[a cura del Team De Falco-Marotta • 23.09.03] Apprendo da “Screen international, un giornale inglese che si occupa di cinema e sembra un lenzuolo, distribuito nei giorni bollenti della Rassegna del Cinema di Venezia, le prime due pagine riportano la pubblicità del film russo, cui la giuria di Venezia 60, guidata da Mario Monicelli, ha assegnato il Leone d’oro per il miglior film in concorso, suscitando un mare di polemiche che non si placheranno facilmente, tant’è che l’amministratore delegato di Raicinema, Giancarlo Leone, ha dichiarato che la Rai...

UN «LEONE D’ORO» TRA POLEMICA E POLITICA: THE RETURN

Apprendo da “Screen international, un giornale inglese che si occupa di cinema e sembra un lenzuolo, distribuito nei giorni bollenti della Rassegna del Cinema di Venezia, le prime due pagine riportano la pubblicità del film russo, cui la giuria di Venezia 60, guidata da Mario Monicelli, ha assegnato il Leone d’oro per il miglior film in concorso, suscitando un mare di polemiche che non si placheranno facilmente, tant’è che l’amministratore delegato di Raicinema, Giancarlo Leone, ha dichiarato che la Rai non invierà più alcun film al suddetto concorso perché “A Venezia non vi sono le garanzie sui criteri della selezione né su quelli della formazione delle giurie” (Cfr. La Stampa,8 settembre 2003, pag.28). Infatti, tutti davano vincente il film di Marco Bellocchio, “Buongiorno notte”, accolto molto favorevolmente non solo alla Mostra, ma anche in molte sale del nostro Paese. Chiacchiere, illazioni, pensieri rancorosi si sono sprecati per almeno due ragioni che non possono essere dimostrate, ma che appaiono opinabili: la Russia ha bisogno di sostegno per la tragica situazione in cui è, specie economicamente, tant’è che Putin ad agosto è andato in Sardegna da Berlusconi, che gli ha promesso aiuti di ogni genere (anche culturale e il cinema rientra in quest’ambito). Mario Monicelli, celebre regista di un cinema italiano amatissimo, essendo il Presidente della giuria, avrebbe potuto usare la sua autorevolezza per spingere la “bilancia” ad inclinarsi verso il film di Bellocchio che era stato applaudito concordemente (cosa che non è successo con il russo) da tutti, pubblico e critici (e i giurati si siedono in platea tra il pubblico). E Accorsi, che l’anno scorso ricevette la Coppa Volpi per la sua interpretazione nel film “Un viaggio chiamato amore”, è rimasto muto durante le discussioni piuttosto lunghe che hanno preceduto il verdetto? Ma “The Return”  vale la spesa di un biglietto per vederlo? Forse che si, forse che no.
 
