[Ettore Masina • 03.12.05] (...) Sui treni della banalità, dove i telefonini squillano in continuazione per messaggi inevitabilmente melensi, è raccomandabile tenersi eretti e vigili, avere fra le mani un buon libro, scoprire la gioia di cercare di rispondere a domande che noi stessi ci poniamo per non cadere nelle trappole del conformismo...

NOVEMBRE 2005. LA LETTERA DI ETTORE MASINA

LA SINDROME DI STALINGRADO

Nel 1941, un soldato tedesco che viveva ore terribili nell’assedio di Stalingrado fu con sua deliziata sorpresa raggiunto dalla concessione di una licenza-premio. Avrebbe potuto lasciare per una decina di giorni quell’inferno, riabbracciare per poche ore i suoi cari, insomma tornare a sentirsi ancora vivo. Riuscì a raggiungere una stazione ferroviaria, a imbarcarsi su un treno che correva e correva verso Occidente, e subito si addormentò. Dormì per due giorni, quasi ininterrottamente, la testa poggiata sul suo elmetto come su un comodo cuscino.

Quel soldato non arrivò mai a casa. Lo trovarono morto e i periti settori che esaminarono il suo cervello scopersero che  era segnato da un’infinità di micro-emorragie, provocate dai colpi ricevuti dall’elmetto quando il treno sobbalzava sui traversini e sugli scambi. Ho sentito parlare della “sindrome di Stalingrado” più di quarant’anni fa. Il giornale per il quale lavoravo mi mandò a Cremona a seguire un brutto processo, brutto da tutti i punti di vista: quello penale, quello culturale, quello ambientale. Per ciascuno di questi aggettivi potrei scrivere una pagina triste, ma adesso mi limito a dire che ricordo con grande pena quei giorni in una città bellissima ma gelida, e ostile ai forestieri. Il processo riguardava quattro ragazzi di Ca’ de Quinzani, un paesone della Bassa padana. L’anno prima, i quattro e alcuni loro amici cercavano di sopravvivere alla noia di una domenica, in un circolo enologico delle Acli (o una Casa del Popolo o un bar “laico”, questo non lo ricordo). Arrivò una ragazza  e disse che poco prima era stata assaltata dallo Scemo del villaggio, aveva cercato di metterle le mani addosso e le aveva sbavato contro una litania di oscenità. No, non era riuscito a toccarla, era troppo ubriaco, ma lei, naturalmente, si era molto spaventata.

Adesso i quattro avevano finalmente qualcosa che desse uno scopo alla domenica. La ragazza aveva spiegato che aveva visto lo Scemo abbattersi su un mucchio di paglia in una cascina abbandonata. Il piccolo improvvisato Ku Klux Klan andò a punirlo. Lo trovarono inebetito e gli diedero un po’ di calci, di schiaffi e di pugni. Forse, ma non è certo, usarono anche un bastone. Lo lasciarono a lamentarsi che lui non aveva fatto niente, la ragazza non l’aveva neppure vista. I quattro tornarono al bar, sentendosi degli eroi. Intanto la notizia dell’aggressione si era sparsa per il paese e la gente si domandava a che punto si sarebbe arrivati. Parve ai quattro di essere stati troppo misericordiosi. Tornarono alla cascina e somministrarono al mostro una nuova “buona lezione”. Questa volta lui non fece tante storie, non parlò neppure. Quando più tardi tornarono a vederlo,

era morto.

Il solito maresciallo dei carabinieri impiccione, nonostante il malcontento e l’omertà della popolazione fece delle indagini, poi informò la magistratura. Fu eseguita l’autopsia. Lo Scemo era stato ucciso dalla “Sindrome di Stalingrado”: nessuno dei colpi subiti era stato mortale, mortale era stata la reiterazione delle percosse. (Se a qualcuno interessa: i quattro furono condannati al minimo della pena per omicidio preterintenzionale).

