EL SALVADOR. IL POPOLO CANTA LA SUA LIBERAZIONE


El Salvador, la più piccola delle nazioni dell’America Centrale, è sempre stata definita dalle Amministrazioni USA «il cortile di casa». Una presenza insignificante dal punto di vista geopolitico ma che doveva essere sottoposta a un severo controllo anche militare da parte della superpotenza per non rischiare di destabilizzare l’area e per garantire alcuni vantaggi economici.

MAURICIO FUNESViolenze terribili hanno fatto sanguinare la storia di questo Paese durante i lunghi anni della guerra civile. Anche dopo la firma degli accordi di pace, le 14 famiglie più ricche hanno continuato ad esercitare il loro potere. Le elezioni presidenziali di domenica 15 marzo 2009 hanno rappresentato un momento storico importante per il “cortile” che vuole acquistare dignità di casa, ovvero di popolo.

Pax Christi, che in tutti questi anni ha seguito sempre da vicino le diverse fasi della vita dei salvadoregni, è stata presente con una propria delegazione di osservatori a sorvegliare sulla correttezza delle operazioni di voto. Ha vinto Mauricio Funes (nella foto) candidato della sinistra che ha dichiarato: «L’opzione per i poveri, fatta un tempo dalla Chiesa, sarà la rotta del mio governo». Davvero un bel modo per celebrare il 29° anniversario del martirio di Mons. Romero. Il Sudamerica prosegue nel suo cammino di trasformazione e a noi non rimane che sperare in un sano contagio. (Tonio Dell’Olio).

Pubblichiamo di seguito la testimonianza scritta da uno degli osservatori internazionali, don Alberto Vitali (Pax Christi).

EL SALVADOR. IL POPOLO CANTA LA SUA LIBERAZIONE

Don Alberto Vitali

Forse qualcuno ricorderà una canzone di Claudio Chieffo, in voga nell’ormai lontano 1975: «Il popolo canta la sua liberazione». Erano gli anni in cui in Europa si andavano spegnando gli echi di rivoluzioni mai compiute, mentre l’America Latina veniva sempre più stritolata nella morsa di orribili dittature: dal Cile di Pinochet al Guatemala di Ríos Montt, dal Nicaragua dei Somoza all’Argentina di Videla… tutte cresciute sotto l’egida dell’«Operazione Condor», un famigerato progetto di repressione, ideato e coordinato dagli USA, costato tra l’altro 300 mila desaparecidos (scomparsi) nell’intero subcontinente. Dappertutto sorsero carceri clandestine, in cui la tortura veniva praticata secondo le tecniche più diaboliche e sofisticate, insegnate presso la «Scuola delle Americhe», con sede a Panama, dove venivano addestrati migliaia di ufficiali, venuti da ogni parte. Di conseguenza, i tentativi d’insurrezione furono costanti e generalizzati; ma con le sole eccezioni di Cuba, che aveva giocato d’anticipo, rovesciando Batista nel 1959 e del Nicaragua, che riuscirà a cacciare la dinastia dei Somoza nel luglio del 1979, dovranno tutti aspettare le decadi successive, per passare attraverso diverse fasi di pseudo democrazie.

L’unico a non farcela resterà El Salvador: nonostante 12 anni di dura guerra civile (’80-’92) e 80.000 morti (tra cui l’arcivescovo Romero) su una popolazione di circa 4 milioni di persone, la sproporzione tra il «pollicino del Centroamerica» e il potente vicino del nord, che assisteva logisticamente ed economicamente il dominio oligarchico-militare locale, era infatti insuperabile.

Così, mentre gli altri poco alla volta riuscivano a rinascere, El Salvador è andato sempre più sprofondando. Un terzo della sua attuale popolazione è migrato all’estero (circa 2 milioni su 6), mentre in patria si conta che il 50% sopravviva, il 30% si arrangi con lavori di fortuna e solo il 20% abbia un lavoro stabile. Tra costoro però sarebbero già 24.000 i disoccupati a seguito della crisi mondiale.

