[di ANGELO SICA (Avvenimenti n.29 - Luglio 2003) • 15.09.03] Scegliendo la metafora della pentola che bolle come titolo del proprio libro, Jean Léonard Touadi vuole sottolineare la vivacità del continente africano, in continuo movimento, a dispetto degli scettici pronti a scommettere sulla sua agonia e deriva, di chi lo considera il «binario morto della globalizzazione» o una «zavorra geopolitica»...

INTERVISTA A JEAN LEONARD TOUADI. QUELLO CHE BOLLE NELLA PENTOLA AFRICANA

Scegliendo la metafora della pentola che bolle come titolo del proprio libro, Jean Léonard Touadi vuole sottolineare la vivacità del continente africano, in continuo movimento, a dispetto degli scettici pronti a scommettere sulla sua agonia e deriva, di chi lo considera il «binario morto della globalizzazione» o una «zavorra geopolitica». Smaltito l’entusiasmo degli anni Novanta, gli afro-pessimisti tornano ad appostarsi sulla riva del fiume in attesa che passi il cadavere dell’Africa, una schiera – come li definisce l’autore di Africa, la pentola che bolle. Politica, economia, società (edito dalla Emi) – di «africanisti più o meno aggiornati, esperti di progetti di cooperazione “prét-à porter”, “sviluppatori” di professione incapaci di autocritica, volontari poco fiduciosi nelle capacità degli africani di risollevarsi». Giornalista della Rai, consulente ed editorialista di riviste specializzate sui temi dell’immigrazione, della multicultura, dei rapporti Nord/Sud, Touadi rilegge la storia del continente culla dell’umanità, ne svela la straordinaria ricchezza, superando la sterile polemica tutta occidentale tra afro-pessimismo ed afro-ottimismo, fotografando in particolare le trasformazioni dell’attuale momento sociopolitico.

Nel suo libro definisce la storia africana come una «pedagogia della resistenza e dell’innovazione», individuando così due chiavi di lettura, due categorie descrittive. Cominciamo dalla resistenza. L’epoca della tratta e della colonizzazione è una pagina mai abbastanza raccontata dalla storiografia dei vincitori, che saltano su interi capitoli di resistenza alla penetrazione coloniale. Capitoli che hanno nutrito il nostro immaginario collettivo e il sogno di una liberazione possibile. Ci sono stati esmpi di rivolta tra i neri deportati nei campi di cotone americani. Vi è stata poi la resistenza politica di tanti leader africani, fino alla decolonizzazione con protagonisti quali Kwamé Nkrumah, Patrice Lumumba, Ben Bella, André Matsoua.
Oggi le nuove minacce hanno l’aspetto della globalizzazione neoliberale.
Nei meandri della geografia della miseria – che si chiama deprezzamento delle materie prime o concorrenza falsata a causa dei sussidi erogati ai contadini europei ed americani o schiavitù del debito – gli africani lottano disperatamente. Sanno che devono tutti i giorni mettere in moto l’energia dell’alternativa per restare in piedi e sfidare le statistiche della banca Mondiale e del FMI, che li vorrebbero morti di fame, di sete, di malattie, di guerre falsamente etichettate come etniche. Eppure gli africani resistono e si organizzano, creano circuiti informali, di grande flessibilità, che si rinnovano sempre. A quest’Africa che non sale in cattedra e che sa ridere bisogna guardare oggi. Allora si ritrova l’ottimismo e l’entusiasmo.

