[CRISTINA PICCINO 01.11.04] Affrontare le radici del dolore, per Israele, significa demilitarizzare il «macho», il soldato, l'agente segreto del Mossad, l'uomo «che non deve piangere mai». Così si diventa più forti ed equilibrati e si conquista la pace. Incontro con Eytan Fox, regista progressista di «Camminando sull'acqua», in uscita il 12 novembre...

CINEMA. «CAMMINANDO SULL’ACQUA», CON LA TENEREZZA DEL GUERRIERO

A spiegare le ragioni di Eytan Fox, il rifiuto di far uscire il suo ultimo film in Italia dopo le dichiarazioni di Buttiglione in Europa su gay (ma anche donne, famiglia etc) – rafforzate dal culattoni di Tremaglia – e conseguente «ripensamento», basta appunto il film. Oltre a un’esperienza italiana che nulla ha a che fare con Buttiglione e simili, di Fox è uscito infatti anche il precedente “Yossi&Jagger”, e entrambi i film sono stati ospiti amatissimi del festival con tematiche omosessuali di Torino.

Un altro straordinario esempio di resistenza. “Camminando sull’acqua” (sugli schermi dal 12 novembre, distribuisce la Teodora film) è comunque una magnifica lezione di cinema e di tolleranza, ci dice che occhi, cuore, sensibilità aperti cambiano il mondo in profondità e radicalmente come nessun confine fisico o mentale, nessun pregiudizio, violenza, egotismo potranno mai fare. E ci dice anche che la conoscenza è qualcosa che mette in discussione nel profondo, una cultura emozionale di sensibilità prima che di intelletto. E che la memoria è fondamentale, esige rispetto e chiarezza dunque non può essere manipolata in nessuno modo per modulare parzialmente il presente.
 
Nato a New York, cresciuto a Gerusalemme, oggi a Tel Aviv, da cucciolo inseparabile amico di Eyal Sivan, oggi come lui cineasta di provocazione morbida e lucidità implacabile, figlio di una famiglia radicale, la mamma urbanista – alla quale è dedicato “Camminando sull’acqua” – che supportava difesa e ricostruzione nella pianta di Gerusalemme delle comunità arabe, Eytan Fox incarna una nuova generazione di registi israeliani. Che distillano immagini politiche nella battaglia di un quotidiano personalissimo, in cui però si specchia un possibile spiraglio di futuro.
 
Incontriamo Eytan Fox a Roma insieme al protagonista di “Camminando sull’acqua”, la star israeliana Lior Ashkenazi. Domanda obbligata: “Cosa ti ha fatto cambiare idea sull’uscita italiana?”.

Ho sempre pensato che il dialogo sia più proficuo dell’irrigidimento. La mia reazione di fronte alle dichiarazioni di Buttiglione è stata soprattutto emotiva. Una volta più calmo mi sono detto che “Camminando sull’acqua” è un film sul dialogo e venire qui mi dava molte più possibilità di confrontarmi con la gente, anche con chi potrebbe pensarla come Buttiglione. Inoltre non è un film «gay» – trovo comunque l’etichetta di «genere» molto riduttiva. In “Yossi&Jagger” si raccontava il rapporto amoroso di due uomini che erano anche due soldati. Qui abbiamo un insieme di elementi e di relazioni diversi il cui punto di incontro è l’amicizia profonda che nasce tra due uomini quasi all’opposto, un macho israeliano agente del Mossad e un ragazzo tedesco gay, nipote di un nazista, cambiando le loro vite. In quanto regista gay sento il bisogno di comunicare con il pubblico etero. Mi sembra che il confronto con spettatori diversi possa essere meraviglioso.

Parliamo dei personaggi maschili. Eyal, a cui dà vita Lion Ashkenazi, e Axel (Knut Berger). Da cosa nasce l’idea di questo confronto?

Penso che un uomo come Eyal/Lion sia abbastanza comune in Israele ma anche in Italia. È il macho vecchio stile, molto convinto del proprio ruolo. Mi sono immaginato che un tipo così rimanesse chiuso in una stanza con il suo opposto e che per questo fosse obbligato a venirci a patti. È una situazione drammatica, ed è così che ho cominciato la storia. Il personaggio di Lion rappresenta per me uomini come Sharon, Barak, Netanyahu che hanno creato i problemi di cui soffre Israele oggi. Forse giocare con loro può cambiarli. Il che non significa che devono diventare omosessuali, non è questo che accade neppure a Lion/Eyal. Introdurre però in lui l’affetto per un uomo che rappresenta il nemico, è tedesco, nipote di un nazista, omosessuale vuol dire costringerlo a riposizionarsi sulla vita, sul suo modo di essere.

Cioè?

