«Ioan Costantin era venuto da me mesi fa e aveva chiesto un appuntamento con parole e frasi tanto scorrette nella forma quanto gentili e come cerco di fare di solito […] ci avevo parlato per un bel po’ nel mio ufficio, anche se già sapevo di non poterlo aiutare veramente. Era un moldavo di quaranta, quarantacinque anni, aveva sul viso profonde rughe e sulle mani calli che sapevano di calce, mattoni e anni di lavoro duro, pesante e nero. Si era regolarizzato l’anno prima, insieme a sua moglie e ora aveva solo un sogno, il sogno di far arrivare suo figlio e di farlo vivere con loro, in quaranta metri quadri di casa e sotto un cielo diverso da quello ormai lontano della loro terra».
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Non è un sociologo né un assistente sociale. E nemmeno uno psicologo. É un vicequestore aggiunto della Polizia di Stato. Poliziotto, dunque. Ma non solo. Poliziotto col pallino della scrittura “terapeutica” che serve a raccontare storie, storie di volti spesso dimenticati nella quotidiana frenesia cittadina. Quella sera, fu Trevisi a dire a Ioan che non avrebbe mai più potuto rivedere suo figlio il cui corpo era stato trovato in un sacco nero. Nero, come il lavoro al cantiere che lo uccise a «soli diciotto anni, morto a causa di molti traumi da caduta, una caduta violenta da chissà quanti metri d’altezza: erano rimasti sani solo i calli sulle mani, calli che sapevano di calce e mattoni».
Abbiamo incontrato il dottor Trevisi nel suo ufficio della questura di Verona, sotto lo sguardo severo degli scioperanti del Quarto Stato di Pellizza Da Volpedo, che domina la parete, alle spalle del vicequestore.
Chi è Gianpaolo Trevisi?
Chi sono? Difficile rispondere a questa domanda in poche righe, ma diciamo che sono un poliziotto che da piccolo sognava di fare il poliziotto e lo scrittore e che oggi si ritrova ad essere un funzionario di Polizia presso la Squadra Mobile di Verona e anche un piccolo scrittore che, di notte, mischia realtà e sogni. Sono entrato nella grande famiglia della Polizia, subito dopo il liceo classico, facendo ingresso alla Scuola Superiore di Polizia e, dopo 4 anni e 9 mesi di corso, e la laurea in giurisprudenza, sono partito, come un migrante, nel 1993, destinazione Verona.
Cos’è per lei la Polizia di Stato?
Direi tutto e anche di più. La maggior parte delle mie giornate le passo in ufficio o in divisa, in ordine pubblico e in mille altre attività direttamente o indirettamente legate alla Polizia e quindi direi che è una fedele ed entusiasmante compagna dalla quale sono sicuro non vorrò mai separarmi.
La sua attività le ha dato pure lo spunto per scrivere «Fogli di via», il suo primo libro, con la prefazione di Gad Lerner, composto da diciotto racconti che trasudano umanità: perché un vicequestore aggiunto della Polizia di Stato ha sentito il bisogno di scrivere?
Io li chiamo racconti terapeutici, perché – avendoli scritti di notte e avendo fatto seguire a storie reali, finali surreali e sognanti – mi permettevano di arrivare al mattino, il giorno dopo, con più energia, entusiasmo e voglia di fare… e vi assicuro che non è cosa da poco!
Rimane il profondo rammarico che il finale da sogno lo conosco bene io che l’ho scritto, e i lettori che hanno voglia di leggere i miei «Fogli di via», ma non lo conosceranno mai gli stranieri che nella realtà hanno avuto, invece, un finale della loro storia molto più triste.
Come l’hanno presa i colleghi?
I colleghi “buoni”, e sono tanti, l’hanno presa bene e mi hanno detto e scritto: «Ma lo sai che sei riuscito a scrivere e a comunicare all’esterno le cose che pensavo anche io? Grazie!». I colleghi “non buoni”, che sono pochissimi, l’hanno presa meno bene, ma di loro poco m’importa.
E i superiori?
Ho avuto questori e capi “illuminati” i quali non solo hanno apprezzato, ma mi hanno pure incoraggiato a scrivere ancora, e per questo non posso che ringraziarli con soddisfazione e sempre più stima per l’Istituzione di cui faccio parte. Certo, risulta strano, a primo impatto, che un poliziotto invece di manganellare o scrivere verbali, scriva racconti, per giunta con finali surreali e che hanno come protagonisti stranieri o addirittura clandestini, ma molti, dopo averli letti, hanno sorriso e si sono ricreduti.
La realtà che cambia, divenendo sempre più multiculturale, non imporrebbe di rivedere anche la formazione teorica degli operatori di Polizia?
