[Giancarlo Caselli • 26.01.04] Il dott. Caselli ha voluto contribuire al dibattito sulla giustizia in Italia aperto nelle pagine e nel sito internet di «Mosaico di pace» (la rivista mensile di Pax Christi, www.mosaicodipace.it)  inviando la sua relazione pronunziata a Torino in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario 2004...

GIANCARLO CASELLI: «LA PASSIONE CIVILE DEI GIUDICI»

Il dott. Caselli ha voluto contribuire al dibattito sulla giustizia in Italia aperto nelle pagine e nel sito internet di «Mosaico di pace» (la rivista mensile di Pax Christi, www.mosaicodipace.it)  inviando la sua relazione pronunziata a Torino in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2004.

Pubblichiamo una versione integrale della relazione e consigliamo la lettura del capitolo n.1 sul funzionamento in generale della amministrazione della giustizia e delle conclusioni.

INTRODUZIONE
Presidente, Colleghi della Corte d’appello qui riuniti in Assemblea generale, Magistrati di tutti gli uffici del Distretto, Magistrati onorari, Giudici di Pace, Avvocati, Autorità, Signore e Signori.
Prima di presentarVi la relazione sull’amministrazione della giustizia nel Distretto, voglio esprimere (sicuro anche quest’anno di interpretare un sentimento comune) l’augurio che la nostra città e la nostra regione – pur dovendo ancora affrontare gravi problemi, spesso complicati dal quadro internazionale – continuino a reagire con positiva determinazione alle difficoltà. Così da evitare nuove, pesanti ricadute; ma soprattutto, così da investire concretamente in sviluppo e coesione sociale.
Reso il dovuto omaggio al Presidente della Repubblica, desidero salutare i rappresentanti del Consiglio Superiore della Magistratura e del Ministero della Giustizia, nonché i rappresentanti dell’Associazione Nazionale Magistrati e dell’Avvocatura, grato per il contributo di riflessione che sapranno fornire.
Un apprezzamento riconoscente ed un saluto particolare vanno poi indirizzati a tutto il personale amministrativo, sempre capace di esprimere un serio impegno di lavoro, pur in condizioni a volte drammatiche. E ancora, alla Polizia di Stato, all’Arma dei Carabinieri, alla Guardia di Finanza, alla Polizia penitenziaria, alle Polizie municipali, ai Vigili del fuoco, alle Guardie Forestali e a tutti coloro – appartenenti ad enti pubblici o volontariamente operanti – che efficacemente collaborano con l’amministrazione della giustizia.
Nel tempo preso in esame, tra il luglio 2002 ed il giugno 2003, numerosi colleghi sono stati collocati a riposo e altri sono stati trasferiti. Per tutti (scusandomi con gli altri, che non posso menzionare ad uno ad uno) vorrei ricordare con affetto Emilio Giribaldi.
Con tristezza ricordo (insieme al collega Federico De Rosa) gli avvocati che la morte ha tolto al lavoro ed agli affetti, elencati nel testo scritto della relazione.
Più recente – oltre il periodo qui considerato, ma da ricordare ora, con eguale tristezza – la scomparsa del dott. Alberto Ugona, valido e capace coordinatore dei Giudici di pace e la scomparsa dell’avv.to Vittorio Negro, forte testimonianza di un antifascismo che è stato soprattutto rivendicazione e difesa dei diritti primari della persona.
Infine, ricordo la dolorosa scomparsa di grandi figure (il prof. Alessandro Galante Garrone;- l’avv.to Vittorio Chiusano;- il presidente Luigi Conti) che hanno svolto – ciascuno per la sua parte – ruoli di eccezionale significato e rilievo, davvero indimenticabili per la cultura piemontese e nazionale, non soltanto giuridica. La certezza che continueranno ad essere un ideale punto di riferimento, non diminuisce la nostra accorata afflizione;- che anzi cresce, constatando come siano venuti meno – purtroppo – anche l’avv.to Giovanni Agnelli ed il prof. Norberto Bobbio. E’ vero: ci sentiamo tutti un po’ più soli.
Ci onorano con la loro presenza i parenti dell’app. Guerini, morto a Ceresole d’Alba nel corso di un’operazione di servizio, ed i parenti di alcune vittime di Nassiriya (il s.ten. Cavallaro, l’app. Filippa). La riconoscenza incondizionata per il loro sacrificio, ci spinge ancor più a ricordare come la risposta ai problemi della sicurezza internazionale e della minaccia terroristica non possa essere soltanto repressiva. Quando alla disperazione si contrappone soltanto uno schieramento armato (negando aiuti effettivi alla sanità, all’istruzione, allo sviluppo), quando i diritti diventano ostaggio della sicurezza: si consolidano ingiustizie che sono nemiche della pace. Pace che per il nostro Paese (in base all’art. 11 della Costituzione) rappresenta un obiettivo da perseguire senza “distinguo”, facendo costante riferimento ad un ordine internazionale garantito da istituzioni (l’ONU) capaci di andare oltre gli interessi dei singoli e sottratto ai condizionamenti dettati dalla forza economica di questo o quello stato. Perché non ci sono stati che possano arrogarsi il potere di decidere quando e come imporre la guerra o garantire la pace: se non a prezzo della fine delle regole e del diritto.

1. FUNZIONAMENTO IN GENERALE DELL’AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA

Il quadro che complessivamente emerge – anche quest’anno – dalla lettura delle relazioni pervenute dai vari uffici del Distretto è di forte malessere. I punti critici sono essenzialmente due: l’effettività del servizio giudiziario (vale a dire la sua capacità di dare risposte tempestive e adeguate, a fronte di una richiesta di tutela che cresce di continuo); il ruolo della giurisdizione nel sistema politico.

1.1 – La crisi è di entità tale che richiede ( accanto alla razionale gestione dell’esistente) un progetto innovativo di ampia portata. Invece, la sempre più grave disorganizzazione della macchina giudiziaria impedisce ogni razionale gestione, mentre un vero progetto di riforma è proprio quel che manca nel nostro Paese. E questo perché prevale una concezione della giustizia, se non sempre “proprietaria”, spesso concentrata su obiettivi – quali la riduzione del controllo giudiziario sui poteri forti e la delegittimazione della giurisdizione – che sono incompatibili con un cambiamento che sappia svilupparsi sul terreno della ragione, degli argomenti, della ricerca delle soluzioni più utili e produttive.

1.2 – Risolvere i conflitti tra i cittadini (o tra i cittadini e le istituzioni) e assicurare il rispetto delle regole poste dalla legge (accertando e reprimendo le relative violazioni): è il compito della giurisdizione. Predisporre i mezzi – organizzativi e legislativi – perché ciò avvenga in modo adeguato e tempestivo, assicurando condizioni di serenità all’esercizio della giurisdizione: è compito della politica. Se ciò non avviene, se la politica non assolve questo suo compito, a risentirne non sono i magistrati, ma la società nel suo insieme. E la qualità della convivenza civile non può che peggiorare.

1.3 – Le controversie civili aumentano in quantità e in qualità. L’esigenza di un controllo di legalità diffuso (cioè senza zone franche) è sempre più avvertita. Ciò accade ovunque nelle democrazie avanzate (gli esempi degli Stati Uniti e del Regno Unito sono sotto gli occhi di tutti), non solo in Italia. Attribuirlo – in Italia – a protagonismo dei giudici o a contingenti ragioni di supplenza è improprio e inadeguato. Le scelte di valore sono (tutte e solo) della politica, ma l’intervento di pubblici ministeri e giudici – per dare risposta alle domande di chi deduce la lesione di propri diritti e per realizzare il controllo di legalità previsto dalla legge – è imprescindibile. Perciò è un intervento fisiologico, non supplente. Conseguentemente, va assunto come elemento stabile nell’equilibrio del sistema.