Lion/Eyal incarna in modo chiaro il prototipo di come deve essere l’uomo israeliano dalla seconda guerra mondiale in poi. Ovvero l’uomo nato da madri che sognano i figli in guerra, nell’esercito, che deve combattere per amore del suo paese. Un uomo che non può piangere, che non deve manifestare le proprie emozioni, che non può avere legami di affetto o di tenerezza con altri uomini. Un uomo che deve essere guerriero. Lo stato di Israele è stato creato su questa tipologia maschile imposta a gente che arrivava da ogni parte del mondo. È lo stato ebraico ma la gente pian piano, all’interno di questa logica, comincia a diventare cieca e non riesce a vedere quanto accade intorno. Quando trent’anni fa la questione palestinese è diventata ancora più urgente non si è voluto vedere. Se c’era chi piangeva in strada, viveva tragedie, soffriva si diceva invece che le cose andavano bene. Oggi i giovani vogliono cambiare. Vogliono vivere la propria vita, uscire di notte, avere relazioni d’amore… Ma non possono. Per me fare film significa dare una scossa a questo stato di cose. È come afferrare per le spalle tutti i Buttiglione del mondo e dirgli: “apri gli occhi, la realtà sta cambiando, e non è solo una questione che riguarda i gay ma tutte le persone al mondo”.

I due estremi del film sono il Mossad, simbolo dell’Israele più militarista, e la memoria tragica dell’Olocausto.

La psicanalisi obbliga a tornare indietro, ai ricordi di infanzia, per fronteggiare in modo diverso il presente e il futuro. Diciamo che rispetto al mio paese ho seguito questo percorso. Israele è una realtà estremamente chiusa nella propria storia. Il centro è l’olocausto, siamo ancora lì. Ma il mondo va avanti, questo non significa che si deve dimenticare piuttosto che è necessario un confronto col presente senza nascondersi dietro al passato. È il senso che esprime nel film il ragazzo palestinese quando rimprovera a Eyal/Lion il fatto che “voi israeliani siete arroccati nel vostro passato”. È un po’ il meccanismo che si mette in atto a ogni attacco terrorista o verso chi non condivide la linea politica di Israele, cosa che oggi significa subito essere antisemiti. Nel nostro paese invece c’è molta gente che si preoccupa della pace, che critica ogni giorno le scelte del governo. Sharon come Arafat sono cresciuti con la guerra. Per questo non sono sicuro che siano le persone più adatte per arrivare alla pace. Ieri abbiamo saputo che Arafat sta morendo e la notizia è arrivata mentre si sta preparando il ritiro da Gaza votato dal parlamento israeliano. È come se all’improvviso venissero isolate le posizioni armate e meno disposte al dialogo.

È un po’ il senso del tuo film, questa possibilità ancora aperta di cambiare…

Non volevo fare un film sulla storia di Israele, mi interessava raccontare soprattutto le relazioni tra esseri umani ovunque nel mondo. Capire cosa significa essere “uomini forti”, se l’incontro e la conoscenza di colui che consideri il nemico può cambiare anche la tua vita. Naturalmente la realtà di Israele è presente perché in fondo, e anche io, siamo tutti un po’ ciechi. Ti faccio due esempi. Mia madre che è morta mentre stavamo girando il film, ha dedicato tutta la sua vita alla causa palestinese. Era una donna di sinistra, militante, cresciuta negli Stati uniti negli anni Trenta, quando ha iniziato a lavorare a Gerusalemme, dove vivevo da bambino. Nell’amministrazione della città ha usato la sua cultura di urbanista per aiutare gli arabi a costruire e a difendere le proprie case. Eppure, poche ore prima di morire, quando l’ho chiamata da Berlino e le ho detto che ero lì, mi ha chiesto cosa facevo in Germania, che la Germania era il nemico. Stava male, era confusa e però ecco che quell’idea inculcata da bambini della potenza tedesca che uccideva gli ebrei tornava a galla. Una paura così profonda che era rimasta lì, anche se lei aveva cercato di cancellarla tutta la vita. Lo stesso vale per me. Sono cresciuto di fronte al villaggio arabo dove le lavorava, era cinque minuti a piedi ma non ci sono mai andato. L’ho fatto dopo la sua morte e mi sono reso conto che a soli cinque minuti dal nostro bel quartiere c’era miseria, distruzione. Ho altre due storie. Siamo stati in Belgio con “Camminando sull’acqua”, ci guardavano con freddezza in quanto israeliani. Ma al dibattito dopo il film la gente è cambiata, sono rimasti e c’è stata una discussione molto interessante. In Israele non capiscono l’amicizia tra me e Lion. Lui è una star che rappresenta l’uomo israeliano tipico, la prima volta che l’ho visto recitava il ruolo di un poliziotto in una serie tv. Io sono noto come regista gay, sensibile etc. Ci chiedono come mai siamo amici, è una domanda stupida ma posso capire da cosa nasca. Forse è questo che ci ha spinti a fare una copertina su “Time out” israeliano con lui nudo e io che lo abbraccio… Insomma credo che come artista si possa creare un dialogo e cambiare lo sguardo degli altri. Amo Israele e per questo mi interessa aprire gli occhi di uomini come il personaggio di Lion che sono mio padre, mio fratello.