[a cura di  Maria De Falco Marotta & Antonio De Falco • 27.10.03] Nella storia, è noto che le donne rivestono un ruolo marginale, specie nelle religioni e nelle guerre. Però da sempre, i valori della famiglia, dell’amore, della maternità e paternità, della pace, dell’infanzia sono connessi alla cultura femminile. Poiché il “male” è una terribile realtà di ieri quanto di oggi, la donna come si comporta di fronte ad esso? Semplicemente dicendo: Se Dio non può aiutarmi, sarò io ad aiutare Dio (Cfr. Luisa Muraro, Il Dio delle donne, Mondadori 2003)...

«ROSENSTRASSE» DI MARGARETHE VON TROTTA. NEL PIENO DEL NAZISMO, A BERLINO, C’ERA «IL DIO DELLE DONNE»

Nella storia, è noto che le donne rivestono un ruolo marginale, specie nelle religioni e nelle guerre. Però da sempre, i valori della famiglia, dell’amore, della maternità e paternità, della pace, dell’infanzia sono connessi alla cultura femminile. Poiché il “male” è una terribile realtà di ieri quanto di oggi, la donna come si comporta di fronte ad esso? Semplicemente dicendo: Se Dio non può aiutarmi, sarò io ad aiutare Dio (Cfr. Luisa Muraro, Il Dio delle donne, Mondadori 2003). Ci sono molti modi di farlo. Uno di questi, sicuramente lo racconta Rosenstrasse (Premio Unicef e Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile a KATJA RIEMANN, Venezia 60), un dignitoso film di Margarethe Von Trotta su un oscuro episodio di resistenza nel 1943, completamente “dimenticato”, rimosso ma che lei, tenacemente, con dieci anni di lavoro e di ricerche puntuali, ha portato alla luce.
 
La storia
A Berlino, tra il 27 febbraio e il 6 marzo 1943, una folla soprattutto di donne si radunò spontaneamente in Rosenstrasse, dove in un palazzo appartenuto alla comunità ebraica erano stati rinchiusi gli ebrei sposati o imparentati con ariani. Quelle donne erano ariane, alcune anche iscritte al partito nazista, ma si erano ritrovate lì, di giorno in giorno sempre più numerose, spaventate e coraggiose, a sfidare le SS e la Gestapo, cui Goebbels ordinò, poi, di sospendere momentaneamente le deportazioni perché,  scriveva nel suo Diario: “Ci sono state scene disdicevoli davanti a un palazzo giudeo dove una moltitudine di gente si è addirittura schierata con gli ebrei. Ho ordinato quindi di interrompere quella evacuazione in un momento così critico. Aspetteremo qualche settimana per riprendere l’operazione con migliori risultati”.
Alla fine, molti dei prigionieri di Rosenstrasse furono rilasciati.
 
L’incontro con la regista
(Margarethe von Trotta nel 1981 ha vinto il Leone d’Oro con Anni di piombo).

Siamo senza parole di fronte alla storia così tragica ma anche così commovente di queste donne ariane, assolutamente non scritta in nessun libro di storia contemporanea.
«Tale ricostruzione del passato  è poco nota anche in Germania. Per anni chi aveva anche solo sfiorato la tragedia del nazismo, da vittima, da carnefice o da indifferente, ha cercato solo di dimenticare, gli altri di non averne alcuna notizia. Adesso sta tornando il bisogno di ricuperare la memoria prima che anche l’ultimo testimone scompaia. Il mio progetto era pronto da dieci anni, e può darsi che sia stato il successo di Il pianista di Polanski ad aiutarmi a trovare i finanziamenti e a poterlo realizzare».
 