1.4 – Tra giurisdizione e politica non può esserci competizione. Il sistema di relazioni deve essere imperniato sul reciproco, rigoroso rispetto dei rispettivi ambiti di intervento. Solo la credibilità di entrambe (giurisdizione e politica) dà equilibrio e serenità al sistema, mentre la delegittimazione dell’una incide, inevitabilmente, anche sull’altra. Una società sana non può prescindere dal consenso sociale nei confronti delle sue istituzioni politiche e giudiziarie (che è tutt’altra cosa, ovviamente, dal consenso sulle specifiche decisioni dell’una o dell’altra). Per questo l’abitudine – diffusa anche in vertici delle istituzioni – di delegittimare e insultare la magistratura in quanto tale (al punto di definire i magistrati come “pazzi”), oltre ad essere sintomatica di un uso distorto o deviato delle parole, rischia di causare una grave ferita al sistema di convivenza civile. Come stupirsi se, a seguito di tali comportamenti, si diffonde – in una parte della società – un senso di sfiducia pregiudiziale nell’operato dei giudici? Può darsi che qualcuno pensi di poter ricavare – da questa situazione – contingenti utilità, ma ne avrebbe una soddisfazione egoistica e di corto respiro. Perché nei tempi lunghi, tutti (proprio tutti) finirebbero per toccare con mano che, così, una società non regge.

1.5 – La legittimazione dei magistrati, in uno Stato di diritto, non sta nel livello di condivisione sociale della singola decisione, ma nel rigoroso rispetto delle regole. Restano ferme, al riguardo, le fondamentali parole di un noto giurista : “Deve poter esserci un giudice indipendente che interviene a riparare i torti subiti, a tutelare il singolo anche se la maggior parte o persino la totalità degli altri si schierano contro di lui, ad assolvere in mancanza di prove quando l’opinione pubblica vorrebbe la condanna o a condannare in presenza di prove quando la medesima opinione vorrebbe l’assoluzione”. Valutare l’intervento giudiziario alla stregua della sua utilità contingente – anziché della sua correttezza e del suo rigore – ha avuto ed ha effetti gravi, che non dovrebbero sfuggire a chi ha a cuore la cosa pubblica.

1.6 – La critica nei confronti dei provvedimenti giudiziari (dei pubblici ministeri e dei giudici), è, come per qualunque altro atto di pubblici poteri, il sale della democrazia. Perché solo dalla critica si possono trarre elementi per valutare e correggere eventuali errori o inadeguatezze. E la critica non tollera aggettivi: semplicemente deve essere tale (cioè specifica e legata a dati di fatto enunciati e documentati). Tutt’altra cosa sono l’accusa apodittica, l’insulto o l’arte della confusione delle parole (quella, per esempio, che chiama “assoluzione” la “prescrizione” o, addirittura, la condanna per una parte soltanto degli addebiti…). Questo tipo di atteggiamento è particolarmente grave – e delegittimante – perché si avvale dell’assenza di contraddittorio, non essendo consentito ai magistrati di ricostruire decisioni ed elementi di prova altro che nelle aule di giustizia.

1.7 – Il rispetto delle parole impone, anche, di non scambiare la giurisdizione con la lotta politica e l’indipendenza e il pluralismo con una impropria “politicizzazione”. Come non ricordare – su questo tema – il famoso passaggio di Piero Calamandrei (tratto dall’Elogio dei giudici scritto da un avvocato) relativo al giudice toscano Aurelio Sansoni?: “Qualcuno – scrive Calamandrei – nei primi tempi del fascismo lo chiamava anche il ‘pretore rosso’; e non era in realtà né rosso né bigio:….. era semplicemente un giudice giusto: e per questo lo chiamavano ‘rosso’ (perché sempre, tra le tante sofferenze che attendono il giudice giusto, vi è anche quella di sentirsi accusare, quando non è disposto a servire una fazione, di essere al servizio della fazione contraria)”. Parole che sostanzialmente coincidono con quelle di un altro grande italiano, Alessandro Galante Garrone, che ammoniva : “troppe volte ho sentito nell’accusa ai magistrati di ‘fare politica’ un sentimento di insofferenza verso il giudice che, semplicemente, compie il suo dovere fino in fondo” . Con l’amara conseguenza che “a volte non basta, per un giudice, essere onesto e professionalmente preparato. In certe situazioni storiche, per poter ricercare e affermare la verità, con onestà intellettuale, bisogna essere combattivi e coraggiosi” .
Parole perfettamente corrispondenti alla stagione che stiamo vivendo, se è vero – com’è vero – che il pensiero oggi prevalente (prevalente perché ormai sostanzialmente unico a trovare spazio sui più potenti media) vorrebbe individuare i responsabili di quasi tutti i mali del Paese nei magistrati “politicizzati”, come tali additati ossessivamente all’opinione pubblica. La definizione – è facile rilevarlo dalle cronache – è riservata ai magistrati che non si sottraggono al confronto sui diritti e sulla giustizia, insinuando che la partecipazione del magistrato al dibattito politico-culturale lo rende sospetto a chi non ne condivide le idee. Affermazione suggestiva ma deformante, perché l’estraneità del magistrato dalla società è, anzitutto, illusoria. Anzi: sono proprio la cosiddetta “apoliticità” e l’indifferenza (come prova l’esperienza) a consentire fenomeni di subordinazione o di strumentalizzazione del ruolo. “Passione civile e imparzialità nel processo (cito lo scritto di un Collega) non sono concetti antitetici o incompatibili. L’imparzialità è disinteresse personale, estraneità agli interessi in conflitto, distacco dalle parti, non anche indifferenza alle idee e ai valori (che sarebbe assai pericolosa in chi deve giudicare). Nuocciono ad essa la partecipazione alla gestione del potere, i legami affaristici, il coinvolgimento in conflitti personali e di gruppo; non anche la partecipazione al dibattito e al confronto culturale. Il buon magistrato non persegue e non giudica idee e neppure «amici» o «avversari», ma solo persone chiamate a rispondere di fatti specifici, e lo fa indipendentemente dalle idee, dalle caratteristiche personali, dalle convinzioni, dal colore della pelle del destinatario del giudizio”.
Certo: anche l’apparenza può nuocere all’immagine di imparzialità. Può accadere, e bisogna far di tutto per evitarlo. Ma non è l’esercizio dei diritti civili da parte dei magistrati che può appannare l’immagine della giustizia, se si ragiona sui fatti. E’ invece la cultura di chi si inventa complotti giudiziari, disegni politici realizzati mediante l’azione penale, persecuzioni per motivi di parte;- sono invece gli schemi mentali di chi ricerca supposte «appartenenze politiche» di giudici e pubblici ministeri: sono questa cultura e questi schemi che assestano colpi micidiali all’immagine della giustizia.

