[di Valeria Alpi • 11.06.04] Nel 2003 sono raddoppiati i consumatori, merito anche della grande distribuzione. Esplode in Italia il commercio equo e solidale: in 12 milioni lo conoscono, in 7 milioni hanno acquistato i suoi prodotti nel 2003. E si comincia a parlare di fenomeno di massa...

LA PARABOLA DEL COMMERCIO EQUO E SOLIDALE

Esplode in Italia il commercio equo e solidale: in 12 milioni lo conoscono, in 7 milioni hanno acquistato i suoi prodotti nel 2003. E si comincia a parlare di fenomeno di massa.

Lo conferma uno studio elaborato, per il secondo anno consecutivo, da GPF & associati su commissione della centrale di importazione Ctm Altromercato, effettuato su un campione rappresentativo composto da 2500 italiani tra i 15 e i 74 anni, intervistati nel settembre 2003. Il dato più sorprendente riguarda la notorietà del fenomeno: nel 2003 il 34,5 per cento degli italiani conosceva il commercio equo (12 milioni), contro il 23,3 per cento del 2002 (8 milioni). Che sta a significare che in un solo anno la conoscenza di “un’altra economia possibile” è quasi raddoppiata. Sono aumentati significativamente anche i consumatori che acquistano i prodotti equi: 7 milioni nel 2003, contro i 3,7 milioni dell’anno precedente. Almeno il 15% (1 milione), poi, li acquista abitualmente, il 50% (3,4 milioni) più volte all’anno e il 35% (2,4 milioni) una o due volte all’anno.

I motivi della crescita? Secondo Giovanni Gerola Ctm Altromercato, sono vari i fattori che vi hanno contribuito. Innazitutto la maggiore accessibilità della proposta: tra il 2002 e il 2003 le botteghe del mondo sono aumentate del 50%, rendendosi anche più visibili sul territorio. La bottega, come conferma lo studio, rimane in effetti il canale principale di acquisto: qui sono stati effettuati il 50 per cento degli acquisti nel 2003. Ma non bisogna trascurare il ruolo svolto dalla grande distribuzione nella crescita del settore. Lo studio di GPF lo conferma: una fetta consistente di consumatori (25,8%) nel 2003 hanno acquistato prodotti equi nei supermercati.

“La grande distribuzione ha contribuito ad attirare l’attenzione di nuovi pubblici”, afferma Gerola. Un altro motivo di crescita riguarda la nuova attenzione da parte dei media. “Dopo i fatti di Genova del 2001, è nata una nuova consapevolezza sulla necessità di riorientare l’economia mondiale – continua Gerola- e su questo aspetto il livello di sensibilità dei media è aumentato”. Che il commercio equo-solidale avanzi con passo spedito lo confermano anche i fatturati: in soli due anni Ctm Altromercato ha aumentato il suo del 50%. 
 
COMMERCIO EQUO E NUOVE SFIDE

Mentre i dati di crescita del fair trade (il “commercio giusto”), nato per promuovere un tipo di scambio tra Nord e Sud del mondo basato su un rapporto che fosse paritario e garantisse ai produttori un prezzo equo per il loro lavoro, sono entusiasmanti, lo stesso commercio equo e solidale si trova a far fronte ad una crisi. Per la precisione, e paradossalmente, una “crisi di crescita”. E’ quanto emerge dal libro di Lorenzo Guadagnucci e Fabio Gavelli La crisi di crescita. Le prospettive del commercio equo e solidale (pagine 160, euro 8, editore Feltrinelli), recentemente presentato anche a Bologna.

L’impennata dei fatturati impone grandi sforzi agli importatori. “Devono adeguare le strutture, assumere personale, accentuare l’apertura alle vendite nei supermercati senza scivolare in una logica puramente mercantile”, scrivono gli autori. Le botteghe italiane si scontrano sempre più con una serie di limiti: strutture poco sviluppate, difficile rapporto con i media, scarso dinamismo nel reperire risorse, poca collaborazione con altri soggetti esterni al movimento.

Inoltre: dentro o fuori dal mercato? “Dai Paesi poveri proviene una domanda generalizzata di maggiori sbocchi: più acquisti, più mercato”. Tuttavia “per molti soggetti del Nord, il raggiungimento di questo obiettivo marcia necessariamente di pari passo con la battaglia contro le iniquità del sistema economico e con la necessità di promuovere nei Paesi ricchi nuovi stili di consumo e di vita”. Il costante dibattito sulla natura del commercio equo diventa dunque sempre più cruciale di fronte alla possibilità di crescere stringendo alleanze con il mercato tradizionale. L’aumento esponenziale dei prodotti porta anche un’altra sfida: il passaggio ai beni industriali di massa.

Esperimenti importanti, come i palloni del Pakistan o i jeans Kuyichi, hanno già dimostrato la capacità del circuito equo di imbastire rapporti proficui con aziende private o cooperative di grandi dimensioni. All’interno del movimento ci si chiede se oggi questa strada vada percorsa con sistematicità. Per molti il profit può essere partner del fair trade, a patto che siano fornite alcune importanti garanzie, come il rispetto dei diritti sindacali e la sostenibilità ambientale. Ma chi può fare fede per le aziende? Un altro nodo irrisolto riguarda appunto la liceità e l’efficacia degli enti volti alla certificazione dell’equo-solidale. Già esistono marchi di garanzia a livello nazionale e internazionale, ma il dibattito resta aperto su molti punti: certificare i singoli prodotti o invece i soggetti totalmente “equi”? Quali criteri utilizzare?

La centralità dello stile dei rapporti Nord-Sud si evidenzia anche nelle numerose proposte di nuove alleanze e collaborazioni che il commercio alternativo potrebbe avviare. Sono molte le realtà con cui fino ad oggi si è dialogato ancora poco: dalla rete delle Ong al turismo responsabile, dalla produzione biologica al microcredito e alla finanza etica. La crescita impone nuovi interrogativi: si può essere professionali senza essere “aziendalizzati”? L’esperimento Ctm delle “Botteghe in partnership” si configura come un processo dall’alto e c’è chi vi intravede un rischio per l’ autonomia delle botteghe. Invece positivi si sono dimostrati i tentativi di ridurre il margine di guadagno dei negozi, a beneficio dei produttori.

Valeria Alpi


Fonte: Bandiera Gialla