(di Marina Forti, 28.10.01) - Premono davanti alla porticina, dove un addetto cerca di tenerle a bada. Qualcuna stringe tra le braccia un bambino, una mostra un bebe' avvolto in uno scialle. Riusciranno a entrare una a una: nel cortiletto sono ormai decine, attendono impazienti il proprio turno di mostrare un bambino ammalato a una delle dottoresse che presta servizio volontario in questo ambulatorio improvvisato. Siamo in un quartiere residenziale di Peshawar, dove una villetta e' la sede dell'Afghanistan Women Council, Consiglio delle donne afghane: dalla meta' di settembre sono subissate da richieste di aiuto, e la richiesta piu' pressante, ci dice la signora Fatana Gilani, e' il puro e semplice cibo: i rifugiati afghani, quelli che continuano ad arrivare nonostante tutte le frontiere chiuse, hanno fame.

SETTE MILIONI DI AFGHANI RISCHIANO LA MORTE PER FAME

“Possibile che nessuno si renda conto? Ieri mattina, qui fuori, ho trovato tre o quattrocento donne che aspettavano, esasperate. Mi tiravano per la sciarpa: ‘dove andiamo, cosa daremo da mangiare ai nostri figli, siamo appena arrivate da Kabul e abbiamo perso tutto’. Sono persone traumatizzate, hanno pagato contrabbandieri per arrivare a piedi attraverso le montagne, non hanno denaro, e qui trovano solo telecamere e giornalisti. Ormai vi odiano”. Fatana Ishaq Gilani e’ una bella signora sulla quarantina con un viso amaro. Lei appartiene a una famiglia di notabili; e’ fuori dall’Afghanistan da 22 anni e ha cominciato il suo attivismo per i diritti delle donne negli anni ’80. Ha partecipato a fondare il Consiglio delle donne afghane nel ’93 per “dare alle donne il posto a cui hanno diritto nella societa’ afghana” e difendere “i diritti civili e sociali delle donne”. E’ un’organizzazione indipendente, precisa, e non ha finanziamenti istituzionali ma solo donazioni private, beneficenza: con queste gestisce dal ’92 un ambulatorio a Kabul oltre all’ambulatorio di Peshawar (l’assistenza e’ gratuita); una scuola (Aryana High School) pure fondata nel ’92, circa 5.000 scolari dalla prima alla dodicesima classe, attivita’ culturali. Ma su tutto questo ora prevale l’urgenza: “Da meta’ settembre 400 famiglie sono venute alla nostra porta a chiedere aiuto, significa alcune migliaia di persone. Ora abbiamo abbastanza per distribuire cibo a 200 famiglie per un mese, oltre a curare donne e bambini, ma i nostri mezzi sono limitati. Che posso dirle? Il mio paese e’ distrutto, centinaia di migliaia di persone vagano in cerca di aiuto, chi puo’ pagare un passeur fugge”. Parliamo in un piccolo ufficio, ogni tanto un’assistente porge biglietti da visita di troupes televisive che chiedono di filmare. Alle pareti foto della signora Gilani in conferenza internazionali, accanto a dirigenti della Nazioni Unite, mentre riceve riconoscimenti… “In quante conferenza sui diritti umani siamo andate a parlare di cosa succede in Afghanistan! La realta’ e’ che prima dell’11 settembre non ci ascoltava nessuno. Finita la guerra contro l’Unione Sovietica c’era un paese da ricostruire, ma proprio allora il mondo ci ha dimenticato – salvo quelli che hanno continuato a dare armi e soldi ai mojaheddin, ogni paese ha sostenuto la fazione che gli era utile. I mojaheddin hanno continuato a combattersi in nome della religione mentre gli afghani sono scivolati sempre piu’ nella miseria e la vita per le donne e’ diventata impossibile. In Afghanistan il sangue scorre da oltre vent’anni”. Le parole diventano un torrente: “Ora hanno deciso di bombardare questo paese gia’ stremato. Ma si chiedono da dove sono venuti i Taleban e i loro protetti? Perche’ sono stati zitti per ben cinque anni, e ora decidono che per cacciarli ci vogliono proprio le bombe?”