I COLPI DELLA SCEMENZA

Mi capita di ripensare spesso alla “sindrome di Stalingrado”, sentendomene vittima. Non parlo, naturalmente, di fisicità. Vivo una vita tranquilla, riparata e protetta, i guai della vecchiaia sono – come dire? – di bassa intensità, godo di grandi affetti e mi sembrerebbe di poter dire: di grandi amori. I colpi che mi arrivano sono morali, culturali, sono quelli della scemenza, e peggio, di certa televisione, come la volgare banalità dell’Isola dei famosi. O il voyeurismo del Grande Fratello. Peggio ancora sono quelli della pubblicità, soprattutto di quella automobilistica. Fateci caso: c’è uno spot di alto livello formale in cui un bellissimo bambino diventa sempre più grande violando le leggi del traffico e quando è ormai diventato un bellissimo adolescente si trasforma in macchina: neppure la più sadica delle favole dei Fratelli Grimm, che funestarono l’infanzia di quattro o cinque generazioni, approdò a tanto orrore. C’è un altro spot in cui un bambino domanda al padre se voglia più bene a lui o all’auto, e il padre lo rassicura, ma sbagliando il nome del piccino. Che ridere, vero?

GIORNALISTI ARRUOLATI DAL POTERE

È strano come per significare una vita noiosa, sonnolenta, in ultima analisi squallida, si ricorra a immagini ferroviarie: routine o tran-tran (che è per l’appunto il rumore che il convoglio fa passando su traversini e su scambi); dunque la metafora della “sindrome di Stalingrado” sembra appropriata. Sui treni della mediocrità in cui siamo costretti a viaggiare, ponendo il capo appoggiato all’elmetto di inutili difese, le nostre idee si piagano di microemorragie culturali e spirituali.

Ho parlato della televisione, ma non è che la carta stampata funzioni meglio. Molti anni fa, i direttori dei quotidiani e dei settimanali si vantavano di avere scatenato i loro giornalisti “d’assalto” su temi effettivamente di rilievo sociale; e la grande inchiesta era il sogno di noi giovani cronisti: tampinavamo i superiori perché ci lasciassero indagare, andavamo a porre domande scomode a personaggi restii a risponderci – e qualche volta minacciosi, sapendo di poterlo essere; ci sfiancavamo ricercando e poi esaminando attentamente documenti “riservati” scritti in tecno-burocratese, in cui il potere ammetteva fallimenti, pressapochismi e peggio. Rischiavamo querele, odii, tentativi degli editori di metterci un freno; sparivamo di casa per settimane, e quarant’anni dopo le nostre mogli ce lo rimproverano ancora. No, non eravamo migliori dei giornalisti di oggi, i quali, per molti versi, sono, anzi, poliglotti come noi non ci sognavamo di essere, tecnologicamente avanzati – e non meno intraprendenti di noi. La cosa triste è che troppo spesso, più di noi, almeno alcuni, accettano di essere embedded, cioè di lavorare sotto controllo, non soltanto  sui fronti di guerra ma anche sui fronti politici (ed economici, che sono la stessa cosa); e invece delle grandi inchieste ripiegano sui pettegolezzi o  sui sondaggi d’opinione: i quali delineano quasi sempre caricature della realtà su cui i politici si precipitano a rimodellare la loro attività retorica, contribuendo a far sì che la caricatura diventi realtà. A questo modo la balla, come la chiamavamo noi vecchi, o la bufala, come si dice oggi, acquista grande valore, sembra inoppugnabile. Berlusconi può raccontare quel che gli pare (compresa la cattura di duecento terroristi. A quando una Guantanamo dalle parti di Pontida?), lamentandosi poi come un bambino malmenato se qualcuno lo smentisce; chi protesta per la prevalenza data agli interessi della Gente Che Conta è considerato (antica accusa) un vetero o (accusa aggiornata) uno Zapatero anticristo, un manipolatore della brava gente delle vallate alpine, un nemico del progresso eccetera. Sembrano trionfare il luogo comune al posto del ragionamento, il revisionismo becero invece che la storia (ne vedremo delle belle nelle scuole devolutioned!), le violenze sessuali in primissimo piano nei tiggì, sempre che i bastardi sospettati siano terzo-mondiali; il quotidiano discorso del nuovo papa riassunto in modo che si avverta soltanto odore di incenso; la vita di Giovanni Paolo II ridotta nella fiction RAI ad affanose sequenze di colpi di scena. Non basta? Ma sì, mettiamoci anche la cultura Cultura: non si trova un’università che conferisca una laurea honoris causa a Pietro Ingrao, testimone del Novecento e vivente icona del movimento per la pace, o a don Ciotti, tanto per fare un altro nome: ma un senato di Imbecilli in toga, tocco e magari ermellino ne assegna una a Vasco Rossi, quello che insegna ai giovani a cantare “Voglio una vita che se ne frega”. Nel campo dell’editoria vanno fortissimi, insufflati da critici “della Casa”, boiate come “La verità del ghiaccio” o, peggio, “Cento colpi di spazzola”, mentre nelle classifiche non compare il più bel libro degli ultimi mesi, “Càpita”, dell’indimenticabile Gina Lagorio.