1.8 – Parlare di “complotti” e “politicizzazione” (alterando i dati della realtà) serve anche a parlar d’altro rispetti ai problemi davvero essenziali al buon funzionamento del servizio giustizia. Che sono problemi di efficienza ed organizzazione.
Sono conosciute – e condivise da tutti i magistrati – le preoccupazioni dell’ A.N.M. al riguardo: “La situazione della giustizia sotto il profilo della organizzazione dei servizi, diretta responsabilità del Ministro della giustizia, è semplicemente drammatica. In molte sedi mancano i fondi per la stenotipia, e persino per la carta delle fotocopiatrici…”. Vero è che non si possono non inserire questi problemi nel quadro dei tagli generalizzati della spesa pubblica: ma il bilancio sulla situazione della giustizia rimane quello drammatico sopra tracciato. Nonostante le asserzioni del Ministro, secondo cui nell’ultima – come già nella scorsa finanziaria – andrebbe alla giustizia la più alta percentuale del bilancio dello stato nella storia della Repubblica. Per ora i magistrati ed il personale ausiliario non se ne sono accorti. Ma soprattutto non se ne sono accorti i cittadini. Ed in ogni caso, quanto alle spese d’ufficio persiste un’obiettiva grave insufficienza dei fondi, che determina spesso persino l’impossibilità di effettuare acquisti già programmati.
Con la carenza dei mezzi si intrecciano i problemi del personale. Ancora l’A.N.M. ricorda che sono stati a lungo bloccati e “comunque vanno avanti a grave rilento i concorsi per il personale amministrativo e per gli uditori” ;- e che “ogni ipotesi di revisione delle circoscrizioni è stata abbandonata, con lo stralcio del relativo punto dalla proposta di riforma dell’ordinamento giudiziario” . Situazione tanto più grave nel nostro Distretto: se si considera, ad esempio, che il D.M. 23 gennaio 2003 (che ripartisce un contingente di 546 posti di magistrato recati in aumento dalla legge 13.2.2001, n. 48) non ha preso in considerazione il Tribunale di Torino. Forse ritenendo – a torto – che le risorse attuali siano sufficienti ( con il che l’impegno profuso ai limiti della sopportabilità invece di essere premiato rischia di finire condannato…..).
Particolarmente critica è la situazione del personale amministrativo: nel nostro Distretto l’indice di copertura non raggiunge neppure l’80%, con gravi riflessi sulla funzionalità di tutti gli uffici. L’insufficienza del personale amministrativo, infatti, ostacola una tempestiva esecuzione di numerosi e svariati adempimenti. Alcuni Tribunali (Asti, Biella) segnalano persino che l’insufficiente numero di assistenti d’udienza è causa di limitazione del numero delle udienze settimanali e della durata delle stesse.
Sarebbe indispensabile, sostengono vari Dirigenti del Distretto, ricorrere a strumenti capaci di colmare le lacune che costantemente si verificano, adottando, come avviene in altre amministrazioni (la Pubblica istruzione, ad esempio), immediate forme di supplenza. Frattanto, basterebbe che il Ministero – ad esempio – desse seguito almeno ad alcune delle oltre 100 domande di “mobilità” da altre Amministrazioni al Tribunale di Torino che invece restano senza risposta (ma una circolare del novembre 2002 sembra vanificare ogni speranza in tal senso….), oppure scongelasse i c.d. progetti finalizzati, che consentirebbero congrui riconoscimenti economici al personale amministrativo che più si sacrifica.
Per ovviare a questa situazione, si fa un massiccio ricorso al lavoro straordinario. Ma il personale che ne è richiesto, in base al contratto collettivo nazionale di lavoro, preferisce spesso il recupero in giornate di assenza dal servizio anziché il pagamento del corrispettivo, determinando involontariamente un ulteriore disagio nell’ufficio già carente di personale.

Piacevole novità – da segnalare positivamente nel nostro Distretto – è che la strumentazione informatica ha aumentato notevolmente la funzionalità dei servizi sia penali che civili, così da contrastare in qualche maniera l’insufficienza numerica del personale amministrativo:
· Torino è stata scelta dal Ministero quale sede-pilota per il programma applicativo del Testo Unico sulle Spese di Giustizia (di imminente installazione);
· per il settore penale, il Tribunale di Torino è sede-pilota del programma TR.IN. (sigla per indicare il cd. “Tribunale Intelligente”);
· nel Tribunale di Torino è stato raggiunto l’obiettivo dell’assegnazione di una postazione lavoro per ogni magistrato sia del settore civile che del penale, nonché per ogni operatore.
Nello stesso tempo, vari uffici lamentano la rapida obsolescenza del materiale informatico nonché numerosi guasti, alla riparazione dei quali spesso non si riesce a provvedere nei tempi necessari per la “solita” insufficienza dei fondi disponibili.

1.9 – Il problema centrale della giustizia italiana, come più volte ha sottolineato il Presidente della Repubblica, è quello della lentezza dei processi. E la situazione, purtroppo, non accenna a migliorare.
Il Presidente del Tribunale di Torino, ad esempio, riferisce che i processi che affluiscono alle Sezioni penali aumentano ad ogni mese in maniera esponenziale, con una continua ed irreversibile lievitazione dell’arretrato (si pensi che in una delle Sezioni risultano già fissati, alla data del 21/7/2003, circa 750 processi a citazione diretta fino all’11/2/2004, mentre sono in lista di attesa altri 600 processi circa, che saranno dunque fissati dopo l’11/2/2004, quando la giacenza avrà presumibilmente attinto se non superato le 1.500 unità). Tale stagnazione ha poi subito un ulteriore peggioramento a seguito dell’entrata in vigore della normativa sul c.d. patteggiamento allargato, che in pratica – calcolando anche la sospensione dei termini feriali – ha comportato un ulteriore differimento della maggioranza dei processi di altri tre mesi.
Dunque, sulla lentezza dei processi non si vede nessun intervento e semmai vi è il rischio di passi all’indietro. Certamente non comporterà nessun miglioramento (neanche minimo) sul piano della razionalizzazione e dello snellimento delle procedure, e ancor meno sul piano dell’organizzazione dei servizi giudiziari, quel mito ( nel senso di vicenda “esemplarmente idealizzata in corrispondenza di una carica di eccezionale e diffusa partecipazione fantastica…che ha il duplice intento di esemplificare o riassumere un processo logico oppure di sostituirsi alla razionalità” ), quel mito – che di fatto sembra ormai destinato a tradursi in riforma ordinamentale – che è la cosiddetta “separazione delle carriere”.

2. LA GIUSTIZIA PENALE

2.1 – Considerazioni di carattere generale.

Vari uffici del Distretto prospettano, innanzitutto, rilievi sul piano della c.d. “tecnica legislativa”, anche richiamando pronunzie della Suprema Corte che definiscono “sciatta” ed “involuta” la formulazione di alcuni testi normativi. Il Procuratore della Repubblica di Cuneo, ad esempio, ricorda la legge 1/8/03 n. 214 recante modifiche al codice della strada, che ha trasferito al Tribunale la competenza per il reato di guida in stato di ebbrezza, dimenticando di farlo per l’analoga contravvenzione di guida in stato di alterazione psicologica per uso di sostanze stupefacenti. E osserva come i sempre maggiori problemi interpretativi ed i conseguenti contrasti giurisprudenziali creano sconcerto tra i cittadini a causa della continua ”incertezza” del diritto.

Per illustrare alcuni problemi insorti nel corso dell’attività giudiziaria dell’ultimo anno, il Procuratore della Repubblica di Torino segnala innanzitutto la vicenda c.d. “Telekom-Serbia”. Non spetta certamente al Procuratore Generale esprimere un giudizio sul merito dell’attività svolta e sui risultati eventualmente conseguiti. Ma credo sia difficilmente disconoscibile che raramente un’inchiesta giudiziaria è stata affiancata, contestualmente al suo materiale svolgersi, da un’inchiesta parlamentare sui medesimi fatti; – ed ancora, da una serie di inchieste giornalistiche svolte da organi di informazione sostanzialmente “schierati” sull’una o sull’altra sponda politica. Le riflessioni che ne scaturiscono (anche secondo il Procuratore della Repubblica di Torino) sono essenzialmente due. La prima è che appare opportuna una riforma che definisca con maggiore chiarezza gli ambiti di competenza delle inchieste istituzionali, in quanto non può sottacersi che si sono verificati dei momenti di difficoltà, anche se attualmente sembrano del tutto superati.
La seconda, e più rilevante riflessione è che proprio questa vicenda serve a dimostrare, qualora ve ne fosse bisogno, la fondamentale importanza che le indagini siano svolte da un PM inserito nell’ordine giudiziario e garantito, nella sua assoluta indipendenza, da un CSM composto in prevalenza da appartenenti all’ordine giudiziario. Le prospettive che si aprirebbero qualora l’organo giudiziario di accusa dovesse rispondere (o fosse praticamente indifeso) di fronte ad un potere politico, di qualsiasi colore e di qualsiasi maggioranza, che lo potesse indirizzare secondo i suoi contingenti interessi, sarebbero infatti a dir poco inquietanti.

