DIFESA SPA, UNA NUOVA AGENZIA PER IL BUSINESS DELLE SPESE MILITARI


Le polemiche si sono riaccese quando la portaerei Cavour ha levato le ancore per far rotta verso Haiti. Perché mai, si sono chiesti in molti nelle Forze armate, mandare una portaerei a portare aiuti? Non era meglio spedire i C-130 per operare subito sul campo e magari risparmiare qualcosa per evitare i tagli all’ordinaria amministrazione, dall’addestramento ai pezzi di ricambio? La prima spiegazione era quasi accettabile: la Cavour deve muoversi comunque. Meglio usarla per Haiti che farla girare invano nel Mediterraneo, anche pagando ricche indennità di missione all’equipaggio. Però poi qualche alto graduato ammetteva: è un prodotto della tecnologia italiana, farlo vedere significa procurare affari.

Persino la tappa in Brasile sembra ideata solo per far vedere la portaerei ai rappresentanti di un governo molto interessato. In altre parole, i clienti vengono prima dei terremotati. Il viaggio umanitario verso Haiti, insomma, sarebbe solo l’ultima tappa di un progressivo allontanamento delle scelte militari dall’interesse nazionale diretto, per privilegiare piuttosto esigenze industriali.

Per gli esperti la tendenza è evidente. È passata per la pervicacia nel seguire i piani di produzione del costosissimo cacciabombardiere F-35, o Jsf, concepito per le esigenze della guerra fredda (può compiere missioni di bombardamento con obiettivi lontanissimi, ovvero era stato ideato per colpire Mosca) e oggi inutile: “In un momento di crisi quegli oltre 13 miliardi potevano andare in elicotteri, più utili per le missioni di pace, o magari anche per jet intercettori più utili, come gli Eurofighter”, dice Massimo Paolicelli, coautore del libro “Il caro armato”.

Ma il punto di non ritorno in un processo che ieri Eugenio Scalfari definiva “il disossamento dello Stato”, è la nascita di Difesa Servizi Spa, “primo passo dello sgretolamento della Pubblica amministrazione”, come l’ha chiamato il capogruppo pd alla Camera Gian Piero Scanu. Concepita con un disegno di legge e poi inserita con cinque commi nella legge finanziaria per superare le perplessità nella stessa maggioranza, dall’inizio dell’anno l’azienda a cui verrà affidata gran parte dell’attività della Difesa è una realtà, almeno sulla carta. Mancano i decreti di attuazione, che devono arrivare entro metà febbraio, ma il processo è avviato.

Alla Difesa spa andrà la responsabilità di ogni acquisto per le Forze armate, armamenti esclusi. Le decisioni saranno prese dal consiglio di amministrazione, otto membri di scelta ministeriale, che dovranno rendere conto solo al ministro, per un budget fra i tre e i cinque miliardi di euro. Il meccanismo spazza via ogni criterio di trasparenza: la Corte dei Conti potrà intervenire solo in caso di comportamenti penalmente rilevanti (in sostanza, di dolo conclamato), mentre non è ben chiaro che cosa succederà se la Difesa spa dovesse andare in perdita.

L’azienda ha il potere di inserire nelle strutture militari anche impianti energetici, senza limitazioni legate alle esigenze delle Forze armate: in parole povere, potrebbe far eseguire la costruzione delle centrali nucleari all’interno delle caserme, senza preoccuparsi di ottenere autorizzazioni dagli enti locali e scavalcando ogni discussione. La Difesa spa curerà anche non meglio definite “sponsorizzazioni”: un termine che inevitabilmente propone immagini di blindati in missione sulle montagne dell’Afghanistan colorati come le monoposto di formula 1, o cacciatorpediniere colorati come le barche della Coppa America, idee molto lontane dalla tradizione delle Forze armate.

Ma il vero affare è quello del mattone: la Difesa spa gestirà anche le dismissioni immobiliari, con lo scopo dichiarato di recuperare danaro per le spese militari. Ad affiancarla, secondo i piani del governo, saranno società di gestione del risparmio, che dovranno valorizzare il patrimonio della Difesa creando dei fondi di investimento e vendendone i titoli, per poi rimborsare all’erario il valore di partenza degli impianti venduti e versare alla Difesa le plusvalenze.

Il meccanismo ha già trovato un intoppo: per garantire la creazione di queste plusvalenze, a fianco dell’inevitabile cambiamento di destinazione d’uso dei beni immobili era prevista la possibilità di un ampliamento della volumetria pari al 30 per cento, anche qui scavalcando ogni autorizzazione, compresa quella sull’impatto ambientale. Un nuovo scempio, bloccato però come incostituzionale dai giudici della Consulta.

[ Fonte: Repubblica ]

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