IN MEMORIA DEI 500 MILA AFRICANI UCCISI

Le vittime dell’occupazione italiana in Africa. «Nigrizia» pubblica l’intervento del Prof. Angelo Del Boca, storico italiano, alla conferenza per la giornata della memoria delle vittime africane del colonialismo italiano, che si è tenuta il 12 marzo 2007 a Roma. Alla conferenza è stata presentata una proposta di legge per istituire la Giornata della Memoria in ricordo delle vittime.

Angelo del bocaQuesto incontro avremmo dovuto farlo sessant’anni fa, non oggi. Per la verità, già nel 1945, quando l’Italia sconfitta si illudeva di aver vinto la guerra e si batteva per conservare le colonie prefasciste e fasciste, e persino Benedetto Croce riteneva inaccettabile la rinuncia alle colonie, che l’Italia, sosteneva, aveva «acquistato col suo sangue, amministrate e portate a vita civile ed europea col suo ingegno», sapevamo perfettamente quale era il nostro debito nei confronti delle popolazioni africane che avevamo aggredito, sapevamo perfettamente quanti morti africani erano costate le nostre campagne di conquista.

Dunque siamo in ritardo di sessant’anni per chiedere al Paese di riconoscere i nostri torti e di dedicare una giornata alla memoria dei 500 mila innocenti sacrificati sull’altare del prestigio nazionale e di una falsa missione civilizzatrice. Ma siamo sicuri che il Paese ascolterà il nostro appello? Siamo sicuri che dispone degli strumenti necessari per comprendente il valore morale e politico? Nutriamo alcuni dubbi. La prima obiezione che ci sarà fatta sarà quella che esistono già molte, troppe giornate alla memoria, e che il calendario è già fitto di ricorrenze civili.

Non intendiamo istituire classifiche di merito. Vorremmo soltanto precisare che in questa giornata, che noi proponiamo, non vogliamo ricordare episodi di cui siamo stati vittime, come è il caso delle foibe, ma ricordare settant’anni di violenze e di stragi di cui nessuno, sinora, si è fatto carico. Non si tratta soltanto di un’occasione per chiedere perdono, ma anche dell’opportunità per stringere nuovi, amichevoli rapporti cori popolazioni che non hanno dimenticato. Si veda i difficili rapporti con la Libia, che ha addirittura istituito una «giornata della vendetta».

La mia non sarà una relazione sui fatti, che ho ampiamente illustrato nei miei libri. Ho invece cercato di ricordare l’epoca coloniale con una sintesi stringata, con modesti versi che hanno la sola pretesa di poter essere facilmente ricordati e trasmessi. Mi affido, dunque, alla vostra pazienza e comprensione.

In memoria dei 500 mila africani uccisi

Impossibile tenere la contabilità di settant’anni di violenze e di stragi. C’è un filo rosso, di sangue, che lega le sentenze di morte di Crispi, Giolitti e Mussolini. Ciò che sappiamo, per certo, è che l’ordine era d’annientare più che di vincere e conquistare, per fare spazio agli italiani, ingordi di terre e di ricchezze. Ciò che sappiamo, per certo, è che il numero dei morti in guerra è inferiore a quello dei giustiziati, degli impiccati, dei fucilati, degli arsi vivi.Ciò che sappiamo, per certo, è che 50 mila sono morti nei lager della Sirtica, di Nocra, di Danane, per fame, epidemie, decimazioni.

Siamo giunti, dopo 40 anni di ricerche nei nostri archivi e in quelli dei paesi conquistati, a stabilire che i morti africani sono almeno 500 mila. Cinquecentomila fra eritrei, libici, somali ed etiopici. Cinquecentomila, non per eccesso, ma sicuramente per difetto. Tanti come gli abitanti di Firenze ed Arezzo messi assieme. Siamo andati in Africa per questioni di prestigio, non per necessità, non per portarvi civiltà e benessere, non per carità cristiana. Siamo andati in Africa perché era di moda rapinare i più deboli, privarli della loro storia. ridurli alla condizione di schiavi. Siamo andati in Africa perché ci ritenevamo superiori, per stirpe e intelligenza, e consideravano gli indigeni fuori dal consorzio umano.