Quanto alle principali modifiche normative intervenute nell’ultimo anno in materia di processo penale e agli effetti di precedenti modifiche, il Procuratore della Repubblica di Torino si sofferma sulla cd “legge Cirami” e sul cd “lodo Maccanico o Schifani”. Ovviamente, fermo il dovere di applicare lealmente le leggi dello Stato e di non contestarle – in sede di applicazione – se non nelle forme previste dall’ordinamento, qui si vogliono unicamente esaminare, sul piano tecnico, le conseguenze che l’applicazione della legge può comportare sul normale e corretto funzionamento dell’ amministrazione della giustizia nel quotidiano.
Con riferimento alla legge Cirami, si può – tra le altre cose – osservare che nei processi con una pluralità di imputati, specie per reati di particolare efferatezza e pericolosità, quali sono quelli promananti da associazioni criminali di qualsiasi stampo (mafioso, terroristico, economico, politico), appare ipotizzabile una strategia difensiva (ad opera degli imputati più pericolosi) imperniata su alternate richieste di rimessione o di ricusazione a catena che potrebbe condurre al moltiplicarsi delle sospensioni del processo o a continui provvedimenti di separazione. Comunque esiziali, sia sotto il profilo della completezza e unitarietà del materiale probatorio e della sua valutazione, sia sotto quello della economia processuale.

Per quanto concerne il c.d. “lodo Maccanico”, o “lodo Schifani” che dir si voglia, escludendo dall’ analisi il “cuore” di tale provvedimento e limitandosi a considerare alcuni punti della disciplina processual-penale che affianca e accompagna la norma principale (oggetto di recentissima pronunzia della Consulta), il Procuratore della Repubblica di Torino mette soprattutto in rilievo un profilo che incide sugli assetti propri dello stato di diritto. Ed è che, nel caso in cui le intercettazioni o i tabulati appaiano necessari per il giudizio, la decisione sulla loro utilizzabilità (non solo eventualmente nei confronti del Parlamentare, ma addirittura nei confronti di “terzi”) viene rimessa non già all’Autorità giudiziaria, ma alla Camera di appartenenza del Parlamentare. La quale può negare l’autorizzazione alla utilizzazione di materiale probatorio ( acquisito – per definizione – in maniera assolutamente legittima, con l’osservanza di tutte le regole), che può essere di fondamentale importanza per un giudizio “giusto”. E questo non solo nei confronti del Parlamentare, ma anche nei confronti dei “terzi”. Il tutto, poi, con previsione della obbligatoria distruzione della “prova” (si ripete, lecita, rituale, regolare): che magari può anche significare, per qualcuno dei “terzi”, prova non già di colpevolezza ma di innocenza. Di qui dubbi e perplessità con riferimento ad alcuni fondamentali principi costituzionali (come quelli di uguaglianza;- inviolabilità del diritto di difesa: del “terzo”, ovviamente, ma anche delle eventuali persone offese;- di soggezione del giudice alla legge). E, sullo sfondo, l’interrogativo se funzioni giurisdizionali o sostanzialmente giurisdizionali possano essere rimesse – all’interno del processo che si svolge davanti ai giudici – al potere politico. Insomma, se dalla nuova disciplina possa derivare non solo la limitazione dei poteri di accertamento dei fatti nei confronti del Parlamentare, ma anche una limitazione nei confronti dei “terzi” (e non importa se contro o a favore). Con pesante sofferenza per quell’accertamento della verità che costituisce pur sempre lo scopo indefettibile e primario del processo penale, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale.

Il Procuratore della Repubblica di Torino segnala negativamente le polemiche che sempre si registrano in occasione di episodi eclatanti: ora invocando, ora deprecando l’uso delle misure cautelari (soprattutto della custodia cautelare in carcere). A fronte di un fortissimo tasso di omertà e di un consistente coefficiente di “solidarietà” (spesso coatta) con chi, a torto o a ragione, si trova indagato o imputato dall’Autorità giudiziaria penale;- a fronte di prassi sicuramente non virtuose nella vita economica, finanziaria, amministrativa (come anche le esperienze di quest’ultimo anno e degli ultimissimi giorni insegnano);- in presenza di un sistema che, in omaggio a piuttosto astratti principi di formazione della prova soltanto in dibattimento, ha finito per svilire le “prove” dichiarative predibattimentali, potenziando al contrario infinite possibilità di renderle impraticabili al dibattimento: in questa situazione concreta, gli strumenti investigativi – in certi tipi di inchieste – finiscono per reggersi sulle intercettazioni telefoniche ed ambientali da un lato e sull’utilizzazione, dall’altro, di tutte le cautele necessarie per salvare la prova prima che sia irrimediabilmente inquinata. Cautele che il magistrato, pertanto, doverosamente pone in essere quando ne ricorrano i presupposti in fatto e in diritto. Che se poi si preferisse, per alcuni fenomeni, rinunciare alle cautele e ad un’efficace repressione, è questione che compete alle scelte non del magistrato, ma del legislatore.

Sempre in tema di “cautele”, va ricordato che il vigente codice di procedura penale ha introdotto l’istituto della riparazione per l’ingiusta detenzione. I relativi procedimenti (tabellarmente assegnati ad una Sezione della Corte d’appello) richiedono notevole impegno, essendo doveroso verificare se il ricorrente abbia dato o concorso a dare causa con dolo o colpa grave alla detenzione stessa, il che esige un attento riesame degli atti del giudizio di cognizione. Detti procedimenti (verosimilmente anche perché con l’art.15 della L.n.479/99 è stato decuplicato il “tetto massimo” della riparazione) sono in costante aumento: 111 nel periodo 1/7/02-30/6/03, con un incremento del 5,7% rispetto al precedente periodo 1/7/01-30/6/02, nel quale a sua volta s’era registrato un aumento del 38% rispetto al precedente.

Ancora in tema di “cautele”, il Presidente del Tribunale di Torino segnala un sempre maggiore ricorso, da parte del GIP, all’applicazione della più lieve fra le misure cautelari personali coercitive, quella dell’obbligo di presentazione all’Autorità di P.G., in sostituzione – ovvero a seguito di rigetto di richiesta del PM – di misura coercitiva più grave. Si deve nel contempo rilevare una diffusa inadempienza da parte dei soggetti destinatari della misura (quasi sempre extracomunitari), cui raramente segue un provvedimento di aggravamento o di sostituzione, anche per difetto di segnalazione dell’ inadempimento. Sicchè, a giudizio del Presidente del Tribunale, si rischia in sostanza un forte svilimento di tale cautela, di per sé già di modesta efficacia.

Da ultimo, non si può non accennare alle polemiche che hanno accompagnato la mancata richiesta o la mancata concessione di provvedimenti restrittivi della libertà personale per presunti terroristi islamici; o alle polemiche sulla pena, ritenuta troppo “mite”, chiesta ed inflitta nel caso dell’omicidio di una sfortunata ragazza ad opera del suo ex fidanzato; oppure ancora a seguito del tragico suicidio di un indagato per reati contro la pubblica amministrazione nel settore della sanità. Fatti fra loro estremamente diversi, sul merito dei quali nulla – ovviamente – è qui consentito dire. Ma che possono essere accomunati dalle polemiche che li hanno caratterizzati, in quanto sintomatiche (ciascuna a suo modo) di una certa “incomprensione” nei confronti delle regole di esercizio della funzione giudiziaria. E’ un dato di fatto su cui occorre riflettere. Anche per ristabilire un circuito di reale colloquio tra società civile ed istituzioni. Con il contributo dei media e dell’avvocatura più attenta e sensibile. Certo non quella (per fortuna ancora minoritaria nel nostro Distretto) che ormai da tempo contribuisce in maniera non indifferente alle campagne di delegittimazione della magistratura.