L’idea più chiara della situazione ce la offre il potere d’acquisto: a fronte di un costo medio della vita di 762,78 dollari mensili (anche la moneta nazionale, il Colon, è stato sostituito dal dollaro USA), il salario minimo dell’industria è di 203,10 dollari; quello del commercio e dei servizi di 207,60 dollari; quello delle «Maquillas» (fabbriche di assemblaggio, in “zone franche internazionali”: le più diffuse) è infine di 173,70 dollari.

El Salvador detiene inoltre il triste primato percentuale della violenza, con 13 assassini al giorno… Il tutto sotto il dominio incontrastato d’un partito istituzionale, Alleanza Repubblicana Nazionalista (ARENA), ininterrottamente al potere dal 1989, quando fu fondato dal maggiore Roberto D’Aubuisson (mandante riconosciuto dell’assassinio di Mons. Romero), in continuità con il gruppo paramilitare ORDEN, uno dei cosiddetti «squadroni della morte», da lui stesso creato in precedenza.

Se pertanto è difficile offrire in poche righe un quadro completo della situazione, è ancor più difficile rendere credibili le contraddizioni che talvolta la realtà disvela. Così, se il principale eroe nazionale resta indiscutibilmente Mons. Romero, a cui sono dedicate vie e monumenti, nemmeno D’Aubuisson è privo di onori. E se il 24 marzo gran parte del paese si ferma per festeggiare l’anniversario del proprio pastore, profeta e martire, anche il 23 agosto l’Assemblea Legislativa sospende i lavori, per permettere ai deputati di commemorare il genetliaco del loro fondatore, scomparso a sua volta nel 1992, un mese dopo gli accordi di Pace.

Su un piano diverso, troviamo la stessa contraddizione nella contrapposizione economica tra il paese reale, ridotto alla fame e la presenza di moltissimi e modernissimi centri commerciali, che nulla hanno da invidiare a quelli dei paesi sviluppati: a legittimazione delle più comuni illazioni, che parlano di riciclaggio.

É in tale contesto storico, politico, economico e sociale, che il 15 marzo scorso i salvadoregni sono tornati alle urne. Noi eravamo presenti con una delegazione congiunta dell’Associazione Oscar Romero e Pax Christi Italia, in qualità di Osservatori Internazionali. Ed è stato alla sera, uscendo dal Centro di votazione cui eravamo stati assegnati, che mi è tornata alla mente quella vecchia canzone. L’attesa infatti era carica di speranze, ma l’esperienza dei brogli clamorosi cui avevamo assistito impotenti nel 2004, le ridimensionava parecchio. Di fatto, anche questa volta non sono mancate intimidazioni, mesi di campagna violenta, voti doppi, morti che “votavano”, certificati falsi, pullman di honduregni, guatemaltechi e nicaraguensi portati a votare… in “virtù” del fatto che il voto non residenziale impedisce alla gente di riconoscersi.

A fronte di tutto ciò però, vi erano anche delle novità determinanti. La prima è stata una maggiore consapevolezza e determinazione popolare, motivata sia dalla disperata contingenza, che dalla popolarità dello sfidante, Mauricio Funes. Il maggior partito d’opposizione, il Fronte Farabundo Martí per la Liberazione Nazionale (FMLN) – già confederazione di diversi gruppi guerriglieri, trasformatosi in organizzazione politica, in seguito agli accordi di Pace – aveva infatti scelto di candidare non un politico di professione, ma un intellettuale, un giornalista molto stimato dalla gente. Lo avevo conosciuto sette anni fa, presentatomi da alcuni amici, proprio nella cripta dove è sepolto Romero: era appena stato licenziato dalla maggiore televisione locale, per la sua correttezza professionale, ovviamente sgradita al regime. Un secondo elemento significativo è stato rappresentato dal generale riposizionamento politico dell’intera America Latina, che ha offerto ai più un motivo di incoraggiamento. Infine, ma non ultimo, il nuovo corso della politica statunitense.