Questo spiega le crudeltà, le esecuzioni in massa. La deportazione di intere popolazioni, la forca come simbolo del diritto e come efficace arma deterrente. Abbiamo scritto, su questa storia di violenze e sopraffazioni, più di ventimila pagine, senza illuderci di aver offerto un quadro completo dei fatti. Ogni giorno, se frugate tra le carte degli archivi di Stato, scoprite un nuovo delitto, una nuova infamia un nuovo tassello del dipinto della vergogna.

L’ultimo crimine ha un nome: Zerei. Millecinquecento etiopici, in gran parte civili, vengono rinchiusi in una grotta e gasati con l’iprite. L’eccidio porta la firma del generale Cavallero. Quando l’Italia va in Africa, nel 1885, il 60 per cento degli italiani è analfabeta, gli studenti universitari sono 15 mila, la ricerca scientifica è insignificante, la crisi economica è acutissima. Alla spedizione in Eritrea, dopo la sconfitta di Dogali, Carlo Drago dedica questi versi: «Su le arene infocate, fra i miraggi d’Africa, a incivilir barbari vai, e non pensi ai tuoi borghi, ai tuoi villaggi, le infinite miserie tue non sai; incivilisci, o Italia, i tuoi selvaggi».

E sin dall’inizio, in Eritrea, i soli strumenti che funzionano sono i plotoni di esecuzione, ma dai processi escono tutti assolti, da Livraghi a Cagrassi, da Baldissera a Orero. Se soltanto alzi la testa, finisci nell’isola di Nocra, un inferno al largo di Massaua, dove spacchi pietre sotto il sole di fuoco e muori di fame, scorbuto e dissenteria. Poi Crispi spinge Baratieri ad Adua perché ritiene Menelik un imbelle, ma nel furioso scontro muoiono 5 mila italiani, mille ascari e 10 mila etiopici. La più grande mattanza registrata in Africa.

Non si è ancora spento il ricordo di Adua che Giolitti invade la Libia, e sconfitto a Sciara Sciat, ordina la deportazione di 4 mila libici e il massacro di altrettanti innocenti. La guerra durerà vent’anni e la Libia per riavere la libertà dovrà sacrificare centomila vite. Sessantamila in guerra, quarantamila fra i reticolati dei lager. Centomila morti, il conto è presto fatto: un libico su otto ha dato la vita per la propria terra. Pugno duro anche in Somalia, dove intere popolazioni, ridotte in schiavitù, lavorano gratis per i coloni italiani. A protestare con Mussolini è lo stesso federale fascista di Mogadiscio.

Ma il peggio deve ancora accadere. Con l’avvento del fascismo la macchina della morte si trasforma, da artigiana si fa industriale: scendono in campo specialisti della strage come Badoglio e Graziani. Quando Benito Mussolini decide di vendicare Adua. invia in Africa il più potente esercito che il Continente Nero abbia mai visto: dieci volte più armato di quello etiopico. Ed è lui stesso che dispensa la morte con quotidiani telegrammi operativi. Recita uno di questi, inviato a Badoglio: «Dati metodi di guerra del nemico le rinnovo l’autorizzazione all’impiego dei gas di qualunque specie e su qualunque scala».

Secondo Addis Abeba, i morti etiopici nella «guerra dei sette mesi», sono 275 mila, ai quali vanno aggiunti i patrioti uccisi in cinque anni di resistenza, i morti nei lager, quelli condannati dalle corti marziali. L’apice dello sterminio si raggiunge nel febbraio del 1937, dopo l’attentato al vicerè Graziani. Nella furia repressiva cadono 30 mila etiopici, compresi duemila monaci della città conventuale di Debrà Libanòs. Per tutti questi morti, nell’arco di settant’anni, nessuno ha pagato. Non c’è stata una Norimberga italiana, non è stato comminato un solo giorno di prigione.

Di tutti questi crimini si è anzi cercato di cancellarne la memoria. Soltanto nel 1996, dopo tanti dinieghi, lo Stato italiano ha riconosciuto l’impiego sistematico dei gas. Adesso, anche se in ritardo, è venuto il momento di ricordare questi 500 mila africani, senza nome e senza volto, vittime della follia coloniale. Abbiamo scelto, per ricordarli, la data del 19 febbraio 1937, quando Addis Abeba fu data alle fiamme e vide la più odiosa caccia all’africano.

Ricordare, per poter chiedere perdono.

Angelo Del Boca

Fonte: Nigrizia

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