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Con riferimento al funzionamento della giustizia penale (da considerarsi complessivamente soddisfacente, nei limiti strutturali che caratterizzano e spesso inceppano il settore), significativo è il prospetto inviato dal Presidente del Tribunale di Torino, integralmente riprodotto nel testo scritto della relazione.
Alla data del 30 giugno 2003 i processi pendenti presso le sezioni dibattimentali (centrali e distaccate) erano complessivamente 3.085. Alla data del 1° gennaio 2001 (trenta mesi prima), la pendenza era solo di 2.019 processi.
In cifra assoluta l’aumento dell’arretrato è stato in due anni e mezzo di 1.066 processi, con un tasso di incremento del 34,5% (su 30 mesi), che è pari al 13,8% all’anno.
L’ “impennata” si è verificata all’improvviso solo nel primo semestre 2003, quando l’arretrato è passato in pochi mesi da 2.438 a 3.085, con un tasso di incremento del 20,9%.
Vi è stato un progressivo e costante incremento delle sopravvenienze (5.305 nel 2001; 6.182 nel 2002; ben 4.382 in soli sei mesi del 2003, con una previsione di fine anno di circa 8 mila processi), indice di un aumentato ritmo di lavoro della Procura della Repubblica e della Sezione GIP/GUP.

Secondo il Presidente del Tribunale va sottolineato che la pendenza di 3.085 processi a fine giugno 2003 è ancora inferiore alla “massa di smaltimento complessivo” dell’intero anno 2002 (smaltimento che è stato di 5.773 processi) e anche dell’intero anno 2001 (che è stato di 5.308 processi). Il che può significare che l’arretrato odierno (si ripete: 3.085 processi) è di gran lunga inferiore al lavoro di un anno.
Infine, va segnalato che l’Ufficio di Presidenza del Tribunale di Torino ha calcolato la durata media dei processi penali (sulla base delle sole pendenze delle Sezioni dibattimentali 1^, 3^, 4^ e 5^) in 138 giorni.

Di grande e significativo rilievo sono anche i dati forniti dal Presidente della Sezione GIP – GUP, secondo il quale l’attività della Sezione dimostra la stabilizzazione di un tratto caratteristico della giustizia penale in ambito locale, costituito dalla anticipata definizione, in numerosi casi, del processo penale nell’udienza preliminare (quando non anche avanti al Gip), mediante il larghissimo ricorso ai riti alternativi, come è noto ulteriormente incentivati dalla riforma di cui alla legge 479/99. Dalla relazione del Presidente emerge che: a) delle 3498 sentenze pronunciate dai giudici della sezione nel corso del 2002, 1762 sono state sentenze di patteggiamento; b) in particolare, il numero delle sentenze pronunciate all’esito di giudizio abbreviato è stato di 505 (su un totale di 1604) nel secondo semestre del 2002 e di 451 (su un totale di 1691) nel primo semestre del corrente anno.
Il Tribunale del riesame di Torino segnala percentuali di accoglimento delle richieste che testimoniano una rigorosa terzietà (18,32 % per il riesame ex art.309 cpp;- 20,42 % per gli appelli ex art. 310;- 15 su 28 gli appelli del PM accolti).

2.2 – La criminalità organizzata italiana

Relativamente ai reati di competenza della DDA, i dati trasmessi lo scorso anno conservano tuttora validità ed attualità. Al 30 giugno 2003 risultano pendenti dieci procedimenti a carico di persone note per il delitto di cui all’art.416 bis c.p.; tre sono i procedimenti aperti nel periodo giugno 2002-giugno2003. Molto più numerosi sono i procedimenti pendenti per il delitto cui all’art.74 DPR 309/90: 71, dei quali 27 avviati nel periodo di tempo sopracitato. Significativi i dati relativi ai delitti di cui all’art.629 c.p.(10 proc., dei quali 3 aperti nel medesimo periodo).
Il numero dei collaboratori ammessi a programma di protezione attualmente in corso, è di 35; due persone sono state inserite in tale programma nel periodo 1.7.02/30.6.03.
La presenza di gran lunga più significativa di gruppi organizzati di criminalità riguarda la ‘Ndrangheta calabrese. Sembra potersi escludere un radicamento di gruppi criminali riconducibili alla Camorra, alla Sacra corona unita o alla Mafia siciliana ( è stata però accertata la presenza e l’attività criminosa in Torino di soggetti sicuramente legati a gruppi mafiosi catanesi).
Molti procedimenti hanno confermato la consistenza di legami criminosi a livello internazionale tra gruppi italiani e referenti in altri Paesi (in particolare Sud America, Canada e Australia).
Particolare attenzione è stata riservata, e ovviamente continuerà ad esserlo, ad un monitoraggio sull’eventuale partecipazione di soggetti pregiudicati e ritenuti in collegamento con gruppi di criminalità organizzata ai cantieri di lavoro aperti per le opere funzionali allo svolgimento delle Olimpiadi invernali del 2006.

Tra i numerosi procedimenti avviati nel corso dell’anno e riconducibili all’attività di gruppi di criminalità organizzata italiana si segnala quello ( forse primo anche a livello nazionale) che ha tratto spunto da segnalazioni inviate alla DIA dal Servizio Antiriciclaggio dell’ufficio Italiano Cambi, concernente l’attività di alcuni soggetti – operanti nell’ambiente dei “prestasoldi” presso il casinò di Saint Vincent – che risultavano aver movimentato nel corso degli ultimi anni ingenti somme di denaro, verosimilmente riconducibili ad attività di riciclaggio.
Si segnala inoltre (anche perché intrecciato con manifestazioni di criminalità straniera , così introducendo la trattazione del successivo paragrafo) il procedimento relativo all’operazione denominata “Primavera Albanese”, che ha consentito il sequestro, a più riprese, di circa 40 kg.di eroina di ottima qualità, nonché l’arresto in flagranza di 11 persone, il fermo di altre 4 e l’esecuzione di ordinanze di custodia cautelare per altre 7, di nazionalità diverse: italiana, albanese, algerina e marocchina.
Le varie fasi dell’operazione, sviluppate in collaborazione con le Polizie di altri Stati europei, hanno consentito di stabilire che l’organizzazione era strutturata su più livelli: al più basso, quello del minuto spaccio, erano preposti cittadini extracomunitari (prevalentemente Nord-Africani) che operavano nelle grandi città, in particolare Torino; a quello intermedio – di custodia presso soggetti non pregiudicati e in luoghi considerati insospettabili per le forze dell’ordine – operavano soggetti di nazionalità italiana, che in qualche caso si occupavano anche della spedizione e della consegna dello stupefacente agli spacciatori; il vertice era formato esclusivamente da soggetti di nazionalità albanese, di notevole spessore criminale.
La pericolosità dell’ organizzazione va individuata nel particolare vincolo associativo e nelle caratteristiche di omertà proprie della cosiddetta “mafia albanese”. Un’organizzazione che sembra aver effettuato un vero e proprio salto di qualità nelle “gerarchie” criminali, affiancando e in molti casi superando il primato di quelle italiane nella gestione del traffico dell’eroina, i cui canali di introduzione nello Stato passano sempre di più per il territorio balcanico, da essa attentamente controllato.
Degna di attenzione è anche la dimostrata saldatura tra le componenti di diversa nazionalità a cui sono state attribuite mansioni differenti, quasi a voler creare una massa ingarbugliatissima di complicazioni investigative che renda più difficile risalire ai veri organizzatori. Nel contesto dell’operazione sono state individuate le correnti di riciclaggio del denaro proveniente dalla vendita dello stupefacente, nonché elementi di comunanza investigativa con altre indagini attualmente in corso ad opera di varie Procure della Repubblica.