Assolutamente sì e in parte si sta cercando di farlo, anche se è difficile per mille motivi diversi, ma del resto, questo cambiamento tanto voluto e necessario tra gli appartenenti alla Polizia di Stato è avvenuto nella società italiana? Non credo, e purtroppo, o per fortuna, non credo che la Polizia sia avanti rispetto al mondo che la circonda.
Da ex dirigente dell’Ufficio Immigrazione, che cosa non ha funzionato finora nella politica degli ingressi e nella gestione di una sempre più consistente presenza di persone provenienti da altri Paesi europei ed extra comunitari?
Credo che legiferare sul tema immigrazione sia la cosa più complicata degli ultimi anni, quasi come se si trattasse di una Finanziaria! Non bisogna in nessun modo farsi trasportare dalle diverse ideologie, ma andare nel pratico, cercando di favorire prima di tutto la permanenza di chi già da molti anni è regolarmente presente in Italia. Facilitandoli nella loro vita quotidiana, potrebbero avere un’integrazione migliore e più semplice, e tutti gli «addetti ai lavori» della Polizia di Stato si potrebbero dedicare meglio, invece, alla lotta alla clandestinità.
Per quanto riguarda le quote d’ingresso, credo possano essere una giusta strada (non si può certo pensare a un ingresso continuo e indiscriminato), anche se andrebbero, forse, rivisti i criteri di massima.
Che ruolo potrebbe avere l’Europa nella regolamentazione del fenomeno migratorio?
Fondamentale. Purtroppo sempre più spesso si sente parlare di Europa solo quando si tratta di economia e finanza, e per mille altre questioni i vari Paesi rimangono soli e alle volte senza idee o risorse, anche economiche, per affrontare i singoli problemi. Idee per favorire l’integrazione e la permanenza di tutti i cittadini stranieri debbono essere prese a livello europeo e anche la stessa lotta alla clandestinità non può essere condotta da un singolo Paese in base agli sbarchi o al numero di cittadini irregolari presenti.
A proposito di irregolari e clandestini, alcuni dei quali sono protagonisti dei racconti del suo libro, è più “clandestino” un immigrato senza permesso di soggiorno che non delinque, o un italiano mafioso?
Non mi piace la parola clandestino, ma se vogliamo rifletterci sopra dandole quel connotato negativo che le è stato attribuito durante le campagne elettorali nazionali e locali e in vari salotti televisivi, allora, vorrei gridare che per me è più clandestino il cittadino italiano di mille generazioni che appartiene ad organizzazioni criminali di ogni genere, come è più clandestino chi abusa dei minori, chi spaccia e tanti altri, dei quali io e tutti dobbiamo avere paura e per i quali ci dovrebbero essere espulsioni immediate!
Ovviamente, rispetto sempre al clandestino che, nonostante non sia in regola, lavora di nascosto dalla mattina alla sera e che, appena finito di lavorare, si nasconde in casa per paura di essere trovato e scoperto. Questi uomini non mi fanno paura, anzi, tornando al concetto di prima, mi fanno molto più paura coloro che cercano di sfruttarli, proprio perché più deboli, proprio perché non esistono. Questi uomini “nascosti” mi riempiono di pensieri, di dubbi, mi fanno leggere e rileggere sempre la nostra bella Costituzione e rendere conto di quanto essa spesso venga vilipesa.
Molto spesso sono questi “clandestini” che lavorano in nero di giorno per scomparire la sera a preoccupare gli amministratori locali. Ma c’è realmente una “emergenza sicurezza” nelle nostre città, o la percezione di insicurezza supera la reale portata del problema?
Bella domanda che in realtà credo contenga in sé già la risposta. Con il passare degli anni è vero che in qualche modo, per una serie infinita di fattori, possano essere emersi diversi nemici del nostro vivere quotidiano, che provano e ogni tanto ce la fanno a scalfire la nostra sicurezza, ma parlare di “emergenza sicurezza” è ingiusto e fuori luogo e paradossalmente, facendo nascere in tutti paure e timori nei confronti dell’altro, del diverso, si rischia di rendere più pericolose le nostre vite, perché, si sa, quando uno si sente minacciato compie azioni che abitualmente non farebbe.
Che ruolo hanno i mezzi di informazione di massa nel creare paure e timori tra la gente?
Credo, purtroppo, e dico purtroppo perché non penso lo facciano nel migliore dei modi, abbiano un ruolo fondamentale e siano portatori neanche tanto sani di paure e timori. Lo si è visto in altre occasioni, quando si è trattato di diffondere paure su malattie o su cibi contaminati, e lo si vede ora quando riescono benissimo a diffondere il terrore nei confronti di certe etnie o nazionalità. De Andrè diceva: sì è vero, forse, alcuni zingari rubano, ma almeno non lo fanno tramite banche!
