[di Gad Lerner • 08.09.2001] "La guerra di religione, la guerra delle appartenenze, si conferma come il più terribile fattore di disgregazione dell'età contemporanea". Sempre meno palestinesi contro israeliani, sempre più arabi contro ebrei: questo è il terribile salto di qualità del conflitto in corso nel Medio Oriente.

RELIGIONI: MORS TUA, VITA MEA

La guerra si è trasformata da patriottica in religiosa, l’appartenenza all’uno o all’altro popolo prevale su qualsiasi possibile sensibilità comune. Certo, già negli anni trenta del secolo scorso c’era chi metteva le bombe ai mercati frequentati dall’altro popolo, chi se la prendeva con i civili inermi. Ma la contesa, anche la più aspra, riguardava la definizione di confini, la salvaguardia di diritti civili e libertà di culto. Si rischiava la morte in difesa della propria causa, ma non si sceglieva mai il suicidio militante quale benefico martirio, imbottiti di tritolo per sterminare il maggior numero possibile di appartenenti alla comunità nemica. Questa involuzione non solo rende sempre più difficile separare le ragioni dai torti degli opposti contendenti, ma sembra fatta apposta per disorientare le loro leadership. Arafat e Sharon sono due coetanei abituati da una vita a farsi la guerra, ma si è sempre trattato di una guerra convenzionale, fatta di scontri sui confini, calcoli diplomatici, guerriglia sul territorio nemico, episodi di pulizia etnica, invasioni e ritirate.Sembrerà paradossale, ma sono sicuro che i due falchi mediorientali oggi provano nostalgia per quella guerra tradizionale della quale erano diventati esperti condottieri. Non a caso Sharon ha cercato di coinvolgere la Siria nel conflitto: è più facile misurare le forze con un esercito in divisa che con una popolazione ribelle che vive sugli stessi tuoi territori. Non a caso Arafat soffre di un evidente ridimensionamento della sua leadership: tornano a prevalere i clan territoriali, come nella preistoria del movimento palestinese. Da questo punto di vista, l’attuale situazione somiglia molto a quella della Palestina di prima del 1948, cioè di prima della nascita dello stato israeliano. Lo verificherà facilmente chiunque legga lo straordinario libro dello storico “revisionista” israeliano Benny Morris, appena tradotto in italiano (Vittime, editore Rizzoli). All’epoca non esistevano zone interamente abitate da ebrei e altre interamente abitate da palestinesi. Dunque gli scontri potevano scoppiare improvvisamente dappertutto, perfino nel cuore delle città più importanti, da Gerusalemme, a Jaffa, a Haifa. Oggi è di nuovo così. Nessuno può illudersi di allontanare la guerra da casa propria, la minaccia incombe dovunque, ogni strada d’Israele o di Cisgiordania può essere sede di un agguato, i figli possono essere bersaglio di proiettili vaganti, o sequestrati e linciati mentre vanno a spasso da soli. È inevitabile, quando a combattersi sono popolazioni che coabitano mescolate tra di loro, sospinte da decenni d’odio a reputarsi incompatibili. Il mors tua, vita mea spiega anche le prese di posizione degli intellettuali pacifisti israeliani che tanto stupore hanno suscitato in Italia, fra i loro devoti seguaci. Com’è possibile, ci si è chiesti, che David Grossman, Amos Oz, Avraham Yehoshua, da sempre critici nei confronti dell’intransigenza militarista israeliana, proprio loro che hanno saputo infrangere il tabù del palestinese come nemico eterno, oggi si schierino dalla parte di Sharon e attribuiscano ad Arafat la colpa del fallimento della pace?Non sono impazziti, questi intellettuali. Non è che di colpo si sono innamorati di Sharon, cioè dell’uomo contro cui guidarono le manifestazioni pacifiste degli anni ottanta. Semplicemente tornano a sentire minacciata, dall’irriducibilità del nemico, la propria stessa esistenza. E anche per loro, come per chiunque altro, l’esistenza viene al primo posto.  La guerra di religione, la guerra delle appartenenze, si conferma così come il più terribile fattore di disgregazione dell’età contemporanea, cioè dell’età in cui siamo destinati a convivere tra diversi.