Caro direttore, la parola d’ordine nelle stanze alte del Corriere è sopire, troncare, minimizzare, allontanare il fuoco dalla paglia, fare in fretta, soprattutto, a collocare il nuovo direttore sulla poltrona con l’Enciclopedia Treccani di spalle. Io mi sono dimesso stamattina perché non credo per nulla nella versione ufficiale delle dimissioni di Ferruccio De Bortoli – i motivi personali – e non credo neppure nelle assicurazioni date sulla continuità del giornale, più o meno provvisoria. Una conquista, persino, il meno peggio che potesse accadere, secondo alcuni protagonisti di questa vicenda che è un po’ il simbolo della vecchia politica delle stanze chiuse, dei patti riservati, degli occhieggiamenti, dei favori, delle poco sublimi mediazioni, delle trattative sottobanco, dell’eterna ambiguità. Mi dimetto per protesta. Contro l’arroganza del governo e dei suoi ministri, contro una Proprietà subalterna, contro le interferenze, difficili da negare, piovute dall’alto ai danni di un possibile libero giornalismo. In un momento grave per la Repubblica in cui non è certo il caso di fare gli struzzi. Ho consegnato la mia lettera di dimissioni alla Rita, una delle intelligenti segretarie di direzione e nel giornale deserto della prima mattina sono andato su e giù per i corridori dei vari piani. Ho dato un’occhiata alle vuote stanze della direzione, poi alla celebrata sala Albertini, coi tavoli simili a quelli del Times, con le lampade di ottone che hanno sostituito le lampade verdi. Chissà che cosa è successo qui dentro nel Novecento, conflitti, bassezze, viltà, crimini e misfatti. Ma anche il coraggio di tanti e la passione. Che cosa significa, mi sono detto, il concetto di continuità predicato ora in un giornale come questo che ha segnato la vita nazionale? Da Bava Beccaris e dalla parte dei suoi cannoni al fascismo dopo le non sempre focose resistenze di Albertini fino a quel famoso direttore del dopoguerra esaltato dai manuali, Missiroli, che era solito dire, negli anni 50: «Ci vorrebbe un giornale. Oh, se avessi un giornale!». La continuità arriva fino alla P2-Di Bella, Rizzoli, Tassan Din o per continuità – speriamo – si vuole intendere soltanto la parte civile della storia, Mario Borsa, Ottone, Cavallari, Stille, Mieli? E Ferruccio de Bortoli. Che ha diretto con dignità un giornale moderato dove a occupare la prima pagina sono stati soprattutto Panebianco, Galli Della Loggia, Merlo, Ostellino e qualcun altro, guardie bianche da cui Berlusconi non ha avuto certo da temere, soltanto benevolenza e consigli filiali. Io sono stato accolto da Ugo Stille nel 1987. Lo ricordo con affetto. Aveva lo sguardo di un uomo che molto sa e molto ha vista, sa del presente e intuisce del futuro, come l’ignoto marinaio del romanzo di Vincenzo Consolo. Con lui ho scritto molto, di cultura, di politica. Era curioso, gentilmente beffardo. Solo una volta parlò del suo grande amico Giaime Pintor. Nel 1999, poi, de Bortoli mi ha affidato una rubrica di politica e società, «Storie italiane», e in quattro anni non mi ha mai chiesto di togliere una riga o una sola parola garantendo con correttezza esemplare una rubrica dissonante dal resto del giornale. Sono grato anche a lui. «Come mai – dicono adesso gli ingenui cittadini di Milano che si incontrano per la strada e ti fanno domande allarmate – Ferruccio de Bortoli era inviso al governo o ad alcuni governanti e il suo successore non lo è?». «Come mai – dicono altri – si sostiene che non è successo niente?». Berlusconi vuole tutto. Non gli bastano le sue tre reti televisive, la Rai, i giornali parentali e quelli amici, le radio e le case editrici, come non succede in nessun paese del mondo. Il Corriere, nonostante non fosse nemico, era ed è un inciampo da togliere di mezzo. Perché adesso? Le elezioni non sono state un successo. L’economia ristagna. Non pochi elettori forzisti fanno i conti della spesa, il vecchio carisma del capo è entrato in crisi, il loro cuore è tremulo e intristito. Il semestre europeo può essere un ostacolo micidiale, non un’occasione dorata. E il Corriere conta, resta una spina, ha mantenuto intatto il suo prestigio. Può influenzare milioni di persone. Che cosa dà fastidio al Cavaliere? La quantità di informazioni che de Bortoli ha sempre cercato di dare non gli giova. Alcuni collaboratori di certo non gli piacciono, Giannelli e le sue vignette, qualcun altro, il professor Sartori, liberale autentico, che ha battuto per anni sull’incudine del conflitto di interessi