[di Elio Veltri 03.07.04] Il governo ha posto e ottenuto la fiducia della Camera dei Deputati sulla riforma dell’ordinamento giudiziario che si trascina da due anni e, nonostante il voto di ieri, non è ancora in dirittura di arrivo...

GIUSTIZIA. LA «FIDUCIA» CHE SFIDUCIA

Il governo ha posto e ottenuto la fiducia della Camera dei Deputati sulla riforma dell’ordinamento giudiziario che si trascina da due anni e, nonostante il voto di ieri, non è ancora in dirittura di arrivo. Non mi soffermo sui contenuti del provvedimento, più volte modificato, perché su questo giornale l’ha fatto Gerardo D’Ambrosio, il quale ha sottolineato, con esempi concreti, la inutilità della proposta del governo riguardo ai problemi veri e pressanti della giustizia quali: i tempi dei processi, le carenze degli organici dei magistrati e del personale amministrativo, la impossibilità di risarcire chi è stato danneggiato dalla lunghezza dei processi, perché non esiste copertura finanziaria della legge Pinto.

Mi preme, invece, fare alcune riflessioni di natura istituzionale e politica, sull’uso distorto del cosiddetto «istituto della fiducia», soprattutto in un caso come quello di cui stiamo parlando, anche se non costituisce una novità in assoluto, ma lo è, se si tiene conto della maggioranza che sostiene il governo.

Il voto di fiducia, soprattutto se usato con disinvoltura, di fatto, sfiducia il Parlamento e i parlamentari. Infatti, limita la libertà dei deputati che sostengono il governo, i quali, anche se sono contrari al provvedimento, e noi sappiamo che ce ne sono molti, non possono né votare contro né allontanarsi dall’aula, perché dichiarando un voto contrario in maniera palese, determinano la fine della loro carriera politica.

Nel caso della riforma dell’ordinamento giudiziario, il voto di fiducia degrada l’istituto a vero mostro giuridico e istituzionale perché il governo, pur avendo una maggioranza di 100 deputati e quindi, tutte le possibilità di far passare il provvedimento in tempo breve, è ricorso alla fiducia per tamponare le sue falle politiche, sapendo che moltissimi deputati non avrebbero votato o avrebbero approvato modifiche proposte dall’opposizione. Il che rafforza la tesi secondo la quale l’istituto della fiducia può diventare un vero e proprio cappio al collo dei deputati della maggioranza, limitandone in maniera preoccupante la libertà di voto. Sul piano politico, poi, è d’obbligo chiedersi come mai, con una verifica in corso, condotta all’insegna di un’orgia di dichiarazioni di fuoco degli alleati contro Berlusconi, quando si tratta di votare provvedimenti che riguardano la giustizia e le sue aziende, sono tutti allineati e votano come un solo uomo.

Le spiegazioni possibili sono due: o Berlusconi, nonostante la sconfitta elettorale personale e di Forza Italia e a dispetto delle dichiarazioni di autonomia dei vari Follini e Fini, rimane il padrone assoluto della coalizione, oppure, ma il risultato non cambia, l’asse Berlusconi-Lega è talmente solido che a nulla valgono le lamentele degli altri alleati.

Il voto di fiducia fa decadere tutti gli emendamenti, gli ordini del giorno e le proposte delle opposizioni. Quindi, stravolge la funzione stessa del Parlamento nel quale la maggioranza decide, ma l’opposizione ha il diritto di proporre, discutere le sue proposte e metterle ai voti.

Ricorrendo alla fiducia, il confronto, le proposte e il ruolo stesso dell’opposizione vengono sminuiti. E viene cancellata anche la possibilità di verificare se l’opposizione fa sul serio oppure no. Nel caso della riforma dell’ordinamento giudiziario, che viene approvata con legge ordinaria, ma incide profondamente sull’ordinamento costituzionale riguardo alla funzione e alla organizzazione della magistratura, ai rapporti tra magistratura, potere politico e cittadini, alla obbligatorietà dell’azione penale, il confronto sarebbe stato tanto più utile se l’obiettivo fosse stato davvero quello di partorire una buona riforma.

Il voto di fiducia, poi, è un vero e proprio schiaffo in faccia alla magistratura italiana che compatta si era opposta alle proposte del governo, ma aveva accettato di sospendere lo sciopero con l’impegno di un confronto serio e approfondito. Il governo, avendo proceduto per conto proprio, non solo è venuto meno agli impegni, ma ha creato tutte le condizioni per la ripresa dello scontro. Per rendersene conto è sufficiente riflettere sulle affermazioni del ministro, il quale, felice di avere potuto dare un schiaffo ai magistrati dichiara: «Questi qui (i magistrati!) hanno capito che se riescono guadagnare rinvii fino a dicembre salta tutto» e aggiunge: «Certamente questa riforma è più radicale di quella originaria, e dunque per i magistrati può essere peggiore. Vuol dire che hanno sbagliato i loro calcoli, con le proteste e gli scioperi: le azioni di forza non sempre indeboliscono l’avversario, a volte lo rafforzano. Potevano pensarci prima».

Il ministro della Giustizia, dunque, non lavora per migliorare il servizio giustizia, ma per punire i magistrati, ritenuti “avversari” da battere.
Questi sono i ministri del governo Berlusconi ed è inutile cercare sponde che nella maggioranza non ci sono. Berlusconi, i suoi ministri e la sua maggioranza sono contro il paese. Perciò, prima ce ne liberiamo, meglio è.
 

