[di Maria & Elisa De Falco Marotta • 14.12.02] Intervista a Stephen Frears, alla 59.ma Mostra del Cinema di Venezia

QUELLE SPORCHE, “GRAZIOSE” COSE QUOTIDIANE CHE SI FANNO IN EUROPA

 Nei paesi europei si sta sviluppando un commercio illecito di esseri umani, che approfitta dell’immigrazione illegale. Nell’industria tessile, come negli altri settori, compreso l’alberghiero, per non parlare del mercato del sesso, specie dei minorenni, predominano pratiche che ricordano il mercato degli schiavi. Secondo la World Health Organization e la Crime Prevention and Criminal Justice Branch delle Nazioni Unite, vive, poi,  un prospero, sporco traffico illecito di organi. Non è il Medioevo, né il tempo della tratta dei neri, ma la compravendita degli esseri umani, è la nuova schiavitù del Terzo Millennio. Ogni anno circa 700 mila persone(ma le stime sono approssimative)sono oggetto di traffico nel mondo. In Europa il fenomeno riguarda le donne, ma sempre di più i bambini, di cui non c’è alcuna traccia negli schedari della polizia. I governi dell’Unione europea hanno tenuto nel settembre 2002 una conferenza, assieme a molte Ong, per  dichiarare guerra ai mercanti di uomini. Si doveva arrivare ad una dichiarazione congiunta, quella appunto, di Bruxelles, rimandata  sine die, per l’impossibilità di trovare uno straccio di accordo comune sull’esigenza di perfezionare la legislazione europea per distinguere tra gli immigranti clandestini quelli che vengono per delinquere e le vittime di commercio umano. La Dichiarazione di Bruxelles è importante, perché dovrebbe essere la base per i futuri adeguamenti delle misure nazionali e, in prospettiva, per la creazione di uno strumento legislativo europeo che permetta di affrontare in modo nuovo ed efficace il dramma della nuova schiavitù. Parecchi governi stanno affrontando la grande sfida dell’immigrazione dai paesi poveri, però la sensazione è che la volontà politica sia ancora la grande assente per risolvere la spinosa questione. Intanto le Ong e la cultura non si danno pace. Magari presentano il problema in modo schoccante come ha fatto il regista inglese Stephen Frears con Dirty Pretty Things (59.ma Mostra di Venezia). Il film che è un pugno nello stomaco e non lascia indifferenti neanche quelli che hanno il cuore più duro dell’acciaio, tratta il  difficile tema dell’inserimento degli immigrati clandestini nell’odierna società inglese che, in quanto agli immigrati, è stata sempre molto ospitale, per la questione delle sue numerose colonie. Tutta la storia ruota sulla figura di un immigrato clandestino nigeriano Okwe, bravissimo, misurato, umanissimo Chjwetel Ejiofor che riesce a vivere nella capitale britannica esercitando un doppio lavoro: tassista e portiere di notte in un vecchio albergo di West London. In questo lussuoso albergo alcune camere sono destinate a delle prostitute per un trattamento speciale riservato a certi clienti. Senza fissa dimora e in attesa del permesso di soggiorno, l’onesto nigeriano e’ costretto a vivere in uno squallido appartamento di periferia con Senay, una giovane cameriera turca che lavora nel suo stesso albergo anche se la legge non lo permetterebbe. Una notte Okwe, per riparare un guasto nel bagno di una camera, scopre la sconcertante presenza di un cuore umano. Preoccupato, ne parla con il resto dello staff e con gli amici e inizia ad indagare. Ben presto scopre che l’albergo dove presta servizio è al centro di un ampio e sudicio scambio clandestino di organi, gestito dal proprietario dell’albergo, un fosco personaggio senza scrupoli, che scambia organi trapiantati da immigrati con passaporti e permessi di soggiorno riservati agli stessi. Okwe, medico e uomo generoso, si convince di dover agire per fermare tale illegalità criminale, in cui  viene coinvolta anche la bella Senay. Un modo davvero originale, quello che propone Frears, di affrontare le angosce e le difficoltà legate all’inserimento degli immigrati clandestini nelle opulente società occidentali. Il nucleo più vigoroso toccato dal regista inglese è una dolorosa ferita purtroppo ancora lontana dall’essere rimarginata: il giro clandestino di organi legato alla disperazione di tanta gente, è gestito da uomini senza scrupoli. La situazione descritta è aberrante: tantissimi immigrati irregolari, che non potendo rivolgersi alle autorità per avere un aiuto, sono sfruttati, costretti non solo a fare turni di lavoro massacranti, ma anche a mettere la propria vita a repentaglio, nelle mani della criminalità. Naturalmente queste ”sporche piccole cose” sono mirate alla conquista di un permesso di soggiorno o un passaporto che in una società democratica dovrebbero essere diritti acquisiti. La legge e lo stato sono screditati: ci si adopera con solerzia solo nel reprimere e perseguitare, piuttosto che nel comprendere e dunque nel riformare. Londra allora si trasforma da sogno in un’enorme trappola dove migliaia di lavoratori immigrati vivono di stenti, senza alcun tipo di tutela e costretti a gesti impensabili. Questo è il triste quadro in cui è ambientata la storia del giovane nigeriano Okwe che decide di ribellarsi a questa situazione. Il suo personaggio, che in un mondo di corruzione e lassismo decide di rimanere moralmente integro e di non prestarsi allo sporco gioco in cui viene suo malgrado trascinato, è uno dei migliori della filmografia di Stephen Frears. Il regista de Le relazioni pericolose costruisce la figura di Okwe legandola strettamente a quella di Senay (interpretata dalla bravissima Audrey Tautou, ex Amelie Poulaine) e alle problematiche connesse alla loro situazione di immigrati. Il merito di Frears è quello di non aver fatto di questo personaggio un eroe, errore in cui facilmente si sarebbe potuti cadere, se il film non fosse stato costruito in maniera così magistrale. Il nigeriano è dopo tutto un uomo che conserva i suoi difetti, le sue piccole manie, i suoi limiti, ma che riesce alla fine ad avere la forza di salvare Senay e di scendere (ma  solo per finta: il finale è da gridare: Arrivano i nostri!) a patti con il diavolo. Il film accenna anche a temi come l’amicizia, la complicità tra poveri, l’incontro tra diverse culture, in modo soft, delicato, coerente, come solo i buoni cineasti sanno fare. DOMANDA: il suo film è toccante, ma propositivo. Il problema etnico è sempre così lacerante? Stephen Frears : «C’è un quartiere periferico di Londra che è abitato da Immigrati giunti da ogni angolo della Terra, ciascuno con i propri usi e costumi e. soprattutto, con la propria lingua. Circa 80 sono gli idiomi parlati nel quartiere, che si chiama Tower Hamlets, ma che è stato ribattezzato come  Tower of Babel, “Torre di Babele”. I tantissimi  bambini di Tower Hamlets hanno imparato presto a giocare insieme, ma riescono a comunicare con una certa difficoltà, anche perché da una ricerca effettuata risulta che pochi, pur abitando nella capitale dell’Inghilterra, non hanno mal sentito parlare in inglese. E questo, credo, si sta verificando anche in altre parti dell’Europa».