CENSURE

Clericalismo e anticlericalismo tengono ormai le nostre cronache e anche questo è una spettacolo penoso. Gli atei devoti (i Ferrara, i Pera) cercano di arruolare i vescovi per le loro battaglie di Lepanto; i politici della destra chiedono al Vaticano e alla CEI  pubbliche elargizioni di paternità, di ortodossia, di benevolenza  elettorale per i privilegi accordati dal loro governo alle istituzioni ecclesiastiche; il Vaticano e la CEI si lasciano apparentemente sedurre. Vedremo cosa offriranno le celebrazioni del quarantesimo anniversario del Concilio. Per il momento, dopo un passo notevole a riconoscimento della legge 194 (scambiato dalle femministe e da pressapochisti delle sinistre, per l’automaticità dei pregiudizi, attacco alla libertà delle donne), Ruini offre a Berlusconi l’intensificazione del tentativo di mettere la mordacchia al movimento cattolico della pace: prima pone sotto tutela i francescani di Assisi, poi censura le scelte di Pax Cristi, ordinando: niente Arturo Paoli come predicatore della veglia liturgica di San Silvestro, niente Francesco Comina, giornalista che doveva intervistarlo. Arturo ha 93 anni, ma risulta ancora pericoloso al benemerito vicepapa italiano: il porporato, del resto, è lo stesso che ha sempre sbiadito le radicali condanne della guerra di papa Wojtyla, ha impedito la  partecipazione delle organizzazioni cattoliche al Forum di Firenze, ha scavalcato quell’orrore evangelico che è il vescovo castrense per porsi lui stesso come cappellano di Stato ai funerali per i poveri morti di Nassirya,

ASCOLARE I POVERI

L’elenco delle pubbliche mediocrità potrebbe continuare, come ben sapete, molto a lungo ed è bene ogni tanto aggiornarlo. Assai più importante, tuttavia, è sapere a quali rischi siamo soggetti. Sui treni della banalità, dove i telefonini squillano in continuazione per messaggi inevitabilmente melensi, è raccomandabile tenersi eretti e vigili, avere fra le mani un buon libro, scoprire la gioia di cercare di rispondere a domande che noi stessi ci poniamo per non cadere nelle trappole del conformismo; ascoltare i bambini; inventare feste; parlare, sottovoce, con chi ci sta accanto per sapere se, per caso, non siamo meno soli di quanto crediamo; avere il coraggio di innamorarci; guardare dai finestrini e domandarci se non c’è proprio niente che possiamo fare per frenare gli assalti al Creato; e nelle grigie stazioni di questo inverno ascoltare i poveri: quelli che gridano e quelli che mormorano, essendo gli uni e gli altri i più esatti definitori della civiltà in cui noi e loro viviamo. Forse può anche essere un programma per il Natale.

Ettore Masina

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