[Giancarlo Caselli • 17.08.05] Parlare dei fatti propri, in pubblico, non è mai troppo elegante. Ma se i fatti propri (magari in una percezione soggettiva di poca modestia…) hanno anche ricadute di carattere generale, allora val la pena di discuterne...

GIANCARLO CASELLI. LA RIFORMA DELLE SCHIENE DRITTE

Parlare dei fatti propri, in pubblico, non è mai troppo elegante. Ma se i fatti propri (magari in una percezione soggettiva di poca modestia…) hanno anche ricadute di carattere generale, allora val la pena di discuterne. Tanto più se al danno si uniscono le beffe. Contro di me – per impedirmi di partecipare al concorso per la nomina del nuovo Procuratore nazionale antimafia – si è scatenato un “bombardamento”. Senza risparmio di colpi.

Un sovvertimento dopo l’altro delle regole del gioco a partita cominciata (con contorno di insulti gratuiti e volgari). Un “volume di fuoco” mai visto prima nella storia della Repubblica. Capita spesso allora, che amici sinceri – per “consolarmi” – ironizzino su di me (ecco le beffe), chiedendomi se e quanto sia stretta… l’aureola di vittima del regime. E non c’è verso. Uno prova a ribattere protestando che il regime non esiste, che è fantasia di irriducibili nemici del politicamente corretto, tanto che la parola stessa a qualcuno dà l’orticaria: ma loro niente; continuano a sfottere. E arrivano a chiedere se quell’aureola fa venire il mal di testa. Rispondo che semmai ci sarebbe da sentirsi non troppo bene per la salute del nostro Paese, perché la mia – al di là dell’apparenza – non è una questione personale. Va ben oltre. E qui, invariabilmente, c’è chi osserva che “se ce l’hanno con te, un motivo ci dovrà pur essere”.

Ora, io non credo che siano le mie cravatte  o i miei capelli (anche se di questi tempi non si sa mai…). Temo possa trattarsi del metodo di lavoro che io e tanti altri colleghi – raccogliendo, dopo le stragi del 1992, la scomoda eredità di Falcone e Borsellino – abbiamo costantemente applicato nel contrasto investigativo-giudiziario della mafia. Cercando di applicare la legge in maniera davvero uguale per tutti. Perseguendo non soltanto Riina e soci, ma anche imputati cosiddetti eccellenti. Contribuendo a fari infliggere ai mafiosi interni all’organizzazione centinaia di ergastoli e un’infinità di anni di reclusione. Sequestrando, dal ’93 al ’99, beni mafiosi per un valore complessivo di cinque miliardi di euro, l’equivalente di una piccola finanziaria.

Invariabilmente, a questo punto, qualche amico – per provocarmi- cita Ferrara o Jannuzzi, inesauribili teorici del fallimento della stagione palermitana del dopo-stragi. Si dà il caso, però, che parlare di fallimento equivalga a sterminare la verità. Basterebbe leggere le sentenze (ma è un lusso che certi commentatori non conoscono)  per constatare che anche sul versante dei “colletti bianchi” ci sono state numerose significative condanne o dichiarazioni di prescrizione di reati commessi (alcune definitivamente confermate in Cassazione), e che le assoluzioni sono sempre state per insufficienza di prove. Il che significa che in tutte – ma proprio tutte – le motivazioni delle sentenze, quale che sia il loro dispositivo, è univocamente dimostrata la sussistenza di fatti gravissimi a carico degli inquisiti (politici, amministratori, imprenditori).

Fatti non inventati, ma realmente accaduti. Fatti che era obbligatorio indagare e portare a giudizio. Perché sono ancora convinto (ma è questa testardaggine la causa di tanti guai…) che la legge debba essere uguale per tutti. Fatti che avrebbero dovuto innescare concreti percorsi di “bonifica”  sul piano politico-morale, prosciugando una buona volta l’acqua in cui il pescecane mafioso nuota da qualcosa come circa 150 anni, grazie appunto alle collusioni, coperture, complicità, intrecci d’interessi e scambi di favori che sono lo specifico della mafia e ne spiegano la potenza e l’impunità.

Dunque, a ciascuno il suo. C’è chi, al salto qualitativo nell’azione di accertamento dei legami e delle collusioni con “Cosa nostra”, ha preferito una strategia rinunciataria, articolata sulla celebrazione di un vero e proprio processo ai magistrati palermitani del  dopo stragi, “colpevoli” di non essere stati “furbi”.

