Da qualche tempo i giornali sono invasi dagli arrivi di stranieri, sulle carrette del mare. E nell’opinione pubblica si sta creando la percezione di una vera e propria emergenza. La sensazione di allarme è proporzionata però ai termini usati dai media, non alla realtà delle cose. I dati, infatti, sono agli antipodi. Gli accordi bilaterali finora stipulati hanno ridotto gli arrivi in Italia. Gli stranieri sbarcano oggi a sud della Sicilia anche perché la via albanese è sotto controllo. Dal 1° gennaio all’11 giugno di quest’anno sono arrivati via mare «solo» 5269 immigrati: il 49,3% in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (10.399). In tutto nel 2002 erano stati 23.719 a fronte dei 26.817 del 2000. Cifre tutto sommato modeste, specie se si tiene conto che un immigrato su due in Italia è oggi un europeo dell’Est. Sì, va bene, dirà qualcuno: ma perché accettare questi clandestini, anche se pochi? Per vari motivi, ma soprattutto uno, che nessuno sa o sembra ricordare: sono per lo più rifugiati, non clandestini, persone che richiedono asilo e che in gran parte non vogliono neppure restare in Italia. Qui i dati scarseggiano di più, ma non sono introvabili. Nei centri di permanenza temporanea di Pozzallo e di Lampedusa in questo mese di giugno si trovano 403 palestinesi, 287 irakeni, soprattutto curdi, 223 liberiani, 160 eritrei, 141 sudanesi, 77 somali, 56 ivoriani. Praticamente non esistono immigrati nati nei paesi da cui provengono le navi: solo un libico e appena 5 tunisini. Vengono piuttosto dalle guerre in corso, dalle guerre che non finiscono mai, dalle paci che non hanno pacificato. In altre parole sono il portato del riassetto del mondo e del mondo che non si riassetta: o profughi o rifugiati. E comunque occorre che qualcuno lo dica e qualcun altro lo ricordi: per quanto sembrino molti, sono pochissimi. In Francia le richieste di asilo sono state nel 2002 più del doppio, in Germania quasi quattro volte (71.000) e nel Regno Unito più di cinque v olte (110.000). In altri casi si tratta di stranieri “irregolari” e non clandestini. Si sa chi sono, dove stanno, cosa cercano. Nelle quattro sanatorie che hanno preceduto l’attuale, ancora in corso, sono stati regolarizzati poco meno di 800 mila nuovi cittadini, dal 1986 al 1998. Arriveremo vicino al milione e mezzo di regolari a fine anno, mentre gli immigrati entrati regolarmente in Italia non arrivano a mezzo milione. Insomma, tre stranieri su quattro (una parte dei quali in Italia da quasi vent’anni) sono stati, prima, irregolari (secondo il linguaggio corrente “clandestini”). Se aguzziamo gli occhi sono il giornalaio, il fioraio, il cuoco, il compagno di banco dei nostri bambini, l’amica di nostra madre che l’aiuta anche nella vita quotidiana. Sono gli edili senza i quali non si costruiscono e non si riparano più le nostre case. La campagna di odio che si riassume nell’invenzione del “clandestino” lascia ferite, alimenta diffidenza, paura, rancori, umilia il buon senso e fa male. Umilia anche chi l’accetta pigramente come se fosse normale, tra folclore e “sano egoismo”. Allora bisognerebbe smetterla di parlare di clandestini. Chiamiamoli, come sono, profughi o rifugiati. Ricordiamo i doveri dell’Europa come grande soggetto democratico e portatore di una democrazia “umanistica”, cui ci ha ancora richiamato Giovanni Paolo II. E’ una grande battaglia culturale che interpella cristiani e laici. In gioco c’è la soglia minima di rispetto della dignità umana e della democrazia sotto la quale non si può accettare di scendere: almeno non senza essersi almeno impegnati prima per impedirlo.
(AVVENIRE, 1 luglio 2003)