DOMANDA: il suo film, seppure in sottofondo, fa intuire le laceranti tensioni etniche che troppo spesso sono celate dai media.
Stephen Frears: «A fine maggio del 2001, il sobborgo di Oldham è stato teatro dei più gravi scontri razziali degli ultimi venti anni in Gran Bretagna: oltre cinquecento i dimostranti asiatici scesi in piazza, un centinaio di estremisti di destra del British National Party (Bnp) coinvolti nella guerriglia urbana e venti poliziotti finiti all’ospedale in una sola notte. In questo grande centro della cintura metropolitana di Manchester le minoranze etniche costituiscono l’11 per cento della popolazione e il loro numero pare destinato a raddoppiare entro il 2011. Allo stato attuale sono censiti 16mila pakistani, novemila bengalesi e 1.600 indiani. Dopo Oldham, nell’arco di qualche settimana sono esplose Burnley, Stoke e Bradford. Sempre la stessa dinamica, giovani asiatici senza più un filo di pazienza ed estrema destra bene in guardia, spesso impegnata a soffiare sul fuoco. Si trattava di una bomba a tempo, in attesa soltanto di un’occasione per far male a qualcuno. Il risultato è stato che, alle elezioni del 7 giugno, il Bnp ha toccato il suo massimo storico con l’11 per cento dei voti. Ora il paese è preso tra la preoccupazione sincera per il futuro delle aree depresse del nord e una gran voglia di dimenticare. A fine 2001 è stato finalmente reso pubblico il rapporto Cantle, frutto del lavoro di una commissione incaricata di fare chiarezza sugli eventi della scorsa primavera e di individuare una cura per una piaga che rischia di compromettere la fragile convivenza interetnica. Al di là della retorica su Londra come città globale europea e sulle trecento lingue parlate nelle scuole della capitale, questo non è un paese pacificato, sebbene abbia fatto molta strada rispetto ad altre esperienze europee. Considerata la portata e la natura particolare dell’immigrazione in Gran Bretagna è facile avere un’idea di quale sgomento possa suscitare nei cittadini il guardarsi attorno e, in alcuni casi, scoprire di vivere in una società segregata. Il Regno Unito conta 4 milioni di immigrati non bianchi, più dell’intera popolazione della Repubblica Irlandese. Di questi, poco meno della metà vive nella capitale e il resto in comunità disperse nel  paese, con una maggiore concentrazione nelle ex aree ad alta densità industriale del nord inglese.