La società civile propone modelli economici alternativi, ad alta socialità, radicati nelle tradizioni tribali, fondati sul dono, sulla solidarietà, sul rapporto umano. È questa la “pentola che bolle”?
Nella loro resistenza, i poveri indicano un’economia attenta ai valori dell’uomo. Mettono in gioco valori esclusi dal pensiero unico economico, come la partecipazione collettiva, le relazioni umane complementari e non competitive, gli scambi di beni che non sacrificano i retaggi culturali e spirituali. La giornata della fanciulla descritta dal regista senegalese Djibril Diop Mambety nel suo piccolo capolavoro “La petite vendeuse de Soleil” è emblematica della nuova realtà sociale africana. La bambina, sfidando la sua condizione di donna portatrice di handicap, decide di andare per le strade di Dakar a vendere il quotidiano locale “Soleil” – nome simbolico, questo, che indica nel sole il ritorno della luce dopo il buio. La piccola resiste, affronta la polizia corrotta e la miseria, facendo leva sulla solidarietà e la condivisione del ricavato tra i poveri del quartiere. La sua riuscita diventa l’icona di un’Africa che non s’interroga più, che lavora e crea nel disordine dell’informale, nelle contraddizioni di una modernità seducente ma imposta. Una pentola che bolle – appunto – capace di riservare al mondo molte sorprese dove e quando nessuno le aspetta.

Da una parte la società civile africana, dall’altra le istituzioni economiche e politiche mondiali. Cosa può aspettarsi l’Africa dagli organismi internazionali?
Abbiamo aspettato per troppo tempo uno sviluppo promesso, il “nuovo ordine economico mondiale”, che ha solo peggiorato le nostre condizioni di vita. Abbiamo aspettato la cancellazione del debito senza troppo crederci e i fatti ci hanno dato ragione. Abbiamo aspettato gli aiuti delle cooperazioni bilaterali, che hanno trasformato le nostre terre in terreni fertili per tutte le avventure. Abbiamo aspettato i premi della democrazia garantiti a chiunque avesse introdotto un sistema politico multipartitico, ma i premi hanno preso la strada dell’eldorado dell’Europa dell’Est. Ora l’Africa non aspetta più niente. È disincantata anche rispetto a chi preferisce votarsi all’umanitario.

Certo, gli aiuti umanitari non risolvono i problemi a livello strutturale…
I pompieri che arrivano insieme ai piromani sono inutili. Forse l’unica cosa che ci aspettiamo dalla parte sana dell’Europa è che riesca ad invertire i destini di quell’economia mondiale che, mentre predica il mercato libero, si chiude a riccio in politiche neo-protezionistiche, che anela alla libera concorrenza mentre foraggia la sua agricoltura con i sussidi. Agli amici europei diciamo: fermate i piromani che partono da casa vostra e vi risparmierete la fatica di venire da noi a fare i pompieri.

Qual è la parte sana dell’Europa a cui fai riferimento, quale interlocutore immagini?
L’Europa ha una storia politica, civile, religiosa, scientifica ed economica che non lasacia indifferenti gli altri popoli del mondo. Penso che abbia in sé le risorse per non accettare supinamente l’imposizione di una globalizzazione unidimensionale che esalta ed estremizza gli aspetti quantitativi a danno di quelli qualitativi che sono la parte migliore delle radici del continente. Radici che hanno reso possibile il superamento di momenti difficili quando la sbandierata razionalità occidentale ha generato i mostri del totalitarismo e della violenza culminata nel sacrificio di milioni di cittadini europeidi origine ebraica. L’augurio che i popoli del Sud del mondo fanno all’Europa è che riscopra quella parte della sua identità che ammiriamo e che stentiamo a riconoscere nella crescente “macdonaldizzazione” dei modelli della sua cultura, società, mezzi di comunicazione. Ci spaventa l’Europa dell’individualismo, dell’indifferenza, del cinismo. Quest’Europa – purtroppo – l’Africa l’ha già sperimentata sottoforma di schiavitù, colonialismo e neo-colonialismo. I popoli dell’Africa sono pronti, invece, a ripercorrere le rotte transahariane per incontrare l’Europa della tradizione greco-romana, dell’arte e della letteratura, della social-democrazia, del cristianesimo sociale, del rispetto dei diritti umani. Un’Europa che non sempre ritroviamo nel Trattato di Maastricht o nella moneta unica.