Quando si è cominciato ad avere delle informazioni su questo episodio di resistenza soprattutto femminile?
«Erano terribilmente spaventate e per questo ancora più eroiche. Su di loro è cominciata a trapelare qualcosa solo dopo la caduta del muro, nell’89, perché Rosenstrasse, con le sue tragedie rimosse, era nella Berlino Est. Ritengo che questo fatto sia  “un miracolo nazista”. Personalmente, ne ho appreso la loro vicenda dal mio  ex marito Volker Schlondorff(anche lui regista famoso) che riteneva che fosse un soggetto adatto a me, già nel 1995. Poi c’è stato un documentario in TV su tale tema. Confesso che è stato molto difficile reperire i fondi perché in Germania nessuno vuole più sentire storie su quel drammatico periodo, sulla Shoà. Sulla guerra e i suoi orrori, in Germania sono stati girati una decina di film in tutto, dove si è mostrato la crudeltà senza limiti dei nazisti e dato voce ai nostri sensi di colpa, ma di quell’episodio di piccola resistenza non si era parlato mai, per una sorta di autoassoluzione collettiva: tutti colpevoli, quindi nessun colpevole. Invece non è così, le donne che protestarono davanti al palazzo di Rosenstrasse dov’erano rinchiusi i loro mariti, i loro figli e che ogni giorno aumentavano di numero, in quella settimana tra il 27 febbraio e il 6 marzo del ’43, sfidando l’ira di Goebbels, dimostrano che qualcosa si poteva fare. E non è stato fatto».
 
Pensa che le donne fossero più coraggiose degli uomini, in quel tempo?
«Non so se le donne fossero più coraggiose e gli uomini più vili, certo è che furono molti più uomini che donne ariani a chiedere il divorzio dal coniuge ebreo. E’ vero che per gli uomini restare legati a una ebrea voleva dire subire umiliazioni e persecuzioni anche nel lavoro, mentre le donne, quasi tutte casalinghe secondo l’ideale nazista, avevano meno da perdere».
 
Nella Berlino già dilaniata dai bombardamenti e dopo la battaglia di Stalingrado, che già presagiva la sconfitta, i nazisti  sembrano esageratamente malvagi.
«Anzi, sono stata molto prudente. Qualsiasi testimonianza si raccolga anche di quell’episodio è oggi angosciosamente incredibile. E’ per questo che quella disumanità va continuamente ricordata. E io racconto di un evento a lieto fine, se così si può dire, forse unico nella storia del nazionalsocialismo, perché almeno temporaneamente quella ribellione di donne risultò vittoriosa».

Vi è un nesso tra le donne di Rosenstrasse e quelle di Plaza de Mayo?
«Assolutamente no. Le donne argentine erano organizzate e la loro protesta era anche politica, contro il governo militare. Nella Germania nazista una opposizione politica era impossibile: quelle tedesche manifestavano individualmente per riavere i loro mariti, e si ritrovarono ad essere una moltitudine, forse più di un migliaio, senza alcun accordo o progetto collettivo.
Erano terrorizzate ma irremovibili(è struggente la scena che le riprende mentre avanzano imperterrite, senza emettere un lamento, per sfondare il muro dei nazisti armati a difesa della prigione), anche quando per spaventarle arrivarono i soldati con le mitragliatrici, poi subito tolte: dapprima mute, solo alla fine qualcuna si mise a mormorare, poi a gridare: assassini!».
 
Hitler era andato al potere, si dice, soprattutto col voto delle donne, che continuarono ad amarlo sino quasi alla fine.
«Forse lo amavano anche quelle di Rosenstrasse, che in fondo ubbidivano, reclamando i loro mariti, alla ideologia nazista che imponeva alle donne lealtà, fedeltà e sottomissione al proprio uomo. Le “puttane degli ebrei”, come venivano chiamate le mogli ariane che rifiutavano il divorzio, erano delle buone mogli, e perciò delle vere tedesche e delle naziste esemplari. Fu proprio per questa contraddizione che i soldati non aprirono il fuoco contro di loro: le ammiravano, non per il loro coraggio ma per la loro lealtà verso il marito anche se ebreo».
 