DOMANDA: tutto ciò mette un senso di angoscia, perché si pensava all’Inghilterra come una specie di Eldorado per gli immigrati.
Stephen Frears: «Nel  1948 approdava nel  porto di Tilbury la prima nave carica di immigrati dalle Indie Occidentali  e il Times del 1951 per dare un’idea di quale importanza strategica avesse la manodopera proveniente dal Commonwealth scriveva: “Il risultato dell’immigrazione può essere misurato direttamente in termini di più cibo per i lavoratori, più carbone per le industrie vitali, più tessuti per l’esportazione e più mattoni per le case.” Il 1956 vide 30mila lavoratori dall’ex impero arrivare legalmente in Gran Bretagna, poi un’ondata di ricongiungimenti famigliari e continui flussi migratori hanno portato ai numeri di oggi.

DOMANDA: da ciò che dice e da quanto mostra nel suo film, non c’è troppa comunicazione tra le varie comunità etniche che si sono formate nel tempo sia a Londra che in altre parti del paese.
Stephen Frears: «La gente comune pensa che è inconcepibile  per le autorità sistemare le orde di immigrati accanto ai residenti britannici: bianchi vicino a pakistani, indiani ed altri gruppi. Era inconcepibile anche per chi veniva da fuori, e non è difficile da comprendere. Infatti, basta guardarsi intorno per vedere in un lampo cosa può essere stato per queste famiglie asiatiche trovarsi a vivere in pieno Nord Europa, di quanto fosse importante e addirittura vitale per loro, rifondare in fabbrica o nel vicinato isole di familiarità. Poi i decenni sono passati e il tasso d’interrazialità nelle scuole di alcune zone è oggi dello zero per cento. Ciò significa che se un bambino bianco vive per caso nella parte ‘sbagliata’ della città, avrà soltanto compagni asiatici e viceversa. Per esempio, a Glodwick, nello spazio di poche centinaia di metri, si contano tredici moschee: praticamente una in ogni strada. I passanti salutano gentili. Non pare esserci aria di tensione finché non si incontrano i primi gruppi di adolescenti. Recentemente la polizia ha ufficialmente negato che zone come questa fossero “no go”, assolutamente chiuse per i bianchi. Forse lo saranno, ufficialmente, ma i ragazzi del posto hanno ogni  intenzione di far capire allo ‘straniero’ che andarsene potrebbe essere davvero l’idea migliore. Sono arrabbiati, parlano di “discriminazione da codice postale”, perché affermano di non poter trovare lavoro quando confidano il loro quartiere di provenienza. Non hanno niente di asiatico negli abiti che indossano, come gran parte dei loro genitori, né i modi, né alcun accento. Sono nati e cresciuti nello Yorkshire e hanno gli identici atteggiamenti, e perfino le manie, degli adolescenti europei. Sono anche irrimediabilmente aggressivi come molti dei loro coetanei e l’abuso razziale nei loro confronti deve aver prodotto qualcosa di simile a una doppia ferita: non si sentono solo discriminati, ma anche impossibilitati ad avere un’identità che non sia quella di provenienza delle loro famiglie. Non possono contare sulla comunità per rassicurarsi e non hanno l’atteggiamento accondiscendente dei più anziani che, avendo vissuto le pene dell’arrivo, hanno la sincera percezione di non essere del tutto a casa loro».