 
GIUDICI SU MISURA

di Livio Pepino

Divisa su tutto la maggioranza sembra concordare solo sulla riforma dell’ordinamento giudiziario. O forse no, se il governo è stato costretto a blindarla, ponendo la fiducia e impedendo così persino un inizio di dibattito sul maxiemendamento affannosamente proposto all’ultimo momento (per superare le critica e i mal di pancia della stessa maggioranza). Il fatto è, a dir poco inaudito, se è vero che, a detta dei maggiori costituzionalisti, la disciplina dell’ordinamento giudiziario, riguardando lo status e l’indipendenza dei magistrati, deve essere considerata una sorta di legge organica di rango addirittura superiore a quella ordinaria.

Perché, dunque, questa scelta? Per dare un contentino alla Lega e al ministro Castelli (altrimenti destinato a restare nella nostra storia istituzionale solo come l’artefice del più grande sfascio organizzativo della giustizia del dopoguerra)? Certamente per questo, ma non solo. Le ragioni sono anche altre.

Lo abbiamo detto e scritto più volte: modificare lo status di giudici e pubblici ministeri è un tassello indispensabile nella operazione in atto di contrazione dei diritti di tutti, di smantellamento dello Stato sociale, di irrigidimento delle istituzioni in senso autoritario. Per ridimensionare i diritti e le libertà occorre indebolire chi, per Costituzione, ne è tutore e garante: la Corte costituzionale, anzitutto, e poi la magistratura.

Il disegno è evidente. Se la riforma approvata dalla Camera diventerà legge i magistrati saranno meno liberi e indipendenti e i cittadini meno tutelati. Alcuni esempi tra i molti possibili.

Primo. La riforma prevede un complicato sistema di concorsi per l’accesso alle funzioni di secondo grado e di legittimità: per diventare giudici d’appello o di cassazione i magistrati dovranno affrontare e superare appositi esami teorici. Nulla di strano – verrebbe da dire – in una società improntata alla meritocrazia. E invece non è così. In questo modo si sovvertiranno la cultura dei giudici e il loro rapporto con la società. Il sistema dei concorsi infatti, a tutto concedere, potrebbe selezionare i giudici tecnicamente più preparati. Ma non è questo il problema della giurisdizione che richiede, al contrario, strumenti per realizzare una crescita professionale di tutti i giudici, posto che tutti allo stesso modo (e a maggior ragione in primo grado) si occupano dei diritti, della vita, dei beni, dell’onore dei cittadini. E poi perché la preparazione tecnica è uno dei requisiti del buon giudice, alla cui realizzazione concorrono altri requisiti quali l’equilibrio, l’educazione, la capacità di ascolto, la sensibilità ai diritti: doti che non si controllano certo con gli esami…

Secondo. I concorsi e gli esami non serviranno a rendere i giudici migliori; ma serviranno ad altro: a incentivare il conformismo, il formalismo, il disinteresse al fatto (che è, invece, il cuore del giudizio). Da che mondo e mondo i concorsi non selezionano i migliori ma promuovono gli omogenei, attraverso meccanismi di cooptazione. Ciò che si ripropone oggi è un sistema analogo a quello degli anni cinquanta, così efficacemente descritto un quarto di secolo fa da Franco Cordero: «Influiva sulla sintonia con il sistema di potere politico ed economico il fatto che ogni magistrato in qualche modo dipendesse dal potere esecutivo quanto a carriera; i selettori erano alti magistrati col piede nella sfera ministeriale; tale struttura a piramide orientava il codice genetico; l’imprinting escludeva scelte, gesti, gusti ripugnanti alla biensèeance filogovernativa; ed essendo una sciagura l’essere discriminati, come in ogni carriera burocratica, regnava l’impulso mimetico». A coronamento di questo sistema il ministro ha voluto aggiungere, nel maxiemendamento, la ciliegina finale: ai dirigenti del ministero, tornati alle funzioni giudiziarie, dovranno essere assegnati posti direttivi o, comunque, di primo piano. Per chi non avesse capito.

Terzo. Giudici e pubblici ministeri – non inganni il concorso unico e la finta opposizione dei pasdaran della separazione delle carriere – saranno drasticamente divisi, attraverso il meccanismo della prescelta all’atto del concorso e della scelta definitiva dopo tre anni. Non sono tra quelli che ritengono l’omogeneità ordinamentale di tutti i magistrati una dogma di fede e, anzi, sono convinto che una seria separazione delle funzioni sia opportuna e troppo a lungo rinviata. Ma allontanare il pubblico ministero dalla cultura della giurisdizione in un momento storico come quello attuale è una regressione pericolosa e di segno illiberale. Sarebbe ora – lo dico anche agli amici avvocati che hanno a cuore l’assetto costituzionale dello Stato – di uscire dalla ambiguità delle formule e degli slogan per ricordare che la polemica contro la «commistione fra ruoli propri delle parti e ruoli propri del giudice, realizzata in capo al pubblico ministero dal legislatore liberale del 1913» fu un cavallo di battaglia del guardasigilli Rocco e del regime che lo esprimeva. Il seguito è noto…

Molto altro ci sarebbe da dire, a cominciare dal nuovo sistema disciplinare, dalla emarginazione del Consiglio superiore della magistratura, dall’ambiguità della struttura della Scuola della magistratura e via seguitando. Ma tanto basta a dimostrare che questa riforma è un’offesa grave non solo per i giudici ma ancor più per i cittadini.

Livio Pepino
(presidente di Magistratura democratica)