Da quando si è cominciato a parlare dell’Olocausto nelle famiglie tedesche?
«Per anni, fino al Sessantotto che cambiò il modo di guardare il mondo dei giovani europei, nelle famiglie tedesche l’Olocausto rimase un tabù. Ma non si poteva sempre tacere, così, ora, che tutto s’è detto, è possibile mostrare anche piccoli atti di coraggio che ci rendono meno pessimisti sulla natura umana».

Curiosità
I film sull’Olocausto hanno sempre una carica emotiva devastante e «Rosenstrasse» non fa certo eccezione. Tra l’altro, la cineasta è  l’unica tedesca ad aver affrontato questo tema, che è particolarmente spinoso per i suoi compatrioti. La sua visione è assolutamente imparziale e mostra i due lati della Germania, quella oltranzista e quella della gente comune che vede deportare persone con cui ha condiviso la vita fino a pochi giorni prima, senza spesso sapere quale fosse il reale destino di quegli sventurati.
L’olocausto è il massacro più raccontato della storia. Migliaia sono i libri ed i film che ne narrano le terribili esperienze. Eppure, di eccidi e stermini di massa sono pieni i libri di storia. Anche di quella più recente.
Chi ricorda, per esempio, lo sterminio di milioni di armeni in Turchia? Oppure  i massacri di intere etnie di tribù africane relegate ai margini delle pagine dei nostri quotidiani?
Sugli OLOCAUSTI INDIANI, “Matrubhoomi” (“Un paese senza donne”) un film del giovane regista indiano Manish Jha, mette il dito in una piaga terribile del continente indiano: la pratica di uccidere le neonate dopo la loro nascita. Si tratta di un olocausto quotidiano, perpetrato da secoli. Un olocausto familiare, domestico. Ma chi protesta, per questo?

La scheda
Titolo originale: Rosenstraße; Durata: 136 min. (colore); Paese: Germania / Olanda; Anno: 2003; Genere: Drammatico; La trama: Ruth Weinstein, una signora newyorkese, ha appena sepolto il marito. Nel dolore riflette sulla religione ebraica ortodossa e organizza un lutto di trenta giorni per tutta la famiglia. Inoltre, disapprova il matrimonio della figlia Hannah con il sudamericano Luis. Per capire come mai la madre si comporti così stranamente, Hannah, alla ricerca di indizi… 
Ruth Weinstein, una signora newyorkese, ha appena sepolto il marito. Nel dolore riflette sulla religione ebraica ortodossa e organizza un lutto di trenta giorni per tutta la famiglia. Inoltre, disapprova il matrimonio della figlia Hannah con il sudamericano Luis. Per capire come mai la madre si comporti così stranamente, Hannah, alla ricerca di indizi…
 
KATJA RIEMANN
A Katja Riemann protagonista del film di Margarethe Von Trotta «Rosenstrasse» è stata assegnata la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile di Venezia 60. Un premio meritatissimo per il suo calarsi così sinceramente nei panni di Lena, la bellissima tedeschina di estrazione nobiliare, pianista celebre, con il solo torto di aver sposato un violinista ebreo. Emozionatissima e commossa fino alle lacrime, ha dichiarato:

«Per noi l’Olocausto è una cosa troppo vicina. Non siamo mai riusciti, di fatto, a fronteggiarlo con la dovuta forza interiore. Ancora oggi mettiamo da parte storie, emozioni e situazioni che provengono da quegli anni».

E’ una rimozione della memoria?
«No, non credo. Ritengo solo che ci voglia un po’ più di tempo. Vede, la sceneggiatura di Schindler’s List era un progetto che affondava le sue radici negli anni Sessanta. Eppure in quell’epoca sarebbe stato impossibile accettare di realizzare quel tipo di film. Era troppo vicino. Adesso, anche se questa storia avvenuta nella zona est di Berlino è apparsa già nel 1989 dopo solo quattordici anni è stato già possibile trasformarla in un film».

Perché?
«In parte, perché è più facile accantonare  il proprio senso di colpa nel vedere, finalmente, ritratto anche qualche tedesco buono in grado di ribellarsi alla follia nazista».