DOMANDA: e a livello politico, che si fa?
Stephen Frears: «Il rapporto dell’ex sindaco di Nottingham, Ted Cantle, ha costretto il paese a guardarsi allo specchio: l’auto- segregazione delle comunità è stata riconosciuta come la principale causa degli ultimi episodi di violenza e come una realtà sulla quale intervenire senza esitazioni. Nel rapporto si parla di una polarizzazione nei rapporti tra bianchi e non bianchi e, letteralmente, di “comunità che conducono vite parallele”. La via per sciogliere questo nodo è indicata sorprendentemente in un nuovo e condiviso concetto di identità nazionale che possa e debba riguardare tutti. Si propone addirittura una specie di dichiarazione di fedeltà “primaria” al Regno Unito (pensata sul modello del giuramento di cittadinanza canadese) da sottoporre ai cittadini britannici acquisiti. La conoscenza della lingua inglese dovrà inoltre essere esaminata più attentamente durante il processo di naturalizzazione. Per quanto riguarda le soluzioni a breve termine, sarà suggerita una soglia minima di interrazialità del 25 per cento nelle scuole sia statali che private e una più equa distribuzione dei fondi pubblici per il risanamento delle aree a rischio che, secondo l’estrema destra, tende a beneficiare prevalentemente le minoranze. L’intento è quello di far crescere un senso di identità nazionale interetnica che rispecchi la composizione sociale del Regno Unito. L’idea è quella di creare una società multirazziale e consapevole, con identità diverse ma valori condivisi, che veda culture diverse convergere verso l’obiettivo comune della convivenza pacifica. E` un’idea basata sul riconoscimento dell’altro, che non prevede punti ciechi o segmenti della società che restino fuori. I ragazzi asiatici rappresentano un buco nero per il rapporto Cantle. Conoscono l’inglese come loro lingua madre, ma non si riconoscono pienamente nella cultura britannica. Sarà difficile per loro accettare il nuovo senso di identità nazionale. I loro genitori lavoravano quasi tutti nell’industria tessile e ciò contribuiva a dare forza alle loro aspettative e sicurezza nella vita quotidiana. Ma oggi il lavoro tessile è praticamente scomparso nello Yorkshire e il futuro dei giovani è tutto da inventare. Ben pochi credono che qualcuno pensi sul serio a migliorare la loro condizione. Ed è difficile non dar loro ragione».

DOMANDA: il suo film, però, pur facendo capire le violente tensioni etniche tra le varie comunità, affronta un tema spaventoso: il commercio degli organi, su cui vi sono ancora molti tabù. E’ stato bravissimo.
Stephen Frears: «Purtroppo, più di quanto si pensi, vi sono delle persone usate anche per lo schifoso mercato degli organi per i trapianti. È una realtà brutta, sporca e cattiva quella su cui l’Europa sta aprendo gli occhi . Una realtà con la quale, con colpevole ritardo, si comincia a fare i conti. Il mio film è lo spaccato di una realtà in espansione. Non la condivido affatto, ma capisco chi, disperato, vende un rene per avere soldi e documenti. Se tanti immigrati non fossero obbligati alla clandestinità, non cadrebbero vittime della criminalità. Mi auguro che la storia che racconto, spinga tutti ad una maggiore comprensione verso loro che non sono tutti delinquenti e la legge ad un più efficace controllo  per contrastare il traffico di esseri umani  che è, nel mondo, il più grande business banditesco, dopo quello di droga e di armi».