2.3 – La criminalità straniera

Il nostro territorio, sia per quanto riguarda Torino sia per quanto riguarda le altre province del Distretto, risulta contrassegnato da una ramificata presenza di gruppi di varia etnia coinvolti nel compimento di molteplici attività delittuose: spaccio di sostanze stupefacenti; sfruttamento della prostituzione con i correlati fenomeni di tratta di persone dall’estero; traffico di armi; reati contro il patrimonio. Risulta confermato il giudizio di particolare pericolosità relativo ai gruppi delinquenziali di etnia albanese, nigeriana, magrebina, rumena e slava.
Non sono emersi dati significativi circa l’esistenza di legami organizzativamente stabili tra i gruppi stranieri ed i gruppi italiani di criminalità di stampo mafioso.
Particolarmente significativa è l’indagine relativa ad una pericolosa associazione per delinquere, formata da soggetti tutti di nazionalità ucraina, che avevano dato vita ad una struttura finalizzata al compimento di estorsioni sul nostro territorio in danno di loro connazionali che effettuavano trasporto di persone e merci dall’Ucraina in Italia e viceversa. L’attività del gruppo, con estensione territoriale in altre regioni italiane, si avvaleva anche della copertura di un’associazione italo-ucraina denominata “Patria”, che copriva i versamenti estorti agli autotrasportatori con il paravento di un’iscrizione all’associazione medesima, in cambio dell’inesistente vantaggio di fornire eventuale assistenza ai medesimi, una volta giunti in Italia. Detto sodalizio criminoso è risultato essere propaggine operativa di un gruppo appartenente alla mafia russa, legato alla cosiddetta “Brigata di Leopoli”.

Va altresì segnalato, sempre nel quadro delle indagini sulla criminalità straniera, che in numerosi casi il traffico di sostanze stupefacenti, gestito da soggetti albanesi, è risultato fondato su strutture organizzative presenti in Lombardia, che provvedevano a rifornire il mercato clandestino nelle province di Asti ed Alessandria, utilizzando la complicità di individui colà residenti.

I dati della Procura di Torino trovano rispondenza nelle notizie comunicate dal Presidente della Corte di appello e dagli altri uffici del Distretto, i quali fanno sapere che sono in sensibile crescita i reati commessi da cittadini stranieri ed in special modo da cittadini di origine extracomunitaria.
I cittadini stranieri costituiscono, nei processi davanti alla Corte d’appello, la maggioranza degli imputati di delitti in materia di stupefacenti. In prevalenza si tratta di immigrati clandestini e senza fissa dimora, la cui collocazione a livello criminale è, nella maggior parte dei casi, quella di “spaccio da strada” o di poco superiore. Appare, però, ormai evidente anche il radicamento sul territorio di un’aggressiva criminalità di origine extracomunitaria: in special modo è di origine albanese quella dedita allo sfruttamento della prostituzione ed all’importazione di sostanze stupefacenti;- è di origine balcanica o rumena quella dedita a reati contro il patrimonio;- è di origine magrebina quella dedita allo spaccio al minuto delle sostanze stupefacenti.
Nei processi per omicidio trattati dalla Prima Sezione della Corte di assise di appello di Torino, gli imputati stranieri sono stati 6, di cui 3 originari del Marocco (giudicati per omicidio ai danni del coniuge) e 3 originari dell’Albania (giudicati per omicidi collegati alla prostituzione o ai danni di rumeni). Sono in carico alla stessa Sezione, inoltre, un processo con imputati albanesi per associazione a delinquere finalizzata all’introduzione in Italia di ragazze dell’Est, anche minorenni, a scopo di prostituzione, e omicidi collegati; nonché un processo a carico di imputato rumeno per riduzione in schiavitù di ragazza minore rumena.
Nei processi pervenuti alla Seconda Sezione della Corte d’assise d’appello, su un totale di 11 imputati, 2 sono cittadini extracomunitari.
Complessivamente, alla Corte d’appello sono pervenuti, nel periodo in esame, 5 processi per riduzione in schiavitù (contro 1 del periodo precedente).

Dalle relazioni degli uffici giudiziari del Distretto, si segnalano – nel territorio di Asti – importanti processi in materia di criminalità organizzata per sfruttamento della prostituzione (soprattutto in danno di donne di origine slavo-albanese, magrebina ed africana in genere); i più gravi fra questi reati sono ascrivibili a gruppi di albanesi, che tendono a costituirsi in vere e proprie associazioni per delinquere e ad operare sia nel campo dello sfruttamento della prostituzione, in cui si sono avuti anche casi di compravendita da un gruppo all’altro di giovani donne sfruttate, sia nel campo del traffico della droga e del traffico di armi. Nella lotta fra clan contrapposti vi sono stati casi di omicidio o di tentato omicidio.
ACasale Monferrato sono stati iscritti 153 procedimenti a carico di cittadini extracomunitari, per altro con una sensibile diminuzione rispetto al dato dell’anno precedente.
La Procura di Verbania segnala un’indagine di carattere internazionale, riguardante il traffico di sostanze stupefacenti, condotta in collaborazione con la Procura Federale di New York e con la Procura Generale presso la Corte di appello di Atene, che ha portato all’arresto di numerose persone, al sequestro di un imponente quantitativo di ecstasy e, in USA, al sequestro di beni riciclati per un valore intorno ai 16 milioni di dollari. Due imputati sono stati condannati a pena ridotta, considerata la collaborazione ai sensi dell’art. 73 comma 7 dpr 309/90.
In sintonia col quadro generale, e tuttavia meritevoli di menzione per talune specificità, le notizie provenienti dal circondario di Vercelli, dove si sono venute affermando, negli ultimi anni, nuove associazioni criminose di non comune pericolosità ( di matrice albanese, nigeriana, serba, montenegrina, polacca), dedite al reclutamento e allo sfruttamento di persone costrette alla prostituzione, al transito illegale nel territorio italiano di clandestini diretti verso altri stati europei, a rapine e furti che causano notevole risonanza nella collettività, specie per la diffusa sensazione dell’inadeguatezza del contrasto.
Destano preoccupazione, poi, quei fenomeni che la Procura della Repubblica di Torino definisce “salti di qualità” e che consistono nella crescente aggregazione di persone, soprattutto straniere, in ambiti criminali più complessi di quelli di partenza, con destinazione ai reati in tema di sostanze stupefacenti e in tema di sfruttamento della prostituzione. Le indagini sono ardue, non solo per la difficoltà di individuare le persone e per la loro clandestinità, ma anche per l’atteggiamento di scarsissima collaborazione e per la omertà che le caratterizza.
Significativo un dato relativo alle “piccole” rapine, dove gli stranieri coinvolti risultano, sia pure di poco, in numero superiore rispetto agli italiani (rapine commesse da italiani n. 162, contro le rapine commesse da stranieri n. 185).
Infine, la criminalità straniera preoccupa anche perché non sempre è agevole condurre indagini od eseguire le sentenze nei confronti di soggetti di cui spesso non si conoscono le esatte generalità. Vari uffici giudicanti del Distretto, conseguentemente, auspicano che, attraverso opportuni accordi con i vertici delle Autorità di polizia, sia costituita, sulla base dei nominativi incrociati con le impronte digitali, un’apposita banca dati dei soggetti di origine extracomunitaria che abbiano riportato denunce.

