[LUIS SEPÚLVEDA • 16.05.04] Coloro che sono passati per l'esperienza della tortura - e io sono fra quelli - sono in genere restii a parlare del tema per una questione di elementare pudore, ma nessuno tace quando si tratta di denunciare quella piaga del comportamento umano e le canaglie che inducono a praticarla...

GLI AGUZZINI DI ABU GHRAIB, EREDI DI UNA LUNGA TRADIZIONE

Coloro che sono passati per l’esperienza della tortura – e io sono fra quelli – sono in genere restii a parlare del tema per una questione di elementare pudore, ma nessuno tace quando si tratta di denunciare quella piaga del comportamento umano e le canaglie che inducono a praticarla. Dopo aver visto le foto spaventose che mostrano la soldatessa Lynndie England, di 21 anni, incinta di sei mesi, mentre collabora con singolare entusiasmo ad un «atto persuasivo» nei confronti dei prigionieri iracheni, l’orrore, i vecchi fantasmi di un passato ancora recente, cedono il passo all’ira che suscitano le parole di Donald Rumsfeld che condanna malvolentieri ciò che ovviamente sapeva, e non si può fare a meno di rallegrarsi per il ritorno delle truppe spagnole, di quei soldati, uomini e donne, persone degne che furono sul punto di essere complici delle violazioni dei Diritti Umani, della Convenzione di Ginevra, delle norme elementari del rispetto del vinto perpetrate dagli occupanti dell’Iraq. Per condannare la tortura sono state organizzate conferenze internazionali, perfino un anno fu dedicato al tema da Amnesty International, e la faccenda è così grave che, nel denunciarla, non c’è posto per alcuna considerazione «politicamente corretta». La tortura viene sempre praticata col pieno assenso delle alte sfere; non ci sono innocenti, né ambiguità che permettano di supporre ignoranza rispetto a quello che fanno le truppe, e se si tratta di truppe nordamericane i responsabili della tortura spiccano con una nitidezza nauseabonda. I nordamericani, con il loro ridicolo candore nell’alludere a temi che spaventano, sono soliti parlare di una «cultura della guerra», e sfortunatamente siamo in molti a sapere che la tortura fa parte dell’altra politica estera degli Stati Uniti d’America. Dall’assassinio di Kennedy la guerra sporca – con la tortura come arma più efficace – è stato il leitmotiv di tutte le aggressioni imperialiste. La tristemente famosa Escuela de las Américas nella zona del Canale di Panama, e le sue filiali di Fort Bridge o del North Caroline, sono state le università incaricate di preparare la maggior feccia torturatrice del pianeta, col pieno assenso e convincimento di democratici e repubblicani. E se qualcuno è capace di sostenere il contrario, va detto che finora non ne ha dato prova.

Gli Stati Uniti d’America formarono e appoggiarono torturatori del calibro di Pinochet, Videla, Ríos Montt o Hugo Banzer. Un «Eroe Americano» celebrato da Reagan, il capitano Oliver North, non esitò a organizzare la vendita di armi all’Iran mentre i pasdaran dell’ayatollah Komeini tenevano in ostaggio i funzionari dell’ambasciata Usa a Teheran, per finanziare e formare, con quel denaro, i peggiori criminali che il continente americano abbia conosciuto: la «contra» nicaraguense, i cui «combattenti per la libertà», come li chiamava Reagan, erano soliti obbligare i genitori dei ragazzi sandinisti a farli a pezzi a colpi di machete, vivi e in presenza di tutta la famiglia. Ci può forse stupire adesso che la soldatessa Lynndie England, di 21 anni, incinta di sei mesi, torturi degli iracheni con il suo sorriso migliore?

Quando i britannici, estensione degli Usa in Europa, sconfissero dei ragazzi morti di fame, di freddo e male armati alle Falkland, ci andarono abbastanza cauti con gli ufficiali argentini, codardi che si arresero al primo sparo, ma erano ben presenti mentre i loro gurkha sodomizzavano, strappavano occhi e testicoli, mozzavano lingue ai soldati sconfitti. Ci può forse stupire adesso che anche i britannici torturino in Iraq?

Henry Kissinger, un criminale che vanta il Premio Nobel per la Pace, addusse in un’occasione che la tortura era inerente alla guerra sporca. Ci sono forse guerre pulite? Ci può essere una guerra più sporca di quella dell’Iraq quando è stato dimostrato fino alla nausea che si fonda su puri e semplici imbrogli? Il nuovo ambasciatore degli USA che rimpiazzerà Paul Bremer come console dell’impero in Iraq si chiama John Negroponte ed è stato nominato da un’ampia maggioranza del senato nordamericano; democratici e repubblicani hanno salutato il valore di questo diplomatico che, nell’ombra, come esperto in «guerra sporca», organizzò, finanziò e addestrò il «Battaglione 136» in Honduras.

Fra il 1981 e il 1985, Negroponte non faceva il suo dovere di ambasciatore dalla sua ambasciata a Tegucigalpa, bensì da El Aguacate, base militare nella quale finivano di addestrarsi i torturatori argentini e cileni, e gli indigeni come Rigoberta Menchu servivano da cavie a questa congrega internazionale di sadici. Nell’agosto del 2001, degli scavi dimostrarono il valore e l’efficienza di Negroponte; venne rinvenuta una fossa con i cadaveri a pezzi di 185 persone, compresi due nordamericani torturati e assassinati col pieno assenso di sua Eccellenza, l’ambasciatore degli Stati Uniti d’America. Nel maggio del 1982 una suora, Leticia Bordes, si avvicinò all’ambasciata nordamericana a Tegucigalpa per avere notizie della vita di 32 monache salvadoregne che si erano rifugiate in Honduras dopo l’assassinio del vescovo Oscar Romero. Ebbe un colloquio con Negroponte, e questi disse di non saperne nulla, ma anni dopo Jack Binns, diplomatico nordamericano, assicurò che le monache erano state sequestrate, violentate, torturate e lanciate vive dagli elicotteri col pieno assenso di John Negroponte. Si può forse dubitare di ciò che attende gli iracheni con questo sinistro personaggio come plenipotenziario dell’impero? Si può forse dubitare che per i vari Rumsfeld, Wolfowitz, Rice, Cheney e Bush la tortura non aquisisca la categoria di ideale?

E si può forse ancora dubitare che sia stato legittimo togliere le truppe spagnole da quell’indegno pasticciaccio che è oggi l’Iraq?


(Traduzione di Marcella Trambaioli) – Fonte: il manifesto, 16.05.04