e non si è stancato mai perché questo è l’insoluto problema generatore di tanti disastri reali e d’immagine per l’Italia in tutto il mondo. Il 15 maggio, Giovani Sartori ha avuto l’impudenza che non è stata perdonata né a lui né a De Bortoli di scrivere: «Lei ha dichiarato, signor Presidente del Consiglio, che “non sarà consentito a chi è stato comunista di andare al potere”. Queste cose le diceva Mussolini. Lei non ha nessun motivo di aver paura. Io sì». Figuriamoci il Cavaliere che con i suoi fedeli vassalli non ha mai dimenticato il no alla guerra di de Bortoli. Le pressioni governative sono state assillanti, padronali, offensive. A proposito dell’economia e di inchieste su questioni finanziarie. A proposito della giustizia, tema ossessivo. Il direttore de Bortoli l’ha affrontato nell’unico modo possibile per un giornalismo civile pubblicando gli articoli dei bravi, generosi e minacciati cronisti giudiziari che non ritengono il presidente del Consiglio e l’onorevole Previti al riparo dalle notizie documentate. Questi eminenti imputati dei processi di Milano che debbono rispondere di un reato comune così grave come la corruzione di magistrati e che stanno per ottenere l’impunità dalla maggioranza parlamentare con una legge ad personam che certo viola la Costituzione, vogliono essere liberati anche da ogni controllo dell’informazione. Sorretti dai loro avvocati-parlamentari che fanno il diavolo a quattro in difesa dei loro clienti. Le ricusazioni toccano anche alla stampa libera. Gli azionisti, poi. Quella del Corriere è una proprietà frantumata, un pentolone che contiene tutti i possibili beni e servizi, le auto, i cavi, le telecomunicazioni, i frigoriferi, la finanza, Mediobanca, le assicurazioni. Appassionati sostenitori del libero mercato gli azionisti si sono rivelati fedifraghi, bisognosi come sono delle stampelle e dei favori del governo che certo non dà senza nulla ricevere in cambio. Anche loro hanno protestato infuriati ed esterrefatti – un reato di lesa maestà – quando l’informazione economica del giornale ha rivelato, per alcuni, oscure verità su traffici e affari. Il capitalismo democratico è di là da venire. Anche coloro che deprecano a parole i comportamenti di una società che opera solo in nome degli interessi e lamentano la mancanza di idee e l’assenza di ideali, in quest’occasione non hanno rotto un fronte comune che non li rappresenta. Il grido della foresta è stato più forte. Mentre nella mia passeggiata d’addio dentro il giornale deserto passavo davanti alle stanze dell’Economia, al secondo piano, nel vecchio fabbricane di vetro, mi venivano in mente «gli interessi inconfessabili» denunziati da un grande maestro non certo marxista-leninista, Luigi Einaudi quando, forse proprio sul Corriere, si riferiva ai traffici dei cotonieri, dei siderurgici, degli armatori, degli agrari che si servivano dei giornali di cui erano proprietari non certo per difendere idee, ma per calcoli mercantili e usavano i loro poteri e i loro denari per promuovere disegni di legge adatti agli interessi di casa. Quel che è accaduto al Corriere è grave. È sbagliato usare anche qui i criteri perdenti della tattica anziché cercare di aprire un po’ la mente e capire quali possono essere le conseguenze rovinose di un Corriere del tutto addomesticato ai voleri di Berlusconi. E questo vale per la sinistra. Il cambio di un direttore di giornale avvenuto chiaramente per impulso governativo non è, come ha detto qualcuno dall’anima questurina, simile a un banale cambio di prefetti. Soprattutto in via Solferino, dove la forza della tradizione conta, nonostante la retorica, dove, malgrado tutto, anche se con fatica, il giornale ce l’ha quasi sempre fatta a uscire dalle tempeste. (La P2 non era un club di gentiluomini: basta ricordare che Giuliano Turone e Gherardo Colombo, allora giudici istruttori, arrivarono alle liste di Gelli indagando sulla mafia, sul finto rapimento di Sindona in Sicilia, sull’assassinio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli). Sono uscito dal palazzo pieno solo di ombre e di fantasmi scendendo per le antiche scale. Sulle pareti sono appese le fotografie dei redattori e dei collaboratori illustri. Mi guardano, li guardo. Soltanto alcuni, faziosamente. Memoria e monito. Giovanni Amendola, Benedetto Croce, Giovanni Verga, G.A. Borgese, Federico De Roberto, Eugenio Montale, Italo Calvino. E Ferruccio Parri, con i suoi occhiali sulla fronte.
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