Le recenti misure atte ad aumentare la sicurezza nelle città, volute ed attuate da molti sindaci (ad esempio l’utilizzo dei soldati in pattuglia con agenti delle Forze dell’ordine, le cosiddette ordinanze creative per contrastare il “degrado urbano”, ecc.) sono realmente efficaci o ci vorrebbe altro?
Credo che sia opportuno distinguere i due diversi concetti di sicurezza e di percezione di sicurezza. Se si vuole fare qualcosa in più proprio in relazione alla percezione della sicurezza credo che la presenza di militari o le parole contenute in alcune ordinanze “stravaganti” possano essere utili, ma se si vuole veramente fare qualcosa per la sicurezza in senso stretto, allora, credo che le strade da seguire siano diverse. Un esempio per tutti: se vogliamo sia maggiore la presenza di personale in divisa sulle strade pensiamo a nuove e importanti assunzioni di poliziotti e carabinieri, senza nulla togliere ai militari che già da tempo devono fare un corso di un anno presso le nostre preziose Scuole di Polizia prima di indossare la nostra uniforme. Questo rende evidente come sia diverso, anche e soprattutto per strada, l’operato di un poliziotto e di un militare.
Non essendo dunque sufficiente una più consistente presenza di Forze dell’ordine nelle nostre strade per aumentare concretamente la sicurezza in senso stretto, come lei l’ha definita, quali altri interventi potrebbero promuovere gli Enti locali per favorire l’integrazione e quindi la sicurezza in senso lato?
Ci vuole un impegno da parte di tutti, perché ogni Ente, ufficio, Istituzione da solo non vale quasi nulla. La sinergia fra tutti è l’unica strada per favorire l’integrazione e tanto, tantissimo impegno – anche se i risultati forse non si potranno vedere nell’immediato – deve essere mostrato dalle scuole che devono insegnare anche cose che sui libri non sono scritte, che devono abbattere i muri delle aule strette e far posare gli occhi dei ragazzi sul mondo intero.
Secondo lei la concessione del diritto di voto nelle elezioni locali agli immigrati regolarmente soggiornanti dopo un determinato periodo di tempo potrebbe giocare a favore di una maggiore integrazione nelle comunità locali, con ricadute positive anche in termini di convivenza?
Assolutamente sì! Dare il voto ai cittadini stranieri che da diversi anni sono in Italia, magari a coloro che sono in possesso della carta di soggiorno, favorirebbe sicuramente l’integrazione e credo che avrebbe un doppio vantaggio: i cittadini stranieri si sentirebbero parte integrante della comunità e sarebbero ancor di più ben disposti a rispettare regole comuni e gli amministratori, perché – purtroppo così succede – pensando anche ai voti nelle future elezioni, avrebbero maggiori cure nei confronti delle diverse comunità straniere.
Come si conciliano legalità e solidarietà?
Nello stesso modo in cui si conciliano giustizia e legge. Credo sia difficile riuscire a farlo e che il solo tentativo di farlo complichi le nostre attività lavorative e riempia di pensieri e dubbi le nostre coscienze, ma un poliziotto e chiunque sia un servitore dello Stato – e per servitore dello Stato intendo tutti i cittadini italiani e stranieri che vivono nel nostro Paese – devono necessariamente fare di tutto per non dimenticarsi mai cosa sia la legalità, e come essa debba sempre andare “ammanettata” alla solidarietà.
Ha in programma altri libri?
Sono già pronti dodici racconti, uno per ogni mese, tutti ambientati sul treno, che hanno per protagonisti quasi sempre gli ultimi e mai i primi. Sto scrivendo ora un libro, invece, sul mio G8 di Genova, ma è una scrittura lenta, complicata e molto pensata e sofferta e del resto non può essere diversamente, considerato il tema.
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Fu Trevisi ad andare, un giorno, nei pressi di un cantiere edile, dove una persona si era incatenata ai cancelli, dopo essersi cosparsa di benzina. «Aveva un accendino in mano e gridava che voleva i nomi, i nomi dei colpevoli […] di quei delinquenti che gli avevano chiuso il figlio in un sacco, forse ancora quando respirava e che l’avevano buttato via di nascosto […] solo i nomi degli spazzini della morte di suo figlio […]. Era Ioan…» (dal blog dell’Autore: www.gianpaolotrevisi.it).
Michele Turazza
Fonte: «Polizia e Democrazia» (NUMERO 126 – FEBBRAIO MARZO 2009)