Ammetto che progressi ne sono stati fatti: è vero, non pochi né piccoli. Tuttavia è utile riflettere un istante. Siamo sicuri che un faraone egiziano o un imperatore di Roma avrebbero potuto far di peggio di un Hilter o di un Emilio Eduardo Massera? O, al contrario, nessun tiranno del passato sarebbe riuscito a eguagliarli?
Per restare all’oggi, gli autocrati alla Putin, che organizzano elezioni dopo aver fatto passare a “miglior vita” quasi tutti i possibili concorrenti, sono migliori di taluni satrapi persiani del sesto secolo prima di Cristo? E un Netanyahu, che per vendicare un orrendo massacro non trova di meglio che organizzare un massacro più vasto che colpisce non i responsabili, ma tutti coloro – bambini, anziani e donne compresi– che vagamente gli assomigliano, in che cosa sarebbe migliore di Attila?
Domande retoriche. Ciò non significa negare che l’uomo nel contorto percorso della storia abbia fatto passi avanti, talora seguiti da vistosi arretramenti. Negarlo giustificherebbe un atteggiamento di fatalismo o di disperazione e ci spingerebbe tra le braccia delle tesi secondo cui, essendo l’uomo non migliorabile nei fondamentali istinti, occorre un despota, un duce o un signore che lo guidi con il bastone e/o con i circenses, analogamente ad altri animali.
Soprattutto, negare che si siano compiuti passi avanti significherebbe tradire la verità. Uno di questi passi è antico ed è rappresentato dall’idea di legge che configura un limite all’arbitrio assoluto e personale. Per quanto possa essere cattiva e per quanto sia prodotta da chi detiene il potere – e dunque finalizzata a favorirlo – la legge costituisce pur sempre un limite. Ed è conoscibile. Ed essendo conoscibile è criticabile e migliorabile.
Duemila e cinquecento anni fa lo spiegò Socrate accettando una condanna ingiusta, ma legale. Lo fece per ribadire con l’esempio l’importanza della legge per qualunque società civile. Non le Leggi (1) sbagliavano, ma gli uomini che nel condannarlo le applicavano male per motivi di potere.
L’idea della legge torna nella storia dei tentativi di addomesticare il mostro feroce che può diventare il potere. In linea con l’idea della legge come limite si pone il meccanismo della separazione dei poteri: non esiste sistema per evitare che tu, potente, faccia la legge secondo il tuo gradimento, ma se poi c’è qualcun altro, diverso da te, che la applica, sarai indotto a non scrivere porcherie esagerate perché potrebbero ritorcersi contro di te.
Il meccanismo della separazione dei poteri è uno sviluppo dell’idea di “legge come limite”. La distinzione dei poteri (legislativo, governativo, giudiziario) è un modo per far sapere al potente che le leggi che adotterà saranno applicabili a chiunque, lui compreso: si può sperare che si induca a limitare la smania di onnipotenza.
“Stato di diritto” significa che nessuno sta al di là della legge, nemmeno il sovrano. Nello Stato di diritto si è fatto, di recente, un altro passo avanti. L’esperienza del “secolo breve”, che potremmo chiamare più propriamente il “secolo maledetto” a causa delle guerre mondiali e dei genocidi, ha dimostrato che le dittature si erano affermate con metodi legali, facendo saltare con nuove leggi le leggi precedenti che limitavano in qualche misura il potere.
Per evitare di ricadere nella stessa situazione si è escogitato lo strumento delle “Costituzioni rigide”. Anche questa soluzione rappresenta uno sviluppo dell’idea di legge come limite perché crea una superlegge che può essere modificata solo con procedimenti complessi. Una dittatura rimane di fatto possibile, ma la sua attuazione legale viene resa più difficile. Inoltre, a protezione delle Costituzioni rigide si sono posti appositi organismi di controllo: le Corti costituzionali.
Vi è stato dunque un plurimillenario sviluppo dell’idea di legge dovuto al proposito di limitare il potere perché non diventi arbitrio e prevaricazione. Andrebbe contro la verità chi negasse questo sviluppo. Ma sarebbe una pia illusione pensare che in tal modo il problema sia risolto. Chi esercita il potere, pur ottenuto in modo legittimo, è portato, si direbbe naturalmente (2), a strappare ogni limite scalpitando come un animale che si senta ingabbiato. Lo vediamo ovunque. Anche il “potente buono”, che giunge al potere con ottime intenzioni, sopporta con disagio la regola che limita il suo potere nel tempo.
Perché un solo mandato? Meglio due. Anzi tre. Finché lo assilla un tarlo: «perché legare il mandato al tempo? Perché non lasciare al Padreterno la decisione di limitarmi? E dunque, finché non interviene il Padreterno, il potere me lo tengo».
Questa è la storia che vediamo realizzata in sedicenti “Repubbliche” che si trasformano in regimi ereditari e in sedicenti democrazie che si trasformano in autocrazie o vere dittature. Poi lo stesso “buon potente”, arrivato al potere ben voluto e con buone intenzioni, comincia a osservare che le leggi vanno bene, ci mancherebbe altro, ma devono pur ammettere delle eccezioni! E comincia a pensare che le prime eccezioni, per lui, devono riguardare il codice penale: «Perché pensare che il codice penale sia scritto per me?». Dunque, ricorre a una serie di regole che derogano per lui alle leggi comuni. Leggi che, ad esempio, limitano la possibilità di indagini a suo carico o evitano che si possa ricorrere a taluni strumenti di ricerca delle prove. E non si ferma al codice penale. Immagina altre eccezioni. Ad esempio la conoscibilità. «Perché mettere in piazza ciò che faccio? Un po’ di segreto ci vuole!». E così circonda il palazzo di alte mura, reali o metaforiche, nasconde gli archivi, crea agenzie di falsificazione, stabilisce picchetti armati a guardia delle sedi del proprio potere.
Proseguendo su questa strada, il nostro “buon potente”, ormai preda della metamorfosi, si chiede perché prestare un ossequio esagerato alla Costituzione. Qui il problema si fa più serio. Non è facile modificarla, perché la si è costruita come una legge rafforzata. Ed allora ricorre a un’altra soluzione. «Se colloco alla Corte persone beneamate, persone riconoscenti, costoro sapranno interpretarla in modo avveduto».
Ad esempio, se la Costituzione dice che l’Italia ripudia la guerra, questi beneamati, questi giuristi avveduti sapranno pur sostituire “la guerra” con “qualche guerra” in modo di lasciarmi mano libera… Una piccola trasformazione, una sola parolina interpretata “a dovere”, basta per sottrarsi alla “fastidiosa” escogitazione in tema di legge: la Costituzione rigida.
[Per proseguire la lettura dell’articolo, pubblicato sul n.2-2024 del trimestrale di informazione e cultura «Note Mazziane», richiedi una copia della rivista oppure scrivi a fondazionecis (at) gmail.com]
Note
(1) Uso la maiuscola in riferimento all’opera di Platone.
(2) Non possiamo approfondire il tema della “naturalità” di tale tendenza, talora affermata in filosofia (ad es. la “Wille zur Macht” nietzschiana) e in psichiatria.
Fonte: © «Note Mazziane» n.2-2024