[Oscar Mancini • 03.07.03] La spinta alla delocalizzazione è arrivata anche a Valdagno travolgendo il primo gruppo tessile italiano, quello nato 160 anni fa su un intreccio addirittura totalizzante tra la fabbrica ed il territorio secondo una ricetta concepita dal fondatore, il conte Gaetano Marzotto, ed esportata ad altre incipienti realtà industriali. Lo stuolo di nipoti, oggi al comando, guarda alla Rep. Ceca, alla Slovacchia e alla Lituania...

MARZOTTO STA ABBANDONANDO IL TERRITORIO

La spinta alla delocalizzazione è arrivata anche a Valdagno travolgendo il primo gruppo tessile italiano, quello nato 160 anni fa su un intreccio addirittura totalizzante tra la fabbrica ed il territorio secondo una ricetta concepita dal fondatore, il conte Gaetano Marzotto, ed esportata ad altre incipienti realtà industriali. Lo stuolo di nipoti, oggi al comando, guarda alla Rep. Ceca, alla Slovacchia e alla Lituania. E’ qui che sono sorti i nuovi e modernissimi stabilimenti del tessile (ormai completamente sparito dall’Italia) e che si stanno espandendo le fabbriche delle confezioni, mentre, dopo Manerbio, anche Noventa Vicentina sta chiudendo i battenti e le industrie storiche di Schio e Valdagno si stanno progressivamente ma inesorabilmente assottigliando. “Di questo passo, fra un po’ di tempo in Italia resterà solo la distribuzione”, preconizza Oscar Mancini, Segretario Generale della CGIL vicentina, che ha proposto alla FILTEA nazionale una grande iniziativa a Vicenza coinvolgendo i rispettivi Direttivi ed interloquendo con studiosi ed esperti. Queste, alcune sue considerazioni. Marzotto per Valdagno è come la FIAT per Torino e ciò che accade in questo gruppo ha indubbie ripercussioni sull’intero comparto nazionale. La cosa più preoccupante è che il disegno di progressivo spostamento delle produzioni fuori dall’Italia non viene esplicitato e nessuno tira fuori un piano industriale, nonostante le nostre continue richieste. Intanto, però, i dati sono inconfutabili. Marzotto è in ottima salute. Nel 2002 il suo fatturato è stato di 1,9 miliardi di euro (l’83% nella moda, il 17% nel tessile) con un incremento del 40% negli ultimi 4 anni. Nello stesso periodo il numero di occupati è salito da 9.605 a 11.653 dipendenti a livello di gruppo, ma è vistosamente e più che proporzionalmente calato in Italia (1.000 lavoratori in meno solo nell’ultimo anno) secondo una tendenza ancora in atto. Non mi sembra che siano necessarie particolari facoltà per capire cosa ha in mente la proprietà: un piano, inconfessato perché inconfessabile, di progressivo smantellamento della nostra più grande industria che costituisce ancora un pilastro irrinunciabile dell’economia della Vallata dell’Agno. Così, dopo aver “succhiato” l’ex gruppo Lanerossi acquistato alle fine degli anni ‘80, Marzotto punta ad una delocalizzazione spinta delle attività produttive, abbandonando la Vallata che l’ha generato.  Alla fine di questo processo Valdagno sarà diventata una città impoverita, trasformata in un dormitorio, mentre i giovani saranno indotti a cercare altrove prospettive di vita e di lavoro. Non può essere consentito a nessuno di liquidare un grande patrimonio industriale, accumulato nel corso di 160 anni, con il contributo di generazioni di operai, tecnici e impiegati e anche- perché no- di manager e imprenditori capaci che hanno creduto nell’industria. La questione è approdata al Consiglio Comunale, riunito la settimana scorsa in un’apposita seduta. L’amministratore delegato di Marzotto, ing. Favrin, ha motivato la strategia del gruppo, esponendo una tesi diffusa ma erronea secondo cui nell’economia basata sulle conoscenze e nella società dell’informazione e dei servizi l’industria manifatturiera non svolga un ruolo essenziale. Questa tesi è smentita dai fatti. La quota di PIL sul valore aggiunto dell’industria manifatturiera e dei servizi alle imprese è aumentata nell’ U.E. negli ultimi 12/13 anni dal 66 al 68% ed è aumentata pure l’occupazione dal 57 al 58%. Ne segue che, al centro di qualsiasi politica industriale dovrebbero essere collocati i problemi della grande industria manifatturiera che in Italia rischia di scomparire. La conferma l’abbiamo avuta le scorse settimane dal Governatore della Banca d’Italia: in pochi anni la quota italiana del commercio mondiale ha fatto un salto indietro di quasi 40 anni “al livello raggiunto a metà degli anni Sessanta” (ha detto testualmente). Infatti la quota del mercato è passata dal 4.5% del ’95 al 3.6% del 2002. Negli stessi anni Francia e Germania hanno guadagnato posizioni di mercato, perché si sono specializzate in settori e prodotti a più alto contenuto tecnologico. Fazio c’informa altresì che la perdita di competitività “è da riconnettere, in misura non secondaria, alla frammentazione del nostro tessuto produttivo. Le imprese italiane sono piccole … Se non integrate da grandi imprese, mostrano il loro limite nello sviluppo della produttività e nella capacità di competere”. Fazio ci dice che non si compete nel mercato globale con le piccole imprese, se esse non sono integrate con la grande impresa che ha le risorse e la dimensione adeguata. Come si concilia questa analisi con lo smantellamento del più grande gruppo tessile del paese? Né è convincente la tesi secondo cui questo discorso non sarebbe valido per il settore tessile e dell’abbigliamento in quanto “settore maturo”. Lo dimostra il fatto che nel corso del quinquennio 1997 – 2001, la quota del mercato tessile dell’Italia nel mondo è passata dall’8% del ’97 al 7.2 (-0.8%), e quella dell’ abbigliamento dal 7.9% al 7.4% (- 0.5%). Ne deriva che nel tessile l’Italia ha perso molto meno di quanto non sia avvenuto  per il mercato dell’auto e della chimica. Non ci sono dunque ragioni di ordine generale esterne alla Marzotto che giustifichino un processo di progressivo smantellamento della nostra più grande industria. Per questo la CGIL rivendica dal gruppo industriale della Marzotto un piano di rilancio e di riqualificazione delle produzioni. (Oscar Mancini, Segretario Generale CGIL Vicenza)