Furbi come quelli che i rapporti fra mafia e politica li vanno strillando in teoria, ma poi – nelle prassi giudiziarie – li negano o vi danno un basso profilo. Per contro, c’è chi preferisce le indagini a 360°, sempre con lo stesso rigore, senza sconti. Magari con qualche inquietudine, perché è sempre più difficile eludere alcuni interrogativi di fondo: quanto sono compatibili la verità e certa politica? autoassolvendosi in perpetuo (o addirittura pretendendo di esser sottratta al controllo di legalità) certa politica non tende ad annebbiare il confine fra lecito e illecito, fra morale ed immorale?nascono di qui le aggressioni ai magistrati che non si decidono a piegare la schiena? Fino a che punto – queste aggressioni – agevolano il riproporsi delle fortificazioni del malaffare che le inchieste avevano cominciato a sbrecciare?

E la vicenda della procura nazionale antimafia  – io penso – non è altro che un capitolo della campagna devastante scatenata contro di me ed i miei colleghi di Palermo. A rischio di apparire non solo immodesto, ma persino arrogante, penso che le mie vicissitudini vadano lette come un segmento del tentativo di “sterilizzare” l’indipendenza della magistratura che caratterizza la controriforma dell’ordinamento giudiziario. Chiunque abbia occhi per vedere sa che vero obiettivo della controriforma non è la giustizia ma i giudici: quelli colpevoli di aver fatto il proprio dovere no solo verso gli “stracci”, verso i deboli e gli emarginati, ma anche verso le deviazioni del potere. Sono questi i giudici che vuol controllare un potere politico che per se stesso è refrattario ai controlli.

Coerentemente, il nuovo ordinamento traccia un percorso ad ostacoli per chi voglia accertare la verità a 360°, senza soggezioni diverse dalla legge: svuotamento dei poteri del CSM con conseguente indebolimento della sua funzione di tutela dell’indipendenza della magistratura; reclutamento e progressione in carriera congegnati in modo da favorire chi è “omogeneo”; esercizio dell’azione penale riservato ai soli Procuratori della Repubblica, padroni assoluti della giustizia; previsione di un controllo politico indiretto, ma incisivo, del Governo sull’attività giudiziaria; inaugurazione di una “superstrada” che inesorabilmente porterà alla separazione delle carriere, e quindi a forme di dipendenza del PM dall’esecutivo: tutto converge – nella controriforma – perché lo stigma del “nuovo” magistrato sia il conformismo, nemico giurato della rigorosa ricerca della verità quando “scomoda”.

Alla procura di Palermo che ho diretto dopo le stragi del ’92 si rimprovera (come a tanti altri magistrati colpevoli di aver svolto correttamente le loro funzioni pur dovendo incrociare interessi fortemente protetti) proprio di non aver praticato quel conformismo che ora si vorrebbe imporre per legge. Ci rimproverano di non aver saputo stare al mondo, di non aver capito che non si può essere “troppo” indipendenti. E l’emendamento del senatore di AN Bobbio (da costui pubblicamente rivendicato come espediente per impedirmi di concorrere alla carica di procuratore nazionale antimafia) funziona come la classica ciliegina sulla torta: è il completamento di un percorso ben congegnato, per passare dalla teoria (la controriforma dell’ordinamento giudiziario) alla pratica.

Sperimentando innanzitutto su di me (a causa, ripeto, del ruolo svolto – insieme a tanti altri – alla procura di Palermo) le linee guida della riforma. Chi tocca i fili… Un ammonimento che dovrebbe valere per tutti i magistrati, perché sappiano come regolarsi, se amano il “quieto vivere”.

Gli amici che hanno resistito fino a questo punto della mia filippica di solito si vendicano commentando che allora le norme “contra personam” scagliatemi fra le gambe potrebbero sostanzialmente interpretarsi come una prima applicazione della controriforma dell’ordinamento giudiziario “in corpore vili”…, alludendo ovviamente a me. Fingo di non sentire, e ribadisco che la mia vicenda va ben oltre il caso personale.

Prima dell’emendamento Bobbio c’era stato nientemeno che un decreto legge, di proroga del procuratore nazionale antimafia in carica fino al suo 72° compleanno. Sia il decreto che l’emendamento erano finalizzati ad influire pesantemente sul regolare svolgimento dei concorsi banditi dal CSM. Le gravi anomalie che hanno segnato tali concorsi rischiano di viziare in radice la serenità stessa del giudizio di merito. Le singole persone (e le legittime preferenze per questo o quel candidato) passano in secondo piano. La vera posta in gioco, dunque, sono le regole stabilite, che non si dovrebbero sovvertire per inseguire interessi particolari. Altrimenti tutti, a partire dai sedicenti garantisti, dovrebbero inorridire e ribellarsi. Anche perché quando si consente un qualche strappo alle regole, non è possibile sapere dove ci si fermerà. E l’orticaria può diventare infezione.

Giancarlo Caselli


Fonte: “l’Unità” del 17 agosto 2005 e pubblicato sul sito di democrazia e legalità

Giancarlo Caselli
è Procuratore Generale di Torino.