2.4 – Delitti oggettivamente e soggettivamente politici ovvero di contenuto terroristico

La Procura di Torino comunica, quanto ai gruppi terroristici italiani, che non sono stati commessi atti criminosi, nel nostro Distretto, riconducibili a gruppi clandestini quali le Brigate rosse od organizzazioni similari.
Sono state segnalate, in varie occasioni, scritte inneggianti alle Br e alla lotta armata, soprattutto in locali interni a stabilimenti industriali del gruppo Fiat. Le relative indagini non hanno consentito l’identificazione degli autori. Peraltro, in assenza di ulteriori dati di riscontro sulla presenza nel Distretto di nuclei organizzati facenti capo alle Br, non appare particolarmente significativa la comparsa di tali scritte.
Da un punto di vista generale, non vi è alcun dubbio che il nostro territorio, ed in specie Torino, rappresenta tuttora un possibile luogo di attività di gruppi clandestini come le Br, in considerazione sia della “storia” di tale gruppo terroristico, sia della fase ancora delicata – sul terreno industriale e finanziario – attraversata dall’industria automobilistica torinese, con potenziali residue tensioni sociali sullo sfondo.
Quanto ai reati di natura politica commessi da altri gruppi sovversivi, sono da ricordare varie vicende tradottesi nel compimento di atti eclatanti di protesta da parte di soggetti dell’area dell’antagonismo politico più radicale. Si è trattato di episodi avvenuti o in occasione di scontri di piazza con le Forze dell’ordine, o di atti a sorpresa. Tutti questi episodi sono unificabili in una valutazione unitaria, quali manifestazioni anche violente di un forte antagonismo politico, che peraltro non sembra ancora possedere una sua specifica dimensione nè organizzativa nè clandestina.
Quanto ad atti eversivi riconducibili ad una specifica matrice anarco-insurrezionalista, non si sono registrati nell’anno in corso specifici atti criminosi, a differenza di quanto avvenuto in altre regioni e specificamente in Lombardia, Toscana, Emilia-Romagna e Sardegna. Peraltro la situazione del nostro Distretto rimane in proposito delicata, perchè alcuni dei più noti esponenti di questo filone della anarchia italiana sono residenti nella nostra regione e risultano tuttora in stretto contatto con le omogenee aree politiche di altre zone.
Quanto al terrorismo straniero di matrice fondamentalista, non sono avvenuti nel territorio del Distretto fatti di reato con tale matrice. Rimane – come già segnalato lo scorso anno – il pericolo di una presenza sul territorio di soggetti legati a detti gruppi.
Per completezza di esposizione va ricordato che nel novembre scorso il Ministro degli Interni ha decretato l’espulsione di alcuni cittadini extracomunitari qualificandoli come pericolosi per la sicurezza dello Stato. Per alcuni di loro il GIP di Torino aveva poco prima respinto – per mancanza di sufficienti gravi indizi – la richiesta della Procura di custodia cautelare in carcere quali partecipi di associazione sovversiva ex art. 270 bis cod. pen. – La straordinarietà della misura amministrativa ( prevista dalla legge con una formula ad ampio spettro di discrezionalità) sollecita – per il futuro – una riflessione sull’opportunità, comunque, di un miglior coordinamento con l’Autorità giudiziaria, quando il provvedimento riguardi soggetti sottoposti a procedimento penale.

2.5 – Reati contro la Pubblica Amministrazione

Mentre nel Distretto la situazione non presenta particolarità meritevoli di nota (Aosta segnala un’indagine per corruzione, truffa aggravata ed altro che ha condotto all’arresto di un funzionario e di un assessore regionale), la Procura della Repubblica di Torino comunica che i procedimenti in materia, iscritti nel periodo in esame, sono stati 307. Quelli definiti ed esauriti 193.
Particolare rilevanza, per delicatezza e complessità, hanno avuto, tra gli altri:
· il procedimento relativo a fatture per operazioni inesistenti concernenti la società Publigest; costituisce stralcio dal noto procedimento relativo a tangenti pagate a funzionari dell’ospedale Molinette di Torino, tuttora in fase di indagini preliminari;
· il procedimento per millantato credito, conclusosi con sentenza di condanna in primo grado, concernente pagamenti per ottenere il trapianto di reni presso il reparto di nefrologia dell’ospedale Molinette;
· il procedimento relativo a vasto fenomeno di corruzione, per atti contrari ai doveri d’ufficio, presso le camere mortuarie di vari ospedali cittadini, coinvolgente infermieri e numerose ditte di pompe funebri;
· il procedimento, nel quale è stato disposto il rinvio a giudizio dei titolari di alcune case di cura, riguardante la prassi illegittima della rotazione forzata dei degenti, fonte di enormi guadagni alle predette strutture sanitarie, con danno per la Regione.

Sono in fase di chiusura due indagini relative ad episodi di corruzione commessi da personale del Centro Servizi delle Imposte dirette di Torino e dell’Agenzia delle Entrate del Piemonte.
E’ in fase conclusiva l’indagine avente ad oggetto la produzione e commercializzazione di valvole cardiache “TRI Tecnologies”, relative a forniture mediche poste in essere su un arco temporale particolarmente ampio da alcuni medici con incarichi apicali nell’Azienda ospedaliera San Giovanni Battista di Torino.
E’ anch’essa in fase conclusiva l’indagine relativa all’accusa di sistematica turbativa, da parte di imprenditori, di gare pubbliche del Comune di Torino, di altri Comuni e di altri Enti. Gli indagati sono 220 e 330 sono le gare pubbliche per le quali si sono ravvisate possibili turbative. Sono state eseguite numerose misure cautelari per ipotesi associative e di corruzione.

2.6 – Reati in materia economica (fiscale, societaria, fallimentare)

Secondo la Procura della Repubblica di Torino, nel settore che riassuntivamente può essere denominato diritto penale dell’economia si devono segnalare consistenti ombre.
Si registra innanzitutto una sostanziale svalutazione dei reati economici, concretizzatasi non mediante la depenalizzazione (che avrebbe avuto almeno il merito di evidenziare con chiarezza certe scelte), quanto piuttosto mediante previsioni normative che lasciano apparentemente sussistere i reati tradizionali, ma che in concreto rendono impossibile o estremamente difficile iniziare procedimenti penali e comunque portarli a compimento. Ciò che comporta, di fatto, il venir meno di un apprezzabile effetto deterrente.
In concreto: la legge prevede tuttora come reato il falso in bilancio e gli illeciti commessi dagli amministratori. E tuttavia: perché si apra un procedimento penale per il reato di falso in bilancio occorre che la posta falsificata superi il 5% del risultato di esercizio o l’1% del patrimonio netto della società. Questa tecnica (le “soglie” di punibilità) esclude in pratica la rilevanza penale per falsi in bilancio di proporzioni elevatissime. Inoltre, la soglia di punibilità commisurata al patrimonio netto della società ha per effetto una evidente disparità di trattamento tra società “ricche” e società “povere”: nel senso che la quantità di falso in bilancio che si può commettere senza pratiche conseguenze dipende dalla quantità del patrimonio della società; che sarà naturalmente più elevato per le prime e più basso per le seconde. Ma il falso in bilancio è sempre compiuto con la volontà di ingannare i soci o il pubblico. Ed è sempre un reato che cagiona un danno a soci o creditori. Per cui ogni falsificatore di bilancio è sempre su un piano di parità, sia “ricca” o sia “povera” la società. Perché allora, nei due casi, i soci e i creditori debbono godere di una diversa tutela? Perché i falsificatori del bilancio hanno un trattamento diverso, più vantaggioso nel caso di società “ricca”?
In ogni caso, se nonostante tutto il processo per un’ipotesi di falso in bilancio dovesse essere iniziato e celebrato, in pratica esso non potrebbe quasi mai concludersi con una sentenza di condanna, se non con quella che, sempre più spesso, viene spacciata come sentenza di assoluzione, anche se dichiarativa dell’estinzione del reato a seguito di prescrizione. Le pene previste, infatti, sono tali da garantire la prescrizione massima in sette anni e mezzo e addirittura, per le contravvenzioni (il falso in bilancio “tradizionale”, l’illegale ripartizione degli utili), in quattro anni e mezzo. Pensare di concludere in un periodo di tempo così limitato l’intero iter processuale, in tutti i suoi gradi, per un falso in bilancio che – avendo superato le soglie di punibilità, giunga tuttavia a giudizio – è contraddetto dalla costante esperienza giudiziaria. E se è in pratica impossibile o vano celebrare i processi, c’è anche da chiedersi se valga la pena di impiegare tempo e risorse (anche e soprattutto economiche – le consulenze costano un sacco di soldi) per celebrare “riti” destinati a prescriversi o a concludersi con sanzioni minime, decisamente sproporzionate rispetto alla gravità dei fatti. E sì, perché le pene previste o concretamente irrogabili per i reati qui in esame non sono poi molto lontane da quelle che si infliggono nelle aule giudiziarie per i danneggiamenti delle vetture in sosta praticati con chiavi o punteruoli dalle fidanzate abbandonate, ovvero per le fattispecie di sosta con voucher contraffatti……
Consequenziali sono i dati offerti dal Presidente della Corte di appello e dal Presidente del Tribunale di Torino. Questi osserva che per i reati societari propriamente detti (essenzialmente, il falso in bilancio) i processi sono pochissimi (tre in tutto), presumibilmente in seguito alla sostanziale abrogazione della normativa penale societaria ( oltretutto, il principale processo pendente è sospeso, in attesa che la Corte di Giustizia europea verifichi la conformità alle direttive comunitarie delle riforme italiane in materia di falso in bilancio).