IL MERCATO DEGLI SCHIAVI : 12.500.000.000 di dollari l’anno. Per la Oim (Organizzazione internazionale delle migrazioni) è questo il giro d’affari del traffico di esseri umani; 4.000.000 le persone “schiavizzate” nel mondo annualmente; 500.000 i “nuovi schiavi” che ogni anno giungono in Europa occidentale; 500.000 nella sola Europa occidentale le donne coinvolte nel traffico finalizzato allo sfruttamento della prostituzione; (dai giornali italiani, settembre 2002).


SCHEDA BIOGRAFICA DI STEPHEN FREARS
La carriera cinematografica di Frears e’ un continuo oscillare tra i richiami luccicanti del cinema statunitense ed il ritorno a quella madrepatria che quasi vent’anni fa ne decreto’ l’enorme fama: fece scalpore in questo senso, nel 1999, l’adattamento di un romanzo assolutamente impregnato di umore british, come Alta fedeltà, ambientato dal regista  a Chicago. Con il suo ultimo film, Dirty Pretty Things, presentato alla 59.ma Mostra di Venezia, le ambientazioni ricordano molto da vicino quelle dei primi, arrabbiati, lungometraggi di successo, quali My beautiful laundrette (1985) o Sammy e Rosie vanno a letto (1987). In Dirty Pretty Things  rappresenta in modo convincente il sottobosco dell’immigrazione clandestina in una Londra livida e squallida.  Nato a Leicester, in Inghilterra, il 20 giugno 1941 e laureato in legge a Cambridge, ha iniziato a collaborare con il Royal Court Theatre di Londra, dove ha conosciuto i registi Karel Reisz e Lindsay Anderson. Assistente di Reisz nel film Morgan matto da legare (1966), con David Warner e Vanessa Redgrave, Stephen Frears è stato aiuto regista di Lindsay Anderson in Se… (1968), con Malcolm McDowell, e ha collaborato a L’errore di vivere(1968), diretto ed interpretato da Albert Finney. Nel 1972, Frears dirige il suo primo film, Gumshoe. Poi, realizza diversi film per la televisione, affinando le proprie capacità e sviluppando una tecnica basata su un metodico e duro lavoro svolto con attori e sceneggiatori. Nel 1984, dirige l’originalissimo road movie Il colpo, con Terence Stamp e John Hurt, e l’anno dopo ottiene il suo primo successo con My Beautiful Laundrette (1985), girato in 16mm per la televisione britannica e poi distribuito nelle sale cinematografiche. My Beautiful Laundrette segna anche l’inizio della collaborazione di Frears con lo scrittore anglo-pakistano Hanif Kureishi, continuata con Sammy e Rosie vanno a letto (1987). Dopo Prick Up – L’importanza di essere Joe (1987), adattamento cinematografico della biografia di Joe Orton scritta da John Lahr, a Stephen Frears si aprono le porte di Hollywood con il film Le relazioni pericolose (1988), tratto dalla versione teatrale di Christopher Hampton del capolavoro di Pierre Choderlos de Laclos. Nel 1990, Martin Scorsese produce Rischiose abitudini, con John Cusack, Anjelica Huston e Annette Bening, seguito da un altro film americano, Eroe per caso (1992), con Dustin Hoffman, Geena Davis e Andy Garcia. Poi Frears dirige due film a basso costo, tratti dai romanzi di Roddy Doyle e ambientati a Barrytown, un sobborgo di Dublino: The Snapper (1993) e Due sulla strada – The Van(1996). Dopo Mary Reilly (1996), con Julia Roberts e John Malkovich, The Hi-Lo Country (1998) e Alta fedeltà (2000), con John Cusack, il regista inglese ha realizzato Liam (2000), interpretato da Ian Hart e Anthony Borrows, un eccezionale piccolo attore di cui sentiremo ancora parlare.

Filmografia: Dirty Pretty Things (2002) Alta fedeltà (2000) Liam (2000) A prova di errore – TV (2000) The Hi-Lo Country (1998) Mary Reilly (1996) Due sulla strada (1996) The Snapper (1993) Eroe per caso (1992) Rischiose abitudini (1990) Le relazioni pericolose (1988) Prick up – L’importanza di essere Joe (1987) Sammy e Rosie vanno a letto (1987) My Beautiful Laundrette (1985) Vendetta (2) (1984) Sequestro pericoloso (1972) .