LA STORIA
Un uomo e due ragazzini, in giro per sperdute località, uno dei caratteristici film che piacciono a de Hadeln, “Il Ritorno” di Andrey Zvyagintsev, 39 anni, che viene dalla tv e fa thriller psicologici, accentua le immagini di paesaggi pittoreschi, adatte al grande schermo. Due  teenager ritrovano il padre che li ha abbandonati 12 anni prima. I ragazzi, adolescenti  che si sottopongono a varie prove di coraggio( il lancio nelle acque gelide da un altissimo trampolino), del comando virile,  invece di fuggire come dovrebbero, danno una chance all’uomo. Lui, misterioso, non proprio povero, duro, se li porta in macchina, prima in città, dove li sottopone alle prime prove di autonomia e violenza. Poi in camping in un’isola sperduta. Più lui sgrida e minaccia più i ragazzi si coscientizzano. Ivan, il più piccolo, quello che sembra più codardo, è invece il più deciso. Ha capito. Ora che ha il papà tutto per sé intuisce che solo con il parricidio diventerà davvero adulto. Ruba il coltello. «Se mi mette le mani addosso lo ammazzo» dice all’altro più grande ma più remissivo. Papà gli mette le mani addosso, dopo una marachella. Il padre morirà, cadendo dall’altissima torre su cui si era rifugiato il piccolo. Non manca l’allegoria politica. La nuova Russia ha un padre di cui ancora è bene non fidarsi. O non sa bene come riconoscerlo, anche se ci fosse. Ed è comunque da eliminare, perché non è O.K. Vi è poi la metafora figurativa, artistica. Il papà appare la prima volta in una stanza, dormiente, come il Cristo di Mantegna. I ragazzi rimangono sbigottiti. Un  individuo, in carne e ossa,  con una psicologia complessa, non un’icona di frontale e sfrontata astrattezza, come da sempre lo immaginavano. Per rendersi conto che sia proprio lui, lo  confrontano con l’unica foto che la mamma conservava. Questo padre di cui hanno sempre sentito acutamente la mancanza, potrebbe essere qualsiasi individuo: un terrorista, un fuggitivo, uno dei tanti delinquenti che oggi popolano la Russia… Il mistero più profondo lo avvolge e il suo enigma non verrà  mai risolto, mentre la pressione psicologica, fino all’ultima scena, è gravida di minacce ed interrogativi voluti dal destino e che finiranno nelle gelide acque del mare del Nord. Il film, girato vicino a San Pietroburgo, tra il lago Ladoga e il golfo di Finlandia è stato funestato dalla tremenda disgrazia della morte di  Vladimir Garin,(il fratello più grande) uno dei due giovani attori della storia , deceduto per un incidente dopo la fine delle riprese: è annegato proprio nello stesso lago che si vede nel film e nelle cui acque, nella finzione, viene invece «sepolto» il padre.
Vladimir, che nel film impersona Andrey, il più grande dei due fratelli, era nato nell’87 a San Pietroburgo e si era diplomato alla Scuola nazionale di musica, in pianoforte e tromba; aveva cominciato a lavorare al Teatro musicale di Stato nello spettacolo Behind the Mirror .Ivan Dobronravov, il piccolo dalla lingua puntuta, 14 anni,  alla proiezione  ha pianto di commozione nel ricordare il suo amico, che- dice- rimarrà per sempre nel suo cuore( e lo crediamo, dopo tutte le disavventure passate insieme).

IL REGISTA E LE SUE RISPOSTE
Andrey Zvyagintsev, classe 1964, faccia pulita da seminarista, occhi verdi ingabbiati dagli occhiali da intellettuale, laureato in recitazione alla scuola statale di Mosca, è una specie di miniera enciclopedica sul cinema: conosce tutti e, dice, nel suo film si è ispirato ad Antonioni.
 
Come ha scelto i due ragazzini?

I due ragazzi, scelti uno a Mosca e uno a San Pietroburgo dopo cinque mesi di infiniti provini, hanno  lavorato con sorprendente felicità. C’è stata sintonia, un rapporto magico di qualità umane e comprensione creativa. Al primo giorno di ciak abbiamo rispettato la tradizione russa e rotto un piatto per buon auspicio. Loro due non temevano il cinema, vedevano i risvolti della finzione e cercavano di fare del loro meglio. Riuscendoci, perché il loro apporto è basilare nella storia, che sembra mettere a confronto due generazioni.
 
Il suo film, narra del conflitto generazionale tra padre e figli, è questo sempre un tema ricorrente anche oggi?
Nel viaggio iniziatico verso l’età adulta i due ragazzi perdono il padre, che entra nella loro vita, la sconvolge e poi ne esce: è uno dei passi per crescere. Tenevo a questo progetto, l’ho disegnato scena per scena. Il conflitto generazionale è un problema di ogni tempo: non sparirà mai.
 
Si può pensare che lei voglia metaforicamente indicare  la vecchia e la nuova Russia?
Può essere una lettura interessante, però non si deve parlare di significati sacrali ed importanti, perché appena se ne discute la magia e la sacralità evaporano. Sin dal principio della lavorazione, ho deciso di astenermi da qualsiasi interpretazione lasciando al pubblico la capacità di giudicare da solo.
 
Ama, in modo particolare, un autore?
Certamente, il mio cult è Dostoevskij perché fa filosofia attraverso storie concrete, non simboli astrusi.

CURIOSITA’
Nella storia della Mostra questo, dopo quarant’anni, è il terzo film russo ad avere vinto il Leone d’oro: nel 1962 il premio era andato ad Andrej Tarkovskij per “L’infanzia di Ivan” (ex aequo con “Cronaca familiare” di Valerio Zurlini), mentre nel 1991 era stata la volta di “Urga” di Nikita Michalkov.