2.7 – Reati in materia di prevenzione infortuni, igiene del lavoro e malattie professionali

La Procura della Repubblica di Torino segnala, per la sicurezza e l’igiene del lavoro, che il 2003 è stato – nell’area di sua competenza – l’anno in cui si sono raccolti i frutti dell’azione giudiziaria promossa in precedenza con particolare intensità.
Numerosi sono stati i procedimenti penali per omicidi colposi o lesioni personali colpose derivanti da infortuni sul lavoro (anche mortali) e malattie o tumori professionali.
Importanti sia le indagini che la Procura di Torino svolge in ordine al c.d. mobbing, sia quelle che hanno messo in luce l’utilizzo di agenzie investigative da parte di alcune aziende per l’assunzione di informazioni indebite sui dipendenti, sia i procedimenti nell’ambito dei quali si è ascritta ad aziende anche di grandi dimensioni la violazione dell’art. 4 Statuto dei lavoratori, per l’installazione senza previo accordo con le rappresentanze sindacali di impianti e apparecchiature atti a rendere possibile il controllo a distanza dell’attività dei lavoratori.
Per quel che riguarda la tutela del consumatore e del cittadino, la Procura di Torino ha svolto indagini in ordine a problemi quali: le acque minerali (con la scoperta di un fenomeno allarmante, come la sistematica esecuzione sul territorio nazionale di analisi senza l’osservanza dei metodi prescritti dalla normativa di riferimento); la BSE , sotto il profilo della somministrazione di sostanze alimentari pericolose per la salute pubblica; i mangimi contenenti farine di carne; i farmaci somministrati in modo pericoloso per la salute pubblica; le condizioni di salubrità degli alimenti somministrati in esercizi pubblici largamente frequentati come i bar.
Si sono concluse (ma altre sono ancora in corso) le indagini su molteplici aspetti relativi all’impiego di sostanze dopanti o pericolose per la salute nel mondo dello sport, calcio e ciclismo in particolare. L’indagine che ha scoperto un eccesso di mortalità per sclerosi laterale amiotrofica tra i calciatori ha suscitato grande interesse. Sono in corso i primi dibattimenti per reati inerenti all’importazione e vendita non autorizzate in Italia via internet (soprattutto da parte di ditte statunitensi) di prodotti ad azione anabolizzante.
Sono in corso indagini o dibattimenti sul delicato problema degli alimenti transgenici. Siffatte indagini, svolte con la collaborazione dei NAS, hanno consentito di accertare la presenza sul mercato di prodotti transgenici non dichiarati al consumatore (ivi compresi latti per lattanti e prodotti di c.d. agricoltura biologica); ed hanno, altresì, consentito di scoprire la immissione sul mercato di sementi di mais con presenza non segnalata di varietà geneticamente modificate. Importante, a quest’ultimo riguardo, è stata l’azione svolta dalle diverse Procure piemontesi sotto il coordinamento della Procura Generale, in stretto e proficuo collegamento con le competenti Autorità regionali.
Significativa è l’azione volta a controllare la sicurezza antincendio di molteplici strutture pubbliche e private. Va notato che, nell’ambito di indagini in corso sulla sicurezza antincendi (ad es., di edifici storico-artistici o di strutture sanitarie), è emerso un fenomeno: l’ente interessato presenta un progetto di adeguamento alle norme antincendio; il progetto viene approvato con prescrizioni da parte dell’Autorità competente; ad anni di distanza, controlli promossi dall’Autorità giudiziaria mettono in luce che il progetto non ha avuto attuazione, e che tale omessa attuazione non è stata riscontrata dagli organi preposti.

Per quanto infine riguarda la Polizia giudiziaria operante nei settori della tutela del lavoro e della salute, va segnalata positivamente – anche su questo versante – la collaborazione in atto con la Regione Piemonte (Assessorato alla sanità), che ha condotto sia all’organizzazione di un servizio di polizia giudiziaria operante presso la Procura di Torino, specializzato nel settore della tutela degli alimenti e veterinaria, sia alla elaborazione di un protocollo operativo – coinvolgente tutte le Procure del Distretto – per la gestione degli infortuni sul lavoro, con il coordinamento della Procura Generale.

2.8 – Reati concernenti le c.d. fasce deboli

Questo nevralgico settore è stato di fatto coordinato – nell’anno trascorso – dal collega Pier Luigi Zanchetta, che ha confermato anche in questa veste le grandi qualità, professionali ed umane, che tutti gli riconoscono.
L’impegno del settore è stato, come al solito, rivolto ai reati per i quali persone offese sono anziani, malati di mente (o psichicamente deboli) e minori, nonché ai reati – principalmente quello dei maltrattamenti in famiglia – espressione di conflittualità endofamiliare.
Quanto alle prime due categorie (spesso coincidenti), sostanzialmente stabile è il numero di reati di circonvenzione, perseguiti con successo nella quasi totalità dei casi denunciati. Allo stesso risultato non si giunge per i sempre numerosi (pur se in leggera flessione) reati di truffa e di furto, perpetrati con l’inganno, ai danni di anziani da parte di sedicenti incaricati di pubblico servizio/pubblici ufficiali introdottisi nelle loro abitazioni: la difficoltà a perseguire detti reati sta nella, quasi sempre inevitabile, scarsa incidenza della collaborazione offerta dalle stesse persone offese, le quali o non sanno descrivere o non riconoscono gli autori del reato. Ad ogni buon conto sembra che raggiungano un qualche effetto le campagne di sensibilizzazione per una maggiore attenzione al fenomeno: si registra infatti un numero crescente di casi (peraltro sempre troppo piccolo per l’ampiezza del fenomeno), in cui gli anziani sventano il tentativo criminoso ai loro danni.
Un numero elevato di minori, alcuni addirittura bambini, sono vittime di abusi sessuali anche gravi. Si conferma un fatto da tempo oggetto di osservazione: nella quasi totalità dei casi gli autori sono membri della famiglia ristretta o congiunti o amici di famiglia.
Per quanto riguarda i reati ai danni di minori stranieri commessi di solito da connazionali, mentre si registra una diminuzione di denun

Fonte. www.mosaicodipace.it