, e speriamo che proceda velocemente.

In questo momento ci sembra più interessante spendere qualche parola sulla destra, per l’ovvio motivo che la destra è al governo e sembra godere di un certo consenso, probabilmente non maggioritario nel paese ma sicuramente maggiore di quello della sinistra. La portata di questo consenso, e l’evidente crisi delle opposizioni (con l’unica eccezione dell’Italia dei Valori) potrebbe far pensare alla nascita di quel “regime berlusconiano” che è stato indicato come un pericolo concreto fin dall’ingresso in politica di Berlusconi. Poiché si tratta di un’idea abbastanza diffusa, ci sembra valga la pena di discuterla.

Quale regime

La tesi che intendiamo discutere è quella secondo la quale l’attuale consenso a Berlusconi configurerebbe una situazione nella quale il centrodestra rimane stabilmente al potere mentre il centrosinistra rimane confinato all’opposizione, e questo per un tempo sufficientemente lungo e con effetti così marcati da poter parlare appunto di “regime”. É pure diffusa, a sinistra, l’idea che l’eventuale regime berlusconiano possa avere carattere fascisti, ma si tratta di un tesi priva di riscontri reali, basata su una idea piuttosto nebulosa di cosa sia stato il fascismo, e non ci sembra quindi che valga la pena discuterne. Invece la tesi che ci si stia avvicinando a un “regime berlusconiano”, nel senso di lunga permanenza al potere del centrodestra, in un contesto in cui la conservazione degli istituti della democrazia formale coesista con il consolidamento di forme liberticide di potere, e con la creazione di un blocco sociale che ne rappresenti la base, sembra più realistica e vale quindi la pena di discuterla.

L’obiezione fondamentale a questa tesi è che essa appare in contrasto con un evidente dato di realtà. Infatti, se il regime, anche solo in formazione, coincidesse con il centrodestra, allora il centrosinistra dovrebbe rappresentare l’anti-regime. E, in questo caso, quando il centrosinistra arrivi al potere, dovrebbe sconfessare completamente l’azione del centrodestra, e abrogarne la legislazione. É evidente a tutti che le cose non stanno così, e che vi è una totale continuità fra l’azione, legislativa e governativa, del centrosinistra e quella del centrodestra. Questo del resto vale non solo in Italia ma in tutti i paesi occidentali. Tutti i governi e tutte le forze politiche significative nei paesi occidentali sono completamente subalterne ai vincoli e alle compatibilità del capitalismo globalizzato e dell’impero statunitense. Per tornare all’Italia, ciò significa che, se di regime si deve parlare, si tratta di un regime che coinvolge il centrosinistra tanto quanto il centrodestra. Si tratta cioè del regime di un ceto politico totalmente asservito al modello economico dominante e alle mire geostrategiche statunitensi. Tale asservimento è condizione necessaria per poter svolgere l’unica attività alla quale questo ceto politico sia interessato, cioè la cura dei propri privilegi. Tale ceto politico è stato caratterizzato come Casta. Si tratta di una denominazione impropria, che però usiamo sia perché è entrata nell’uso, ed è una evidente opportunità quella di evitare creazioni individuali di vocaboli contro un uso generalizzato, sia perché è utile per indicare la sostanziale omogeneità degli attuali partiti.

Se guardiamo alla superficie della politica, a quello che ci viene raccontato dai media, l’immagine che ne ricaviamo è di una totale e radicale conflittualità fra le opposte fazioni politiche: polemiche, contrapposizioni, dichiarazioni e controdichiarazioni. Questa conflittualità gridata e amplificata dai media colpisce molti osservatori, che per spiegarla producono elaborate riflessioni sul fatto che in Italia non si sarebbe mai superata la guerra civile del ’43-’45. Si tratta di spiegazioni radicalmente sbagliate, per il banale motivo che esse accettano come un dato reale ciò che realmente è solo un’apparenza. Anche le apparenze vanno spiegate, certo, ma appunto in quanto apparenze. Come abbiamo sopra ricordato, la realtà è che in Italia (come in tutti i paesi occidentali) non esiste nessuna sostanziale differenza fra forze politiche governative di destra e di sinistra nelle scelte economiche e sociali, nella sudditanza alle strategie imperiali statunitensi, nell’adesione a un modello di sviluppo che genera distruzione dell’ambiente, aggressioni imperialistiche, sconquassi economico-finanziari, disgregazione sociale e culturale. Nessuno può mostrare qualche cambiamento decisivo ed essenziale al passaggio da un governo di centrodestra a un governo di centrosinistra, o viceversa [4]. Al di sopra di questo fondo omogeneo, destra e sinistra giocano il loro gioco mediatico di contrapposizioni aspre e dure. Queste contrapposizioni non sono pure menzogne: esiste certamente una differenza fra destra e sinistra su alcuni temi, in particolare quelli legati ai diritti individuali. In estrema sintesi, la sinistra tende ad essere su questi temi più permissiva, la destra più restrittiva. Ma queste differenze non toccano in nessun modo la sostanza delle scelte economiche e geopolitiche dei governi, e vengono smodatamente esagerate appunto per nascondere la sostanziale indistinguibilità di destra e sinistra. Questa immagine di scontro è una apparenza, ma si tratta di una apparenza necessaria per il funzionamento del regime. In una società atomizzata e frammentata un regime unitario sul piano ideologico coalizzerebbe tutti gli scontenti, mentre lo spettacolo mediatico della contrapposizione rappresenta una valvola di sfogo del malessere diffuso.

Quali sono gli effetti del regime della Casta? In questi ultimi dieci o quindici anni è continuata la perdita di diritti e redditi da parte dei ceti subalterni, che è inevitabile all’interno dell’attuale modello economico, i servizi sociali sono peggiorati ed è stata avviata la distruzione di alcuni dei fondamenti della comunità nazionale (scuola, università, sistema giudiziario).

In un momento in cui la crisi economica minaccia un ulteriore, drammatico peggioramento della situazione, è evidente che la Casta non ha né la capacità né l’interesse di prospettare una difesa dei ceti subalterni.Totalmente succube della dinamica sistemica che ha portato alla crisi, del tutto inabile al pensiero, esclusivamente dedita alla difesa dei propri interessi e dei propri privilegi, la Casta non potrà che barcamenarsi cercando unicamente la propria autoconservazione. Questa situazione si prospetta quindi drammatica per il popolo di questo paese. In questo momento la Casta è, sul piano politico, il principale nemico dei ceti subalterni. Liberarsi dalla Casta è dunque il primo fondamentale passo da compiere e l’obbiettivo politico di base per chi voglia difendere gli interessi di tali ceti subalterni [5]…

CLICCA QUI PER PROSEGUIRE LA LETTURA DELL’ARTICOLO