. Gilani e’ scettica sul “governo di ampia coalizione” per l’Afghanistan post Taleban: “chiamano a negoziare sempre e solo i leader religiosi e i comandanti: sono proprio loro che hanno creato il disastro. Bisogna finirla con le barbe lunghe”. La situazione umanitaria e’ insostenibile, insiste Fatana Gilani: “Chiediamo di fermare subito questa guerra. Gli afghani stanno gia’ morendo di fame, all’interno e anche qui nei campi profughi”. Esasperata: “Perche’ nessuno fa qualcosa? L’Unhcr? Perche’ non riescono a distribuire cibo? Abbiamo chiesto all’Unicef di darci una mano, ed ecco tutto quello che ci hanno mandato”, e indica un modesto scatolone di  medicinali. “E’ venuta anche la vostra viceministro degli esteri: e’ venuta con me a visitare un campo profughi, mi ha detto che il nostro lavoro e’ tanto prezioso, si e’ commossa, e’ stata fotografata, ha promesso aiuti. Poi e’ ripartita e non abbiamo visto nulla”. Fatana Gilani parla di gente umiliata e costretta a mendicare. “Nel campo di Jalozai dall’inizio dell’anno e’ morto un centinaio di donne, di malnutrizione e malattie”. Gia’, perche’ ancor prima dei bombardamenti, decenni di guerra e tre anni consecutivi di siccita’ avevano fatto dell’Afghanistan il paese forse piu’ povero e certamente meno accessibile del mondo. Le Nazioni Unite stimano che 6 o 7 milioni di persone all’interno del paese non abbiano cibo se non quello distribuito dalle agenzie umanitarie, che pero’ non hanno potuto o saputo fare molto. Nell’ultimo anno attorno a Peshawar i vecchi campi profughi si sono ingrossati e ne sono cresciuti di nuovi, “spontanei”, maltollerati dalle autorita’ pakistane, che hanno chiuso le frontiere. L’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Acnur-Unhcr) ora e’ impegnato in un braccio di ferro con il governo pakistano: Islamabad ha autorizzato la costruzione di un campo profughi presso Quetta, in Baluchistan, ma solo per i “casi vulnerabili”. Il nodo della contesa e’ il riconoscimento dello status di rifugiati ai fuggiaschi: questo spaventa il governo pakistano, che si trincera dietro i due o tre milioni di afghani gia’ insediati qui, un onere di cui il Pakistan e’ solo a farsi carico. Ora l’Acnur stima che tra 10 e 15mila persone stiano premendo ai confini; Islamabad chiede che le agenzie internazionali si occupino di loro oltreconfine, in territorio afghano. “Campi profughi oltre confine? E’ pericoloso. E’ lasciarli allo sbaraglio”, commenta Nadia, giovane redattrice del bollettino mensile dell’associazione (“Zani-i-Afghan”, “La donna afghana”, dodici pagine in pashto e in dari). Ora anche lei si occupa soprattutto di far fronte al fiume quotidiano di richieste di aiuto. Come a prevenire una richiesta rituale, ci propone di parlare con qualche donna appena arrivata da Kabul. Ci presenta Sanisa, arrivata due settimane fa con i suoi nove figli, il marito e’ stato rapito dai Taleban per mandarlo a combattere. Vive in casa di parenti, “ma sono troppo poveri per nutrire me e i miei figli e sono venuta qui a vedere se distribuiscono del cibo”. Piange: una volta era un’impiegata statale, a Kabul, “poi quando la citta’ e’ stata presa dai Taleban ci hanno mandato via e mi sono guadagnata da vivere facendo la domestica, e vendendo un po’ di ricami”. Ora non ha notizie della madre e della sorella rimaste a Kabul. “Vuoi parlare con una donna che nella fuga ha perso suo figlio?”, propone ancora Nadia. No, grazie, perche’ infliggere a una donna disperata anche la sofferenza di raccontare forse per l’ennesima volta la propria tragedia? “Beh, i giornalisti di solito ce lo chiedono”.


Articolo di Marina Forti, inviata a Peshawar del quotidiano “Il manifesto”, che ha pubblicato questo articolo il 26 ottobre