E il buon giorno si è visto dal mattino. Anzi, prima ancora dell’alba, quando, giunti in loco, abbiamo trovato una città blindata, ma anche una cortesia inattesa, direi persino una certa premura nei nostri confronti. Tanto che se i militari hanno rimosso i blocchi stradali per permetterci l’accesso, i poliziotti ci hanno addirittura accompagnato al Centro, per garantirci di arrivare in tempo (prima delle 5) a controllare le operazioni preliminari. Nel corso della giornata avremmo poi scoperto l’arcano: l’ostinazione cerbera dei ricchi nel ritenere “cosa propria” lo Stato (evidentissima nelle reazioni scandalizzate della sera, come se il voto l’avessero rubato nelle loro case) e l’ingordigia di un accumulo senza misura, gli avevano ormai alienato persino l’appoggio tradizionale della base e dei settori intermedi dei corpi di sicurezza. Per questo la giornata è trascorsa senza particolari problemi. La sera, completato lo scrutinio, siamo finalmente usciti e allora è successa la cosa più bella, indimenticabile, ma anche più difficile da raccontare.

Come esprimere, infatti, l’emozione dell’essere avvicinati da molti, che con la discrezione tipica dei contadini ci chiedevano sottovoce se il sogno si fosse finalmente realizzato? Come non cogliere quella sottile discrepanza tra sorrisi offerti e occhi umidi, che in realtà tradivano il ricordo di volti: figli, fratelli, genitori, amici… cui dedicare una vittoria, frutto del loro sacrificio? Davvero in quel momento tutti i martiri del Salvador erano tornati per festeggiare insieme. Più tardi, un’amica mi ha mandato un sms con scritto: «Questa sera Mons. Romero sorride al suo El Salvador liberato». E davvero il popolo cantava la sua liberazione!

Poi, qualche ora d’apprensione: il Tribunale Supremo Elettorale (TSE) tardava a comunicare i dati e quelli che uscivano erano inverosimili. Era chiaro che ci stessero “riprovando”. Alle 20.40 però, inaspettatamente, per la medesima strada da cui per decenni erano giunte cattive notizie, è arrivata la svolta: il Segretario di Stato Statunitense, Hillary Clinton, ha telefonato al TSE comunicando la totale indisponibilità del suo governo a legittimare qualsiasi broglio. Del resto gli occhi del mondo erano puntati sul piccolo paese centroamericano, quale banco di prova della nuova amministrazione USA. E fu la svolta. Adesso tocca a Mauricio Funes compiere quello che ha tutta l’apparenza d’un miracolo: con le casse statali vuote e i capitali in mano a banche straniere deve rialzare il paese. Di fronte ha due opzioni: quella di una radicale alternativa al modello economico liberista, fin qui perseguito, come vorrebbe la gente e il suo stesso partito o quella di un’alternanza più morbida (noi diremmo riformista), come gli consiglierebbe un certo realismo politico. Forse nessuna delle due è pienamente praticabile, ma nemmeno trascurabile: un bel rebus. Certamente le speranze poste su di lui sono esorbitanti e forse persino eccessive.

Ne parlavo con un vescovo amico, che ne aggiungeva un’altra, del tutto particolare: «Adesso anche il Vaticano avrà meno problemi a proclamare santo Mons. Romero». E leggendomi nel pensiero, continuava ridendo: «Certo non riuscirai a spiegare in Italia perché la vittoria di un partito di sinistra, ex guerrigliero, spiani la strada a un santo, ma El Salvador è anche questo!». Verissime entrambe le cose. Comunque sia, tra mille contraddizioni e altrettante sfide, per questo amato paese è finalmente sorta un’alba nuova. Good morning, El Salvador!

Don Alberto Vitali